(omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ricorso depositato in data 10.12.2012 la ricorrente chiedeva che fosse riconosciuta quale malattia professionale la patologia polmonare che aveva condotto il marito al decesso e che fosse costituita a carico dell’INAIL la rendita di cui all’art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965, con condanna al pagamento degli interessi e delle spese processuali. Deduceva la ricorrente che suo marito (omissis), deceduto nell’ottobre 2011, aveva svolto nel corso della propria vita professionale l’attività rivierasca, navigando per 23 anni e 8 mesi, svolgendo le mansioni di capo pesca, marinaio, giovanotto e mozzo;
che nel corso della propria vita professionale il de cuius era stato a contatto con diverse sostanze tossiche, tra cui l’amianto e gli idrocarburi policiclici aromatici;
che nel settembre 2010 era stato diagnosticato al ricorrente un carcinoma polmonare e sottili ispessimenti pleurici bilaterali da pregressa esposizione occupazionale a IPA e asbesto;
che in data 4.8.2011 Ga. On. aveva proposto all’INAIL domanda amministrativa per il riconoscimento della malattia professionale;
che l’INAIL, declinando la propria competenza, aveva trasmesso la documentazione all’IPSEMA; che, allorquando il (omissis) era stato convocato per essere sottoposto a visita collegiale in data 14.12.2011, egli era già deceduto;
che in data 15.5.2012 ella aveva presentato domanda amministrativa per la costituzione di una rendita ex art. 85 TU INAIL;
che l’INAIL aveva rigettato la domanda;
che invero il carcinoma polmonare contratto dal (omissis) era malattia tabellata e quindi vi era una presunzione di contrazione in ambito lavorativo.
Costituendosi in giudizio, l’INPS eccepiva l’infondatezza della domanda, per assenza di esposizione al rischio dell’agente patogeno che avrebbe determinato la malattia.
La causa veniva istruita oralmente e a mezzo due CTU.
La domanda è infondata e deve essere rigettata per le seguenti ragioni.
La malattia professionale è un evento dannoso alla persona che si manifesta in modo lento, graduale e progressivo, involontario e in occasione del lavoro.
Nella malattia professionale, diversamente che nell’infortunio, l’influenza del lavoro nella genesi del danno lavorativo è specifica, poiché la malattia deve essere contratta proprio nell’esercizio ed a causa dell’attività lavorativa espletata.
La sussistenza di concause esterne non idonee ad interrompere il nesso causale tra attività svolta e malattia subita non esclude l’indennizzabilità della malattia. Determinante è la prova del nesso causale tra attività e patologia. Mentre sussiste, ai sensi del DPR n. 1124/1965, una presunzione legale circa la eziologia professionale delle malattie contratte nell’esercizio delle lavorazioni morbigene tabellate, nelle altre ipotesi (cioè per le malattie tabellate di cui si alleghi la derivazione da cause morbigene non tabellate oppure per le malattie non tabellate) spetta al lavoratore, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, la prova della sussistenza del nesso causale (cfr., ex multis, Cass. Sez. L. n. 15400/2011).
L’art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965 così dispone: “Se l’infortunio ha per conseguenza la morte, spetta a favore dei superstiti sottoindicati una rendita nella misura di cui ai numeri seguenti, ragguagliata al cento per cento della retribuzione calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120:
1) il cinquanta per cento al coniuge superstite fino alla morte o a nuovo matrimonio; in questo secondo caso è corrisposta la somma pari a tre annualità di rendita;
2) ” Nel caso di specie la ricorrente, vedova del defunto (omissis), non ha fornito la prova della sussistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa svolta dal marito e le patologie polmonari da cui era affetto e per le quali è deceduto.
