Svolgimento del processo
Con decreto emesso in data 19/7/21 il g.u.p. disponeva il giudizio nei confronti di An. AL. innanzi al Tribunale di Udine in composizione monocratica in relazione ai reati ascritti in rubrica.
Il 14/12/21, una volta dichiarata l’assenza dell’imputato, venivano ammesse le richieste di prova formulate dalle parti.
All’udienza del 18/2/22 si iniziava l’istruttoria con l’escussione della persona offesa.
Il 19/4/22 veniva sentito il teste Mar. Lu. Fi. e, previa acquisizione del verbale di s.i.t. di An. Gr. e Ri. Ma., le stesse venivano sentite con domande a chiarimento. Inoltre, con il consenso delle parti veniva acquisito il verbale di s.i.t. di Mi. Ri. Ca. con rinuncia all’esame del teste. La difesa depositava decreto emesso dal Tribunale di Udine Sezione Civile in data 22 marzo 2022 contenente la regolamentazione delle condizioni di affidamento e mantenimento della figlia dell’imputato e della persona offesa.
All’udienza del 13/5/22 il difensore dell’imputato, nulla opponendo il P.m., rinunciava all’esame dei propri testi di lista.
Indi, dichiarata chiusa l’istruttoria dibattimentale, all’esito della discussione delle parti, sulle conclusioni delle stesse riportate in epigrafe, il Tribunale decideva la causa mediante lettura di separato dispositivo.
Diritto
Motivi della decisione
L’esito dell’istruttoria dibattimentale deve condurre alla pronuncia di una sentenza di condanna nei confronti dell’odierno imputato per i fatti a lui ascritti, previa riqualificazione del reato di cui al capo a) di rubrica nella fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.
Il procedimento ha tratto origine da una denuncia querela presentata dalla persona offesa Gi. Cu..
La stessa, sentita in dibattimento, ha innanzitutto chiarito di avere conosciuto l’imputato nel (omissis) e di avere avuto con lui una breve frequentazione. I due si erano incontrati nuovamente nel (omissis), quando avevano iniziato una relazione affettiva, senza mai convivere. Nel (omissis) era nata la figlia della coppia, Gi., una volta che i due avevano già interrotto la loro relazione poiché l’imputato ne aveva nel frattempo iniziata una con altra donna. Al. aveva sempre mantenuto i contatti con la figlia Gi., recandosi a trovarla tutte le volte che voleva a casa della Cu., che viveva assieme alla madre. Nel (omissis) l’imputato aveva proposto alla persona offesa di riprendere la loro relazione sentimentale, ma la donna si era rifiutata. Dal (omissis) in poi l’imputato aveva iniziato a tenere una serie di comportamenti che erano stati fonte di sempre maggior disagio per la persona offesa: per la precisione aveva iniziato ad essere molto ossessivo con lei, a controllarle il telefono, a seguirla e a controllarne gli spostamenti. La persona offesa ha raccontato che nell'(omissis), mentre stava facendo le pulizie a casa e Al. stava accudendo la bambina, quest’ultima era scivolata a terra e la Cu. si era arrabbiata con l’imputato, il quale aveva perso il controllo, l’aveva afferrata per il collo e l’aveva buttata sul divano. In un’altra occasione Al., dopo aver controllato i messaggi ricevuti sul cellulare della Cu., aveva iniziato ad insultarla davanti alla bambina dicendole che un professore con il quale la ragazza aveva scambiato dei messaggi aveva delle strane intenzioni nei suoi confronti. Al. alternava momenti di serenità con scatti d’ira, all’esito dei quali chiedeva sempre alla Cu. di perdonarlo, come lei faceva. A (omissis) Al. si era recato a casa della Cu. mentre lei era in compagnia della madre e di An. Gr. ed aveva iniziato a ripetere che voleva tornare assieme alla ex compagna. Al rifiuto della ragazza, Al. la aveva presa per il collo e l’aveva minacciata. Cu., poi, aiutata dalla madre, era riuscita a farlo allontanare da casa, dicendogli che da quel giorno in poi non poteva più fare ingresso nell’abitazione senza autorizzazione, come sin lì aveva sempre fatto. Il giorno successivo l’imputato aveva chiesto alla persona