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Tribunale Reggio Calabria sez. I, 31/12/2021, n.1649

Massima

In caso di azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita, compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.

Supporto alla lettura

ONERE DELLA PROVA

L’onere della prova è una regola che si sostanzia essenzialmente nel porre a carico della parte che allega un fatto a sé favorevole, il dovere di darne prova dell’esistenza, e può essere intesa:

  • in senso soggettivo: onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento delle pretese, per fornire al giudice tutti gli elementi necessari e sufficienti affinché egli arrivi ad una decisione corretta e consapevole.
  • in senso oggettivo: il giudice emette in ogni caso la decisione in merito all’accoglimento o al rigetto della domanda, quando, nonostante l’attività probatoria, egli non sia riuscito a raggiungere la verità dei fatti.

La disciplina dell’onere della prova è il criterio per regolare il giudizio del giudice, il quale è tenuto a ritenere non vero il fatto incerto ovvero il fatto non provato, infatti oggetto di prova sono solo i fatti incerti, pertanto i fatti pacifici e notori non formano oggetto di attività probatoria.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
PREMESSO IN FATTO
Con atto di citazione ritualmente notificato, la Curatela del fallimento (omissis) s.r.l. conveniva in giudizio, ai sensi dell’art. 146 l. fall. (omissis) , nella qualità rispettivamente di amministratore di diritto e di fatto della società fallita, al fine di ottenere l’accertamento della loro responsabilità per le condotte poste in essere ai danni del ceto creditorio.

A sostegno della domanda, la curatela attrice ha rappresentato:

– che la (omissis) s.r.l. veniva dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Reggio Calabria, n. 14 del 25.7.2012, in seguito alla revoca dell’ammissione della medesima società alla procedura di concordato preventivo;

– che nel decreto di revoca della società alla procedura di concordato si perveniva, sulla base di solide fonti probatorie acquisite nel corso delle indagini disposte dalla Guardia di Finanza, all’accertamento dell’esistenza di un gruppo societario costituito (salvo altre) dalla (omissis) e dalla(omissis) s.r.l. sostanzialmente eterodiretto dai coniugi (omissis)(omissis)  che possedevano in diverse percentuali l’intero capitale di entrambe le società e ponevano in essere una complessa strategia finalizzata alla “dissipazione e alla dissimulazione del patrimonio della (omissis) sotto lo schermo della sua apparente intestazione alla (omissis) S.r.l.”;

– che, fino al 14 febbraio 2011 (pochi mesi prima della presentazione da parte della (omissis) s.r.l. e della (omissis) S.r.l. in liquidazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato) i coniugi possedevano in diversa percentuale l’intero capitale delle suddette società; che, a partire da tale data e a seguito del trasferimento incrociato della partecipazioni tra i coniugi, assumevano invece struttura unipersonale e divenivano riconducibili rispettivamente alla (omissis), la (omissis) ; e al (omissis), la (omissis) s.r.l.;

– che, detta operazione, sarebbe stata congegnata, per creare una (apparente) separazione delle compagini sociali in vista della presentazione della domanda di concordato, mentre di fatto la gestione della (omissis) continuava ad essere affidata ad entrambi i coniugi (omissis) e (omissis), in veste rispettivamente di amministratore di fatto e di diritto;

– che, in particolare, erano emerse operazioni immobiliari poste in essere dagli ex amministratori convenuti che avrebbero disvelato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’utilizzo abusivo strumentale e fraudolento dello schermo della personalità giuridica della (omissis) s.r.l. costituita dagli stessi convenuti, al solo scopo, in un primo momento, di creare un patrimonio autonomo, formalmente separato oltre che da quello personale, anche da quello della società operativa (omissis) S.r.l. successivamente utilizzato per occultare o dissimulare parte dell’attivo della stessa (omissis) s.r.l. che veniva contestualmente ridotta in stato di insolvenza;

– che, le operazioni immobiliari poste in essere formalmente dalla Gabrem Immobiliare s.r.l. erano in realtà state finanziate dalla (omissis) ;

– che, più di preciso, la (omissis):

a) aveva fornito alla (omissis) s.r.l. l’intera provvista finanziaria, pari ad € 1.078.000,00 necessaria per l’acquisto dell’immobile in Reggio Calabria, via (omissis) simulando l’erogazione della somma sotto forma di “caparra e anticipazione per futura locazione” per un immobile, peraltro, inutilizzabile da parte della simulata conduttrice, in quanto avente destinazione urbanistica (abitativa) incompatibile con l’esercizio dell’attività economica;

b) aveva fornito alla (omissis) s.r.l. in due tranches, complessivamente di € 368.000,00 per finanziare il leasing immobiliare avente ad oggetto gli immobili in Gallico e in Catona, ancora una volta simulando l’erogazione della somma sotto forma di “anticipazione sulla futura locazione”; locazione, peraltro, poi risolta con la restituzione alla (omissis) s.r.l. del magazzino, in quanto privo di agibilità urbanistica.