In corso di causa sono stati escussi due testimoni, entrambi colleghi di lavoro del ricorrente, i quali hanno confermato che il de cuius ha svolto nel corso della propria attività marinara mansioni di ingrassatore/fuochista; che, pur non avendo direttamente manipolato asbesto, ha lavorato per circa 20 ore al mese in sala macchine ripulendo il carburante versatosi e movimentando tubi e saldatrici, ha ripulito le caldaie interamente coibentate di amianto;
ha operato in zone interamente coibentate di amianto; è stato alla presenza di amianto anche nei periodi di riposo, in cui rimaneva a bordo della nave;
ha partecipato con cadenza bisettimanale o mensile ad esercitazioni anti-incendio, in cui indossava indumenti protettivi, tute e maschere, composte di amianto;
ha inalato anche IPA occupandosi delle operazioni di carico e scarico di benzina e petrolio, nonché della pulizia delle cisterne; non ha mai avuto a disposizione dispositivi di protezione individuale per le vie respiratorie.
Tali dichiarazioni costituiscono la prova che il de cuius, nel corso della sua attività lavorativa, è stato esposto per molto tempo all’amianto e agli IPA.
In relazione alla sussistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa svolta dal Ga. e la malattia polmonare da lui contratta è stata espletata in corso di causa dapprima una CTU, a mezzo del dott. Lo. Sa. .
Il dott. (omissis) ha ritenuto che il carcinoma polmonare con secondarietà encefalica e i sottili ispessimenti pleurici bilaterali da cui era affetto il Ga. siano malattie tabellate come conseguenza diretta dell’esposizione all’asbesto e agli IPA e che i postumi invalidanti dalla data della diagnosi del carcinoma sino al decesso siano valutabili nella misura dell’80%.
Il detto CTU ha precisato che il fumo di sigaretta, quale concausa, ha potuto accrescere il potere cancerogeno dell’asbesto, senza tuttavia indicare se tale fumo di sigaretta possa aver interrotto il nesso causale tra esposizione ai fattori cancerogeni (asbesto e IPA) e decesso del ricorrente a seguito di carcinoma polmonare e ispessimenti pleurici.
Non apparendo pienamente convincenti le conclusioni del CTU, tenuto anche conto della delicatezza della questione trattata, è stata disposta una rinnovazione una rinnovazione di CTU a mezzo del dott. (omissis) (specialista in pneumologia), le cui conclusioni appaiono esenti da vizi logici e da contraddizioni e pertanto sono poste a base della presente decisione.
Il dott. (omissis) ha così argomentato: “L’esame della documentazione sanitaria visionata e le risultanze dell’attuale visita medica consentono di affermare che (omissis) era affetto da:
“Carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) metastatizzato”.
Il fumo di sigaretta è considerato il principale agente eziologico per lo sviluppo del carcinoma del polmone (HK Biesalski, Bu. de Me. B, Chesson A et al., European Consensus Statement on Lu. Ca. : risk factors and prevention. Lu. Ca. Panel (PDF), in CA Ca. J Clin, vol. 48, nº 3, 1998, pp. 167-176; discussion 164-166, DO.:10.3322/canjclin.48.3.167, PMID 959491).
Secondo uno studio elaborato servendosi di proiezioni statistiche, è responsabile di circa il 90% dei tumori polmonari mortali nei paesi sviluppati (R Pe., Lo. AD, Bo. J et al., Mortality from smoking in developed countries 1950-2000: Indirect estimates from Na. Vi. Statistics, Ox. University Pr., 2006, ISBN 0-(omissis)-7). Dal punto di vista clinico si è soliti distinguere due tipologie principali di tumore del polmone che insieme rappresentano oltre il 95% di tutte le neoplasie che colpiscono questi organi: il tumore polmonare a piccole cellule (detto anche microcitoma, 10-15%) e il tumore polmonare non a piccole cellule (il restante 85% circa), entrambi originati dal tessuto epiteliale che riveste le strutture polmonari.
Il tumore non a piccole cellule è a sua volta suddiviso in tre principali tipologie microscopiche:
– il carcinoma spinocellulare (detto anche squamocellulare o a cellule squamose) rappresenta il 25-30% dei tumori del polmone e nasce nelle vie aeree di medio-grosso calibro dalla trasformazione dell’epitelio che riveste i bronchi, provocato dal fumo di sigaretta;
– l’adenocarcinoma si presenta in circa il 35-40% dei casi e si localizza, al contrario dei precedenti, in sede più periferica e cioè a livello dei bronchi di calibro minore.