offesa di vedere la figlia e, al rifiuto della Cu. – giustificato dal fatto che iniziava a provare timore di lui – Al. si era presentato a casa della donna, aveva scavalcato la recinzione e aveva iniziato a guardare all’interno della casa dalle finestre. La Cu. aveva chiesto l’intervento dei Carabinieri, che lo avevano fatto allontanare. Anche nei giorni a seguire Al. aveva fatto degli accessi presso l’abitazione della persona offesa senza il suo consenso. Cu. ha anche raccontato che un giorno Al. l’aveva seguita in Piazzale (omissis) a (omissis) assieme alla bambina, mentre lei si stava recando a fare una visita dal dermatologo. In una altra occasione nel (omissis), invece, Al. l’aveva seguita al parco. La persona offesa ha spiegato che l’imputato era ossessionato dal fatto che lei avesse un nuovo compagno, tanto che, oltre a seguirla per controllarne i movimenti, le chiedeva continuamente “come sta il tuo fidanzato?”, benché lei non avesse alcuna frequentazione. In merito alle percosse subite dall’imputato, la persona offesa ha riferito, oltre agli episodi già narrati, di essere stata colpita nel (omissis) per la prima volta per ragioni di gelosia, di avere subito una tirata per i capelli nel (omissis) e poi nel (omissis), per gli stessi motivi, di essere stata colpita davanti a Gi. con un pugno sul braccio destro. Al. poi aveva riferito a Cu. di nutrire molta rabbia nei suoi confronti, minacciandola con frasi del tipo “stai attenta a quello che fai”, “stai attenta se hai una persona con cui ti vedi”, “guarda che ti faccio uscire da qua senza le gambe”. Inoltre, spesso la insultava dandole della “puttana”. Lei cercava di evitare il più possibile di uscire in compagnia di amiche, onde evitare di sentirsi controllata: una volta, ad esempio, che aveva parcheggiato la vettura per bere un aperitivo con una amica al (omissis), aveva visto l’imputato transitare in auto davanti a lei. La persona offesa ha spiegato che i comportamenti della persona offesa erano divenuti particolarmente ossessivi all’inizio del (omissis) ed erano proseguiti sino all'(omissis). Cu. ha, infine, raccontato che dopo il verificarsi dei fatti sopra esposti è sempre stata pervasa dalla sensazione di essere seguita, provando ansia.
Il Mar. Lu. Fi. ha dichiarato di avere acquisito la querela e l’integrazione della querela della persona offesa e di avere estrapolato dal cellulare della stessa la chat (omissis) dei messaggi scambiati con l’imputato dall'(omissis). Ha dichiarato di avere, inoltre, acquisito dalla Polizia locale le immagini di data (omissis) di Piazzale (omissis) a (omissis) (dalle quali si è potuto trarre un elemento di riscontro al racconto della persona offesa).
An. Gr. nel verbale di s.i.t. acquisito con il consenso delle parti ha spiegato di essere amica della madre della persona offesa, nonché madrina di Gi.. Ha raccontato di avere assistito ad un episodio a fine febbraio (omissis) nel quale, mentre lei era a passeggio con Cu. e la bambina, Al. le aveva avvicinate ed aveva subito iniziato a litigare con la ex compagna, rimproverandola per avere portato Gi. all’esterno. Nel corso del litigio Cu. gli aveva chiesto cosa facesse lui da quelle parti e l’imputato aveva risposto “non sono cazzi tuoi”. Gr. ha riferito che qualche settimana dopo, quando era a casa della Cu., aveva visto la stessa litigare con Al. all’esterno dell’abitazione; la ragazza poi, rientrando in casa, aveva chiesto alla madre di chiudere subito la porta. Al., però, era riuscito a spingere la porta ed ad entrare all’interno di casa e, mentre la Cu. si era spostata in altra stanza con Gi., lui aveva spiegato alla Gr. e alla madre della Cu. che era disperato e che voleva solo vedere la figlia. Infine, Gr. ha narrato che nello stesso periodo aveva visto Al. passare a bordo della sua vettura nei pressi della casa della Cu. e più tardi aveva visto la sua auto parcheggiata non molto distante, con lui all’interno, con vista sulla casa della persona offesa.