È il tumore polmonare più frequente tra chi non ha mai fumato e talvolta è dovuto alla presenza di cicatrici polmonari (per esempio per vecchie infezioni tubercolari o per pleuriti);
– il carcinoma a grandi cellule è meno frequente (10-15%) e può comparire in diverse aree del polmone.
In genere tende a crescere e a diffondersi piuttosto rapidamente.
Il più importante fattore di rischio nel tumore del polmone, come abbiamo detto in precedenza, è rappresentato dal fumo di sigaretta: esiste infatti un chiaro rapporto dose-effetto tra questa abitudine e la malattia e ciò vale anche per il fumo passivo.
In altre parole, più si è fumato (o più fumo si è respirato nella vita), maggiore è la probabilità di ammalarsi e secondo gli esperti la durata di tale cattiva abitudine è anche più importante del numero di sigarette fumate per determinare il rischio di tumore.
Il rischio cioè è molto più alto se si inizia a fumare da giovanissimi e si prosegue per il resto della vita.
In cifre, il rischio relativo dei fumatori aumenta di circa 14 volte rispetto ai non fumatori e addirittura fino a 20 volte se si fumano più di 20 sigarette al giorno.
Da ricordare, per precisione, che la relazione fumo-cancro al polmone vale in particolare per alcuni sottotipi di malattia come il carcinoma spinocellulare e il microcitoma. Altri studi epidemiologici si sono concentrati nella valutazione di altri fattori di rischio per lo sviluppo di tumori polmonari, rivelando un maggiore tasso d’incidenza nelle popolazioni esposte all’inquinamento proveniente dalle emissioni di automobili, industrie e centrali termoelettriche. Dai dati provenienti da questi studi è risultato evidente il ruolo delle misure preventive focalizzate sulla riduzione dell’esposizione soprattutto ai fumi provenienti dalla combustione dei carburanti derivati dal petrolio (ME Pa., Rousseau MC, Bo. P et al., Exposure to diesel and gasoline engine emissions and the risk of lung cancer (PDF), in American Journal of Epidemiology, vol. 165, nº 1, gennaio 2007, pp. 53-62, DO.:10.1093/aje/kwj343, PMID 17062632).
Il fumo di sigaretta è responsabile di 8-9 tumori del polmone su 10, ma non è l’unico fattore di rischio per questa malattia. Esistono altri cancerogeni chimici come l’amianto (absesto), il radon, i metalli pesanti, che provocano il tumore soprattutto in quella parte di popolazione che viene a contatto con queste sostanze per motivi di lavoro: si parla in questo caso di esposizione professionale.
Nel caso specifico del Ga. non abbiamo la diagnosi istologica di certezza, cioè non è stata effettuata una diagnosi microscopica certa, viene definito invece genericamente come tumore polmonare non a piccole cellule senza specificare se di tipo spinocellulare, se di tipo adenocarcinoma e/o di tipo a grandi cellule.
Secondo lo studio CAREX (CARcinogen EXposure) il 23% dei lavoratori europei è potenzialmente esposto a sostanze cancerogene mentre lo studio SU. riduce la percentuale al 13,5%; I tumori possono essere ad “alta frazione eziologica professionale” (mesotelioma, tumori dei seni paranasali e angiosarcoma epatico), se l’associazione con alcune esposizioni lavorative è molto elevata ed è l’unica causa documentata, oppure a “bassa frazione eziologica professionale” (tumore del polmone o della vescica) se l’esposizione a specifici cancerogeni occupazionali è una delle diverse cause conosciute. Oggi l’identificazione di attività lavorative che possono determinare un aumento di insorgenza di neoplasie professionali si basa su studi epidemiologici.
Ebbene arriviamo alla storia clinica, molto scarna di documentazione diagnostica, del sig. GA. deceduto in data 25 ottobre 2011.
Il (omissis), per 23 anni e 8 mesi circa, in un arco temporale complessivo di 34 anni e precisamente dal 1962 al 1996, ha svolto attività lavorativa di marinaio (come da estratto di navigazione). Durante l’attività lavorativa e dall’uscita dal lavoro (1996) e fino al 2010, l’anamnesi resta muta e non presenta documentazione sanitaria di alcun tipo. Nel 2010 (dopo 14 anni dalla data del pensionamento e precisamente dopo 48 anni dall’inizio del lavoro di “marinaio”) viene fatta diagnosi di neoplasia polmonare con metastasi cerebrali (con esame istologico di neoplasia polmonare non a piccole cellule – NSCLC e con sede topografica al “III medio del polmone dx”). Durante le operazioni peritali, la sig.ra (omissis), moglie ed erede ha riferito che il (omissis), in vita, si sottoponeva ad accertamenti diagnostici periodici perché affetto da ipertensione arteriosa e che nel 2005 e nel 2006 fu sottoposto rispettivamente ad interventi chirurgici per meniscectomia dx e protesi d’anca dx; in queste ricoveri e negli esami pre-operatori non venne riscontrato nulla di anormale inerente patologie polmonari;
ha riferito anche che presentava un rischio voluttuario per la BPCO e neoplasie polmonari: abitudine tabagica.
Il certificato di morte, inoltre, descrive anche che il ricorrente era portatore di insufficienza renale cronica e anemia e per tale motivo è verosimile che si sottoponesse a controlli clinici-diagnostici frequenti.
La documentazione sanitaria, in atti, compare improvvisamente nel 2010 (14 anni dopo l’uscita da lavoro del omissis) e viene supportata e rappresentata da: RX del torace e TC total body, da certificazione per ex esposti ad amianto, da esame istologico e da certificazione oncologica.
Il riconoscimento delle malattie causate dall’amianto, nelle liste delle malattie professionali asbesto correlate, risale per l’asbestosi nel 1943, per il cancro al polmone e per il mesotelioma, nel 1994, per le placche pleuriche soltanto nel 2008, delle quali si presume il nesso causale, con onere della prova per escluderne l’indennizzabilità a carico dell’ente assistenziale, (Corte Costituzionale, Sentenze n. 179 del 18.02.88, e n. 206 del 25.02.88).
La distribuzione ubiquitaria delle fibrille d’asbesto trova una chiara conferma nella localizzazione negli organi del corpo umano della presenza dei corpuscoli dell’asbesto come reperto autoptico nei tessuti di lavoratori esposti e defunti (Ro., 1983; Ug., 2012).
Il reperto di queste formazioni microscopiche è testimonianza di una prima tappa della risposta flogistica (di tipo cronico, fibrotico, non acuto, purulento) dei tessuti contro le fibrille che, ab initio, si comportano essenzialmente come microscopici corpi estranei.
L’impiego di metodiche semi invasive quali la fibrobroncoscopia con raccolta di liquido proveniente da lavaggio bronco- alveolare o francamente invasive quali la biopsia transbronchiale permetterebbe di definire meglio l’effettivo carico di fibre; tali procedure, non giustificabili ai fini del perfezionamento di una diagnosi di malattia professionale, sono invece consentite e spesso indispensabili qualora vi sia il sospetto di una malattia neoplastica.
Per quanto attiene l’attività lavorativa del (omissis), risulta che prestò servizio militare in marina per complessivi 24 mesi (1962-1964) svolgendo attività di marinaio e poi successivamente dal 1967 al 1996 ha prestato servizio, sempre con qualifica di marinaio, a bordo di navi mercantili, per un periodo complessivo di 24 anni circa.
L’indagine fibro-broncoscopica, eseguito nel 2011 in occasione della diagnosi di neoplasia polmonare, evidenziava un quadro di flogosi bronchiale aspecifica mentre l’esame del bronco- aspirato era negativo sia per quanto concerne il dosaggio di marcatori tumorali che per la ricerca di cellule atipiche.
La ricerca dei corpuscoli dell’asbesto (CA) nel liquido di lavaggio broncoalveolare (BA.) non viene menzionata o perché non effettuata (verosimilmente perché lo specialista pneumologo/endoscopista non ha preso in considerazione l’ipotesi diagnostica di patologia asbesto correlata), o perché non riscontrati nel BA.
Sul piano pratico la diagnosi di cancro polmonare professionale negli ex-esposti ad asbesto è comunemente accettata in caso di concomitante asbestosi; secondo gli interpreti più rigorosi di tale assunto la coesistenza di asbestosi rappresenta un pre-requisito fondamentale nelle vertenze medicolegali.