Mi. Ri. Ca., cugina della persona offesa, ha riferito di avere sentito un giorno a (omissis) una discussione avvenuta tra Al. e Cu. alla presenza di Gi., nel corso della quale Al. aveva ripetuto alla persona offesa la volontà di tornare assieme a lei. Ha aggiunto che più volte la cugina le aveva “espresso insofferenza lamentando il controllo che a suo dire subiva e subisce da parte di An.”. Un giorno mentre messaggiava con Cu., la stessa le aveva detto che Al. le stava scrivendo in modo assillante accusandola di essere online con un uomo, aggiungendo che l’imputato la controllava anche sull’applicativo (omissis).
Ri. Ma., madre della persona offesa, ha riferito di avere assistito ad un litigio avvenuto a (omissis) tra la figlia e Al. in seguito al quale l’imputato con forza era riuscito ad entrare in casa e poi a spiegare, buttandosi in ginocchio, che voleva solo vedere la bambina. La donna ha poi raccontato che circa un anno prima Al. aveva inviato alla figlia la foto di un coltello, minacciando di uccidersi. Ha poi raccontato che a (omissis) la figlia le aveva riferito che aveva posto dei paletti all’Al. in merito ai suoi accessi a casa; lo stesso, il giorno successivo, aveva suonato il campanello senza che nessuno aprisse e a quel punto aveva fatto il giro della casa portandosi vicino alle porte finestre a bussare. Ma. ha poi riferito di avere sentito più volte la figlia e Al. discutere sull’educazione della figlia e di avere più volte sorpreso l’imputato stazionare o transitare nei pressi della sua abitazione ingiustificatamente. Ha aggiunto di avere saputo dalla figlia che una sera Al. si era introdotto nel giardino dell’abitazione, aspettandola in garage, e che altre volte le aveva guardate tramite i vetri delle finestre di casa. Cu. le aveva anche riferito che Al. la assillava per come si vestiva e si truccava e che era convinto che lei frequentasse un altro uomo; inoltre, quando Al. era a casa con la bambina e la Cu. usciva, lui le mandava numerosi messaggi per sapere con chi fosse e che cosa stesse facendo.
Come anticipato, è stata acquisita la copia di un estratto dei messaggi (omissis) scambiati tra la persona offesa e l’imputato tra il (omissis) e il (omissis); in alcuni di essi la Cu. si lamentava con l’Al. del fatto che lui le avesse controllato il cellulare (cfr. chat del (omissis)), o l’avesse aggredita fisicamente (cfr. chat dell'(omissis) e del (omissis)), o ne avesse controllato gli spostamenti (cfr chat del (omissis)), o l’avesse minacciata (cfr. chat del (omissis)).
Per completezza va evidenziato che è stato acquisito anche l’album fotografico e il DVD contenenti le immagini registrate dalle telecamere di Piazzale (omissis) a (omissis) in data (omissis).
Così ricostruite le prove acquisite nel corso del dibattimento, in punto di diritto va premesso che, come più volte ribadito in sede di legittimità, “le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, sebbene non sia necessario applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., che richiedono la presenza di riscontri esterni” (cfr. Cass., Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020 Rv. 279070).
Nel caso in esame la deposizione della persona offesa, peraltro neppure costituitasi come parte civile, ha certamente superato positivamente il vaglio relativo alla credibilità soggettiva ed alla attendibilità intrinseca del racconto.
Innanzitutto, Gi. Cu. è parsa intrinsecamente attendibile, poiché le sue dichiarazioni sono state estremamente precise, lucide e circostanziate e il suo racconto è risultato privo di contraddizioni: la deposizione della persona offesa, invero, si è distinto per la compiutezza e la coerenza della narrazione, nonché per la cura e il carattere dettagliato della descrizione delle condotte poste in essere dall’imputato. Dati significativi dell’attendibilità della persona offesa sono altresì la descrizione dei fatti in termini oggettivi, senza alcuna esagerazione o manifestazione di astio particolare, nonostante il dispiacere nel rendere in aula il racconto, ma anche la comprensione manifestata nei confronti dell’imputato e il tentativo di auto-critica, condotte che hanno reso davanti a questo Tribunale la teste assolutamente genuina.
Le dichiarazioni della persona offesa risultano, peraltro, estrinsecamente confermate da una pluralità di elementi: si fa riferimento innanzitutto ai contenuti dei messaggi scambiati tra persona offesa e imputato, ma anche alle immagini acquisite dall’impianto di videosorveglianza di Piazzale (omissis) a (omissis) di data (omissis) ed alle deposizioni rese da An. Gr., Mi. Ri. Ca. e Ri. Ma., sulla attendibilità delle quali non vi è motivo per dubitare.