Secondo i criteri delineati dal Documento di Consenso di Helsinki, per porre diagnosi istologica di asbestosi è necessario individuare una fibrosi interstiziale diffusa in un tessuto ben aerato, lontano dalla sede di un tumore o di una altra lesione massiva, associata alla presenza di almeno due corpuscoli di asbesto, in una sezione di 1 cm quadrato, come requisito minimo quadro radiologico assolutamente NON riscontrato nel Ga., vedasi RX torace e Tc torace (all. nn 3 e 4).
In assenza di patologie asbesto-correlate ed in particolare di asbestosi, è ancora discussa da alcuni la possibilità di attribuzione del tumore all’amianto, anche quando l’esposizione sia comprovata dalla presenza di alte concentrazioni di corpuscoli e fibre di asbesto nel tessuto polmonare. Altri invece sostengono che il cancro del polmone negli esposti non sia in relazione alla fibrosi di per se ma al carico di fibre, enfatizzando così l’importanza dei segni diretti di esposizione (dosaggio delle fibre di asbesto o dei corpuscoli di asbesto nel liquido di lavaggio bronco-alveolare, in preparati istologici provenienti da biopsie, da materiale operatorio o da autopsia). Vanno peraltro tenuti ben presenti alcuni limiti di tali indagini: la determinazione dei CA (corpuscoli di asbesto) nel BA. in microscopia ottica non riflette la presenza di fibre di crisotilo nel tessuto polmonare e per di più l’assenza di CA non esclude necessariamente la presenza di una esposizione.
Inoltre la determinazione del numero di corpuscoli di asbesto nel BA. verosimilmente risente del tempo trascorso dalla fine dell’esposizione a causa di una diversa clearance polmonare rispetto alle fibre; per tale motivo si ritiene che il conteggio e la caratterizzazione mineralogica delle fibre mediante microscopia elettronica possa fornire una informazione più precisa ed una maggiore sensibilità.
In conclusione, per poter attribuire un carcinoma polmonare all’asbesto occorre documentare nel modo più preciso possibile l’esistenza e l’entità della pregressa esposizione; in assenza di asbestosi che è espressione di esposizioni significativamente elevate (assunto che non può essere trasferito tout court alle placche pleuriche che sembrano poter derivare anche da basse esposizioni e pertanto non possono essere usate di per sé come indicatori di un carico di fibre rilevante) bisogna fare ricorso ad indicatori di dose cumulativa. Essi sono costituiti dai corpuscoli di asbesto e/o dalle fibre nude; la ricerca di tali indicatori nel BA. con le metodiche più convenienti, consente, pur con i limiti sopra esposti, di avere una idea della pregressa esposizione. Quando invece si possa disporre di preparati istologici, una migliore caratterizzazione dell’esposizione cumulativa ad asbesto sembra derivare dall’impiego dei sopra citati indicatori in combinazione con la ricerca di lesioni fibrotiche da asbesto anche iniziali. Ritornando al caso specifico del (omissis), dobbiamo comprendere, in base ai dati sanitari in nostro possesso, se la causa di morte (neoplasia polmonare NSCLC) possa essere annoverata come patologia professionale.
Pertanto dobbiamo effettuare alcune considerazioni.
1. certezza diagnostica della malattia neoplastica.
La diagnosi di carcinoma non a piccole cellule (NSCLC) viene effettuata con broncoscopia e esame istologico di materiale bioptico e BA.. Mentre per il mesotelioma della pleura, il ruolo causale dell’amianto, è ammesso anche per dosi estremamente basse; la relazione causa-effetto tra esposizione ad asbesto e neoplasia polmonare, invece, è in funzione dell’esposizione cumulata, con una stima di aumentato rischio pari all’1% per ogni fibra/ml-anno di esposizione. Perciò per parlare di etiologia certa si rendono necessari la ricerca di indicatori biologici di esposizione pregressa (corpuscoli di asbesto e fibre di asbesto), la presenza dei quali permette di quantificare l’esposizione, e soprattutto in assenza di concomitante patologia asbesto correlata quale l’asbestosi. Ecco perché la broncoscopia con BA. e/o biopsia transbronchiale permetterebbero di definire l’effettivo carico di fibre e documentare la certezza etiologica.