Ciò detto in punto di credibilità dei testi e passando ad analizzare i fatti contestati al capo a) di imputazione, si ritiene che risultino comprovate le condotte contestate all’imputato.
La persona offesa, infatti, ha confermato che a partire quantomeno dal (omissis) l’imputato aveva iniziato a tenere nei suoi confronti una condotta “ossessiva e paranoica”, dovuta principalmente al fatto che egli voleva riprendere la relazione sentimentale con la Cu., ma aveva ottenuto un rifiuto in tal senso dalla donna (1). Tra le condotte tenute dall’imputato, la donna ha raccontato che Al. le controllava il cellulare e in particolare i messaggi che scambiava con altri uomini, la seguiva come per controllarne gli spostamenti e le frequentazioni (ad esempio al parco o in Piazzale (omissis) a (omissis), quando lei doveva fare una visita), si rivolgeva a lei insultandola con il termine “puttana”, in talune occasioni percuotendola (ad esempio quando l’imputato l’aveva afferrata per il collo al suo rifiuto di riprendere la relazione sentimentale o l’aveva colpita al braccio destro durante una scenata di gelosia) e minacciandola, anche di morte.
In merito all’atteggiamento di controllo che l’imputato teneva nei confronti della persona offesa, anche An. Gr. ha confermato che un giorno aveva notato Al. fermo a bordo della sua vettura con vista sulla casa della Cu.. Ri. Ma., madre della persona offesa, ha confermato di avere sorpreso più volte Al. stazionare o transitare ingiustificatamente nei pressi di casa. Ha anche raccontato che quando Cu. usciva, l’imputato le mandava numerosi messaggi per sapere con chi fosse e che cosa stesse facendo. Mi. Ri. Ca. ha dichiarato che più volte la cugina le aveva confidato di essere insofferente a causa del controllo che subiva da parte dell’imputato. Ha poi raccontato che una sera, mentre stava messaggiando con Cu. tramite (omissis), la stessa le aveva confidato che era intenta a rispondere ad Al. il quale le stava scrivendo in modo assillante accusandola di essere online per scambiare messaggi con un uomo.
Se queste sono le condotte tenute dall’imputato, si osserva innanzitutto che la fattispecie deve essere riqualificata in quella di cui all’art. 612 bis secondo comma c.p.
Va chiarito che, come sinceramente ammesso dalla persona offesa, tra lei e Al. non vi è mai stato un rapporto di convivenza. I due avevano iniziato una relazione sentimentale nel (omissis), la quale era stata interrotta nel (omissis) ancor prima della nascita della loro figlia Gi.. È vero che secondo un indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. sentenza n. 17885/21 di data 11 febbraio 2021, che fa propri i principi già espressi, tra l’altro, da Cass. sentenza n. 37628/19 del 25 giugno 2019) l’art. 572 c.p. “è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472). In particolare, pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente quando questi conserva con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione per la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale (Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, Rv. 276697; Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, I., Rv. 270673; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078). In questo caso, nel rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 1, (Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, C., Rv. 268464; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026), il reato di maltrattamenti assorbe quello di atti persecutori anche in caso di avvenuta cessazione della convivenza se la tipologia della relazione fra l’agente e la persona indica il permanere di condizioni che richiedono solidarietà fra i due. Invece, si configura l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis c.p., comma 2) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), o determinati dalla sua esistenza e sviluppo, continuino nonostante la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o comunque della sua attualità (Sez. 6, n. 8145 del 15/01/2020, S., Rv. 278358; Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A, Rv. 267942; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026)”. Alla luce di tali principi, la Suprema Corte nel caso sottoposto al suo esame aveva ritenuto che, considerato il fatto che l’imputato e la persona offesa avevano generato due figli ancora minorenni all’epoca dei fatti, con cui l’imputato aveva una ordinaria continuità di rapporti con la connessa necessità di cooperazione tra i genitori – i quali, dunque, anche se non più conviventi, dovevano, comunque e per un tempo indeterminato, mantenere una relazione improntata a canoni di cooperazione, di solidarietà e di reciproco rispetto – aveva ritenuto correttamente qualificato il reato nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p.