La broncoscopia con lavaggio bronchiale – BA. -, biopsie transbrochiali e TBNA, a cui è stato sottoposto il (omissis), eseguita in data 12.10.10, non ha messo in evidenza la presenza di indicatori biologici di esposizione, infatti non vi è traccia di corpuscoli di asbesto e/o fibre di asbesto. Attenendoci, inoltre, alla Conferenza di consenso di Helsinki del 1997 esistono rigorosi criteri da rispettare per parlare di tumore polmonare amianto correlato, e questi sono: contemporanea presenza di asbestosi diagnosticata radiologicamente (qui assente) o istologicamente (assenta anche questa), la positività di indicatori riferiti al conteggio dei corpuscoli dell’asbesto e delle fibre di asbesto (concentrazione di corpuscoli > 1/ml di liquido di lavaggio bronchiolo-alveolare: BA.).
Nel caso specifico non risultano rispettati i criteri e non viene segnalata nemmeno la presenza dei richiamati indicatori o quantificata in qualche modo l’esposizione, tutto questo non viene menzionato e definito nemmeno nella certificazione rilasciata da ambulatorio per Ex esposti ad amianto del Policlinico di Bari in data 12.7.11.
Per questo motivo è impossibile parlare di diagnosi di malattia asbesto correlata ed è impossibile affermare che è rispettato il criterio quali- quantitativo sul nesso di causalità.
Si precisa, quindi, che se pur l’amianto può essere correlato con il carcinoma polmonare non a piccole cellule, il fumo di sigaretta da solo e senza nessun effetto attribuibile all’amianto può avere causato la neoplasia come causa sufficiente efficiente e determinante.
2. criterio modale sul nesso di casualità: se fosse stato rispettato il criterio modale avremmo dovuto trovare anche fibre di amianto, corpuscoli di asbesto, placche pleuriche, fibrosi polmonare o asbestosi conclamata.
3. criterio dell’esclusione delle altre causa: è pur vero che l’azione del fumo è sinergica a quella dell’amianto, però in questo caso non vi è ragionevole probabilità di un danno derivante da esposizione ad amianto poiché non vi è alcun segno nè clinico, nè di laboratorio, nè radiologico di esposizione ad amianto.
E’ altamente improbabile che il tumore polmonare possa essere causato da una dose al di sotto del TVL fissato dal legislatore (Threshold Limit Value – valore limite di soglia; cioè concentrazione di una sostanza aerodispersa al di sotto della quale si ritiene che la maggior parte dei lavoratori possa rimanere esposta ripetutamente giorno per giorno, per una vita lavorativa, senza effetti negativi per la salute.), che ritiene che al di sotto di tale valore non si abbia ragionevole probabilità di sviluppare tumore. Come già esposto si segnala che il fumo di sigaretta da solo e senza effetto attribuibile all’amianto può avere causato la neoplasia come causa sufficiente efficiente e determinante, per cui possiamo escludere che la malattia diagnosticata possa essere in rapporto all’esposizione ad amianto.
Inoltre, non ci sono dati che permettano di stabilire se e in che entità il paziente sia stato esposto ad inquinamento ambientale da amianto.
Non vi sono rilevazioni ambientali che mostravano la presenza di fibre di amianto; non risultano documentazioni ufficiali che riportino il tempo di permanenza nei vari ambienti in cui poteva essere presente l’amianto, né l’effettiva esposizione del paziente (esistono solo testimonianze). Mancano completamente i criteri che permettano di attribuire la neoplasia polmonare riscontrata al de cuius come dipendente dall’amianto.
Le indagini radiologiche eseguite (in atti) non documentano la presenza di qualche indicatore di sospetta malattia asbesto correlata; le neoplasie del polmone, da causa diversa dall’amianto (fumo, ecc), non differiscono istologicamente da un tumore amianto correlato, ecco perché l’esistenza di una relazione causa-effetto deve essere posta seguendo criteri scientificamente validi.