Va, però, osservato che più recentemente la Cassazione ha rivisto i principi espressi nelle sopra citate sentenze. Con la pronuncia n. 39532/21 di data 6 settembre 2021 la Suprema Corte, nuovamente interrogatasi sul rapporto tra il reato di cui all’art. 572 c.p. e quello di cui all’art. 612 bis c.p., richiamandosi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 98/21, ha evidenziato che una volta cessata la convivenza non è più applicabile l’art. 572 c.p.: nel caso oggetto di tale pronuncia le condotte aggressive e violente in danno della ex convivente erano state poste in essere in una situazione nella quale il vincolo affettivo con la persona era del tutto cessato, permanendo, anzi la volontà della persona offesa di non ricostituire l’unione di fatto, tanto che nel caso in esame non era stato ritenuto applicabile l’art. 572 c.p. La Suprema Corte, richiamando il divieto di analogia in materia penale, ha, dunque, concluso nel senso che l’art. 572 c.p. può offrire tutela solo durante il rapporto di convivenza, mentre dopo la cessazione della convivenza rimane applicabile l’art. 612 bis c.p. Tale indirizzo ermeneutico è stato avallato anche nella più recente pronuncia n. 45095/21 del 6 dicembre 2021 con la quale la Cassazione ha confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso di convivenza more uxorio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di cui all’art. 612 bis c.p.
Dunque, facendosi applicazione dei principi da ultimo espressi dalla Cassazione, nel caso in esame, dove le condotte ascritte all’Al. sono state poste in essere al di fuori di qualsiasi rapporto di convivenza, sono riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.
Prendendo come riferimento normativo, dunque, il delitto di atti persecutori, si deve notare come le condotte poste in essere dall’imputato siano state in alcuni casi moleste – i pedinamenti, i controlli sul cellulare, i messaggi, i continui insulti – in altri minacciose – non solo la frase “stai attenta a quello che fai”, ma anche quella “guarda che ti faccio uscire da qua senza le gambe” ha un evidente significato minatorio, e lo stesso può dirsi per le spinte, la stretta al collo, le tirate di capelli o il pugno tirato al braccio posti in essere nel corso delle scenate di gelosia contestualmente al proferimento delle frasi intimidatorie (tanto che non si ritiene di dover riqualificare in percosse tali singoli episodi). Le prime, infatti, costituiscono un’intrusione continua e indesiderata, fastidiosa e inopportuna nella vita della persona offesa, avvenuta, assiduamente se non quotidianamente, in modo petulante e biasimevole, anche in luoghi pubblici (il parco o il centro città) e anche quando Cu. era da sola senza figlia. Le seconde condotte, invece, costituiscono, in modo a volte esplicito, altre implicito, la prospettazione di un male ingiusto che dipende dalla persona che proferisce la minaccia, idonee a incidere sulla tranquillità della persona offesa non solo alla luce della giovane età della stessa, ma anche delle modalità con cui queste erano state poste in essere da Al.. Questi, infatti, spesso compariva all’improvviso, quasi fosse sempre consapevole degli spostamenti della Cu.: emblematico in questo senso l’episodio avvenuto in Piazzale (omissis) a (omissis), quando la Cu. era da sola, o nel parcheggio del (omissis), quando doveva incontrare una amica per un aperitivo, ma anche al parco (e, in relazione a tale ultimo episodio, non potrà certamente ritenersi che Al. si trovasse casualmente al parco, essendo vicino a casa sua, dato che comunque è emerso che plurime sono state le condotte di controllo e pedinamento poste in essere nei confronti della persona offesa).
Anche l’abitualità della condotta appare evidente: la Cu. ma anche i testi hanno riferito di una pluralità di episodi. I fatti in contestazione, poi, sono avvenuti in un lasso temporale di più di un anno, periodo in cui l’abitualità della condotta ha preso forma, alla luce della continua e assillante reiterazione delle condotte.
Per quanto riguarda poi l’evento del reato, la persona offesa ha certamente provato un perdurante e grave stato d’ansia e di paura – inteso come destabilizzante turbamento dell’equilibrio psicologico e, più in generale, della propria serenità – non solo alla luce della sua giovane età, ma anche e soprattutto per le modalità con cui le condotte sono state poste in essere dall’imputato. Si è infatti tratteggiata una situazione di insistenza assillante, in cui Al. sembrava essere sempre a conoscenza dei movimenti della Cu., tanto da raggiungerla quando questa si recava al parco, o rientrava a casa, o portava a passeggio la bimba. Nell’ambito di un contesto di questo tipo, in cui l’imputato ha sempre mantenuto un atteggiamento aggressivo nei confronti della persona offesa, è evidente che le minacce poste in essere assumano un connotato particolarmente significativo e, di conseguenza, vengano prese sul serio dalla persona offesa.
Si deve ricordare che “In tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (da ultimo Cass., sez. VI, 50746/2014). Da questo punto di vista, si deve evidenziare che la persona offesa ha più volte affermato che la situazione aveva ingenerato in lei uno stato di vera e propria paura per quello che le sarebbe potuto succedere, tanto che la stessa lo aveva anche detto all’Al.. Ha aggiunto che aveva anche iniziato ad evitare di uscire con le amiche, onde evitare di sentirsi controllata, sensazione che via via con il tempo aveva iniziato a provare in maniera sempre più marcata.
D’altra parte, si deve evidenziare che l’imputato, in alcuni degli episodi contestati e provati a seguito dell’istruttoria dibattimentale, ha posto in essere anche delle vere e proprie minacce gravi nei confronti della Cu., certamente idonee a cagionare nella persona offesa paura nonché un fondato timore per la propria incolumità. Da questo punto di vista, deve essere ricordato, da un lato, che la minaccia è grave quando grave è il male prospettato e, da un altro, che il giudizio di gravità non è assoluto, ma relativo. In particolare, si deve tenere conto di tutte le circostanze oggettive (natura del male minacciato; modalità dell’azione; condizione di tempo e di luogo) e soggettive (relative all’agente e al soggetto passivo) della condotta. Qui ci si trova alla massima gravità del male minacciato, data dalla frase “guarda che ti faccio uscire da qua senza le gambe”; le modalità delle condotte devono ritenersi particolarmente suggestive, essendo costituite da apparizioni improvvise nei luoghi frequentati dalla persona offesa, che quindi ha certamente finito per sentirsi controllata e osservata (si pensi nuovamente all’episodio avvenuto in Piazzale (omissis) a (omissis). Alla luce di quanto appena detto, deve ritenersi provato anche il fondato timore della Cu. per la propria incolumità, di cui la stessa persona offesa ha riferito (ricordando brevemente che il timore è fondato quando è generato da minacce idonee allo scopo rispetto al caso concreto). D’altra parte, è proprio a causa dell’ansia cagionata da questa situazione che la ragazza ha cercato di modificare, seppur in parte, le proprie abitudini, iniziando, ad esempio, ad evitare di uscire con le amiche.
Accertati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica, deve, infine, essere notato che sussiste anche l’aggravante di cui al comma secondo dell’art. 612 bis c.p., essendo il reato stato compiuto ai danni di persona con la quale l’imputato era stato legato da relazione affettiva.
Infine si osserva che la pronuncia di condanna dell’imputato va limitata ai fatti contestati come commessi a partire dall’anno (omissis), per avere la stessa persona offesa ammesso che le condotte ossessive sopra meglio descritte erano iniziate all’inizio di quell’anno.
Passando ora ad analizzare il capo b) di imputazione, risulta comprovato che l’imputato più volte nel mese di (omissis) si fosse introdotto presso l’abitazione della persona offesa (dove ella viveva assieme alla madre) e nel relativo giardino, nonostante che Cu. gli avesse espressamente fatto divieto in tal senso.
La persona offesa ha chiarito che Al. aveva sempre avuto libero accesso alla sua abitazione, pur non avendo le chiavi di casa, per far visita alla figlia. Nel (omissis), però, dopo un litigio, Cu. aveva espressamente vietato all’imputato di fare ingresso a casa sua senza autorizzazione: nonostante tale divieto, però, Al. aveva in più occasioni fatto accesso alla casa ed al giardino della persona offesa. Ad uno specifico episodio avevano assistito anche An. Gr. e Ri. Ma., le quali hanno riferito che, nonostante che Ma. stesse cercando di chiudere la porta di ingresso di casa, Al. con la forza era riuscito a spingere la porta e a fare ingresso nell’abitazione. Ma. ha anche riferito che in una occasione Al. aveva atteso la figlia in garage al buio, nonostante che il portoncino di ingresso di casa fosse chiuso (tanto che in quella occasione lei stessa aveva chiamato l’imputato facendogli presente che aveva fatto accesso alla sua proprietà senza autorizzazione) e una volta, dopo che Cu. non gli aveva aperto il portoncino, lui aveva fatto accesso comunque al giardino di casa e aveva iniziato a bussare alle varie finestre.