Anche il dato topografico del tumore (al III medio del polmone di dx) non riveste grande sintonia con la sede dei tumori da asbesto, infatti la massima incidenza si manifesta nei lobi inferiori.
La relazione tra neoplasia polmonare e fumo è ormai dimostrata da ampie casistiche ed è stato stimato che i fumatori abbiano un rischio 60 volte superiore ai non fumatori di sviluppare la malattia. Lo stesso rischio diminuisce in rapporto al numero di anni dalla cessazione del fumo.
Per portare il rischio oncologico quasi pari a quello di un non fumatore sono necessari 10-15 anni e il rischio è azzerato se si smette di fumare prima dei 35 anni.
Pertanto non vi è sufficiente probabilità che il danno all’integrità psicofisica del (omissis) sia da esposizione lavorativa.
Per quanto attiene l’esposizione agli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), inoltre, non è da considerare, in quanto il (omissis) non svolgeva attività lavorativa in cui venivano utilizzati agenti chimici, o che se ne prevedeva l’utilizzo, per la produzione, per la manipolazione, per l’immagazzinamento, per il trasporto e/o l’eliminazione e il trattamento dei rifiuti” (cfr. CTU in atti, a cui si rinvia).
Il CTU ha dunque concluso, ritenendo che (omissis)era affetto da “Carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) metastatizzato. Bronchite cronica con enfisema bolloso”;
che non vi è la certezza che la malattia contratta dal (omissis) sia in rapporto di causa effetto con l’attività lavorativa.;
che non è documentata la diagnosi eziologica che va posta tramite esami specifici (completamente mancanti in atti);
che dunque il nesso di casualità tra l’esposizione ai fattori di rischio dell’attività professionale del (omissis) e la neoplasia polmonare che lo condusse a morte, può essere posto solo in termini di bassa probabilità e non in termini di ragionevole certezza e/o di elevata probabilità;
che l’abitudine tabagica è verosimilmente la causa di neoplasia polmonare del de cuius.
Il CTU ha inoltre esaustivamente risposto alle osservazioni di parte ricorrente (che non ha nominato un proprio CTP, ma ha trasmesso al CTU dopo l’invio della bozza delle osservazioni redatte dal dott. omissis ), confermando le conclusioni rese, evidenziando che appare molto più probabile che il tabagismo abbia causato la neoplasia del ricorrente piuttosto che l’esposizione all’amianto.
Ebbene si richiama in materia di nesso causale l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “In tema di responsabilità civile, applicati nella verifica del nesso causale tra la condotta illecita ed il danno i principi posti dagli artt. 40 e 41 c.p., e fermo restando il diverso regime probatorio tra il processo penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, e quello civile, in cui opera la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto” (cfr., in termini, Cass. n. 47/2017).
Nel caso in esame, per tutte le ragioni indicate nella Consulenza del dott. (omissis) , la ricorrente (su cui gravava il relativo onere) non ha provato che la morte del coniuge fosse stata causata dall’esposizione all’amianto, piuttosto che da altri fattori come il fumo di sigaretta (primo fattore di rischio), a cui suo marito era dedito, secondo il principio del “più probabile che non”.
Pertanto, in assenza di prova che la patologia che ha causato la morte del (omissis) sia dipesa da malattia professionale per esposizione ad amianto, la domanda relativa alla costituzione di una rendita vitalizia ex art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965 deve essere rigettata.
Tenuto conto della natura della controversia e della particolarità della questione trattata, sussistono i presupposti per una integrale compensazione delle spese di lite.
Le spese di CTU restano definitivamente a carico dell’INAIL.
P.Q.M.
il Tribunale di Trani, Sezione Lavoro, nella persona del Giudice del Lavoro dott.ssa (omissis), definitivamente pronunciando sulla domanda proposta con ricorso depositato in data 10.12.2012 da (omissis) nei confronti dell’INAIL, rigettata ogni diversa istanza, così provvede:
1) rigetta la domanda;
2) compensa le spese del giudizio;
3) pone le spese relative alle espletate CTU definitivamente a carico dell’INAIL.
Così deciso in Trani in data 19 marzo 2018.
IL GIUDICE Dott.ssa (omissis)