Essendo stati plurimi, quindi, gli accessi non autorizzati presso l’abitazione della persona offesa e ritenuto sussistente l’elemento oggettivo del reato, nessun dubbio vi è sulla sussistenza anche dell’elemento psicologico. È pacifico che l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 614 c.p. è il dolo generico, che richiede la consapevolezza e la volontà di introdursi o trattenersi in un luogo che costituisce altrui domicilio contro la volontà di chi ne sia titolare. È pacifico che Al., dopo avere ricevuto l’espresso divieto da parte della Cu. di fare accesso alla propria abitazione, fosse consapevole del fatto di introdursi nella proprietà della persona offesa contro la sua volontà: ne è comprova il fatto che, per fare tali accessi, ha dovuto spingere con forza la porta di ingresso o saltare il portoncino di casa. Peraltro, ai fini della sussistenza del dolo generico, rimangono del tutto irrilevanti i motivi per i quali l’imputato avesse compiuto le violazioni, ed in particolare, ad esempio, il desiderio di vedere la figlia.
In conclusione, dunque, l’imputato andrà dichiarato responsabile dei reati a lui ascritti, previa riqualificazione del reato di cui al capo a) di rubrica in quello di cui all’art. 612 bis c.p.
Non è applicabile nel caso di specie la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. invocata dalla difesa, in quanto la cornice edittale del reato di cui al capo a) di rubrica supera quella massima prevista dall’art. 131 bis c.p. (ossia la pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione). Al di là di tale preliminare considerazione, in ogni caso deve evidenziarsi che è pacifico in giurisprudenza che, per l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. occorre tener conto della particolare tenuità dell’offesa in concreto arrecata al bene giuridico protetto dalla norma, offesa che nel caso di specie non può comunque ritenersi di lieve entità.
Venendo al trattamento sanzionatorio e valutati, dunque, i criteri di cui all’art. 133 c.p.. denegato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (non essendo emersi elementi da poter valorizzare ex art. 62 bis c.p.), uniti i fatti nel vincolo della continuazione, ritenendoli espressione di un medesimo disegno criminoso, è da ritenersi pena congrua quella di anni uno e mesi quattro di reclusione (pena base anni uno e mesi tre di reclusione per il reato di cui al capo a) con la riqualificazione anzidetta, considerata l’aggravante del secondo comma, aumentata per la continuazione per il capo b) a anni uno e mesi quattro di reclusione).
All’accertamento della penale responsabilità dell’imputato consegue per legge la sua condanna al pagamento delle spese processuali.
Esaminato il casellario dell’imputato, sussistono i presupposti per concedergli il beneficio della sospensione condizionale della pena, potendosi compiere un giudizio prognostico favorevole circa il fatto che lo stesso si asterrà in futuro dalla commissione di altri reati. Considerata la gravità dei fatti, non pare, invece, concedibile il beneficio della non menzione.
Visto l’art. 300 c.p.p. va dichiarata la perdita di efficacia della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa applicata nei confronti dell’imputato.
Pare congruo il termine di 45 giorni per la stesura della sentenza, avuto riguardo alla peculiarità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Il Tribunale di Udine, Sezione Penale, in composizione monocratica, visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.
DICHIARA
Al. An. responsabile dei reati a lui ascritti in rubrica, previa riqualificazione del reato contestato al capo a) di rubrica nella fattispecie di cui all’art. 612 bis secondo comma c.p. e limitatamente ai fatti contestati al capo a) come commessi a partire dal (omissis), e, uniti i fatti nel vincolo della continuazione, lo
CONDANNA
alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali; concede all’imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena;
visto l’art. 300 comma 3 c.p.p.
DICHIARA
la perdita di efficacia della misura cautelare applicata nei confronti dell’imputato;
visto l’art. 544. co. 3, c.p.p. indica il termine di giorni 45 per il deposito della motivazione della sentenza.
Così deciso in Udine, il 13 maggio 2022
Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2022