– che tali rilievi conducevano alla dichiarazione di fallimento della (omissis) s.r.l., pronunciata dal Tribunale di Reggio Calabria con sentenza n. 13/2013 dell’8.4.2013 ai sensi dell’art. 147 l. fall. quale socia di fatto della super società di fatto costituita con la (omissis) s.r.l., anch’essa dichiarata fallita con la medesima sentenza;

– che nel corso del procedimento penale n. 3125/12/21 r.g.n.r. nei confronti di (omissis)  (+10) veniva disposta consulenza tecnica da parte del PM (a firma del CT B.) dalla quale emergeva, pur in assenza delle scritture contabili, che le ragioni della crisi risalivano certamente almeno all’esercizio sociale 2010, rispetto al quale si registrava una grande negatività legata a parere del professionista, proprio alle operazioni straordinarie poste in essere e, in particolare: a) acquisto nell’anno 2009 del ramo di azienda della “Cordon Bleu dei fratelli (omissis) s.r.l.” per € 1.562.126,00; b) versamento nell’anno 2010 della caparra alla (omissis) per €1.446.000,00; c) veramente, sempre nel 2010, degli oneri per “operazione Ce.di” – Fineco Leasing, per complessivi € 368.303,00 per le unità di Gallico e Catona;

– che le risultanze di detta relazione venivano sostanzialmente confermate anche dalla successiva relazione di consulenza elaborata dai dott. (omissis) e (omissis);

– che né la curatela, nè gli organi di polizia giudiziaria erano riusciti a reperire la documentazione amministrativo – contabile della società, circostanza destinata ad esplicare i propri effetti sulla quantificazione dei danni ascrivibili alle condotte illecite degli amministratori;

– che, dalla documentazione esaminata dai predetti consulenti, era possibile evincere che la manifestazione del dissesto era avvenuta nell’anno 2010 – quando la società aveva sopportato una consistente perdita di esercizio, pari ad € 4.321.385 che aveva abbattuto interamente il patrimonio netto societario, rendendolo negativo per € 3.001.689 – sebbene le avvisaglie di una possibile crisi societaria dovevano essere ben note all’organo di gestione, già negli esercizi precedenti a quello chiuso al 31.1.2010;

– che a fronte di questi dati, gli organi societari si erano determinati a porre in liquidazione la (omissis) s.r.l., soltanto in data 26.9.2011;

– che in altri termini, risultava provato, che le operazioni poste in essere dagli amministratori della fallita, erano state poste in essere dopo che si era verificata una causa di scioglimento della società, in maniera chiaramente incompatibile con la finalità della liquidazione che avrebbe dovuto orientare le determinazioni degli organi societari; nonché il ruolo di amministratore di fatto assunto dal (omissis), come desunto da una serie di indici di cui è già data contezza nei provvedimenti del Tribunale di Reggio Calabria – sezione fallimentare (decreto di revoca ammissione proc. di concordato n. 3/2011; sentenza di fallimento n. 13/2013).

Sulla scorta della esposta ricostruzione di fatto, la società in fallimento ha chiesto al Tribunale l’accoglimento delle seguenti conclusioni:

“1= Accertare e dichiarare, innanzitutto, che la società (omissis) s.r.l. è stata amministrata dal 31.10.2005 (ingresso nella compagine del T.) dai coniugi Sig.ri (omissis) e (omissis), la prima in quanto formalmente investita della carica sociale e il secondo come amministratore di fatto, essendosi ingerito nell’amministrazione della società, desumibile da indici sintomatici che evidenziano una inequivoca ingerenza gestoria e, per l’effetto, dichiarare la responsabilità degli stessi, con il vincolo tra loro della solidarietà, per quanto infra. 2.= Accertare e dichiarare che gli stessi amministratori non hanno tenuto regolarmente le scritture contabili, che non sono state, comunque, depositate, pur essendo state, almeno in parte, visionate dal Commissario giudiziale, dott. (omissis) nella fase di ammissione alla procedura concordataria (poi revocata) e, per l’effetto, condannare gli stessi al risarcimento del danno nella misura dell’intero differenziale tra il passivo accertato e l’attivo inventariato, dovendosi, in questo caso, ritenere la esclusiva assorbente responsabilità degli stessi amministratori in ordine all’insolvenza della società e alle sue conseguenze. 3.= In via subordinata, qualora non si ritenesse di aderire al superiore criterio che concerne la responsabilità per l’omessa tenuta delle scritture contabili con conseguente liquidazione del danno nella misura dell’intero differenziale, accertare e dichiarare che, fin dall’anno 2010 – salvo ulteriore retrodatazione che dovesse risultare dalla assumenda CTU – si era già verificata la perdita del capitale sociale, sicché gli amministratori avrebbero dovuto prendere atto dell’intervenuto scioglimento, ai sensi degli artt. 2482 ter e 2484 n. 4 c.c., e procedere senza indugio alla convocazione dell’assemblea dei soci per la nomina del liquidatore, astenendosi dall’intraprendere alcuna operazione sociale incompatibile con gli scopi della liquidazione; 4.= Accertare e dichiarare che, viceversa, proseguendo l’attività di impresa in violazione del divieto di compiere operazioni incompatibili con gli scopi della liquidazione, non appena si abbia contezza del verificarsi di una causa di scioglimento della società (nella specie: per riduzione al di sotto del minimo del capitale sociale), gli amministratori si sono resi responsabili almeno delle ulteriori perdite subite dalla (omissis) s.r.l. negli esercizi successivi, se non del dissesto della società e della conseguente dichiarazione di fallimento, secondo quanto si è detto al punto 2, e, per l’effetto, condannare gli stessi al risarcimento del danno da liquidarsi nella misura dei finanziamenti erogati a diverso titolo alla (omissis) s.r.l. e dell’importo corrisposto per l’acquisto del ramo di azienda dalla (omissis), per complessivi € 3.008.126,00, oltre rivalutazione e interessi al soddisfo; 5.= In via di ulteriore subordine, anche ove si dovesse prescindere dalla verificata causa di scioglimento e del conseguente divieto di compiere operazioni incompatibili con gli scopi della liquidazione, accertare e dichiarare, comunque, la responsabilità dei predetti per gli illeciti gestori, che si sono tradotti, come si è detto, in una attività di finanziamento erogata dalla fallita nei confronti della (omissis) s.r.l. per le voci di cui in narrativa che ammontano complessivamente ad € 1.446.000,00 e nell’acquisto del ramo d’azienda acquistato dalla “Cordon Bleu dei fratelli (omissis) s.r.l.” per un importo pari ad € 1.562.126,00 e, per l’effetto condannare i predetti amministratori al risarcimento dei danni nella misura di € 3.008.126,00, oltre rivalutazione e interessi al soddisfo; in via istruttoria: si chiede disporsi, ove ritenuto opportuno e conducente da codesto On. le Tribunale adito, C.T.U. contabile al fine di accertare le violazioni (contabili o di altra natura) commesse dagli amministratori di diritto e di fatto della (omissis) s.r.l., che già hanno formato oggetto di analisi nelle perizie allegate, e le altre che dovessero risultare, determinando, altresì, la misura del danno riconducibile alle suddette violazioni. In particolare, si chiede che l’assumenda C.T.U. individui le “operazioni incompatibili con gli scopi della liquidazione” intraprese dagli amministratori dopo il verificarsi della perdita del capitale sociale (e il conseguente avvenuto scioglimento della società), determinando quale sia stata l’incidenza della illegittima prosecuzione dell’attività di impresa sul verificarsi del dissesto che ha condotto alla dichiarazione di fallimento della (omissis) s.r.l.”.

In sede di memorie ex art. 183 c.p.c. veniva specificato che l’intero differenziale tra l’attivo inventariato (per € 1.242.025,86) ed il passivo accertato (per € 3.317.365,89) era di complessivi € 12.075.340,03 come da perizia stima attivo inventariato del 25.03.2014 e stato passivo dichiarato esecutivo il 22.11.2017.

Si costituivano in giudizio gli amministratori della società fallita, i quali dopo aver spiegato le proprie difese, nel primo atto decisamente generiche, insistevano per il rigetto della domanda attorea, per tutti i motivi meglio articolati nei successivi atti difensivi.

Depositate le memorie ex art. 183 c.p.c. con la relativa documentazione, il Giudice disponeva CTU nominando il dott. (omissis), con l’incarico di dare risposta al seguente quesito: ” individui il consulente le operazioni incompatibili con gli scopi della liquidazione intraprese dagli amministratori della società poi fallita dopo il verificarsi delle perdite del capitale sociale (e il conseguente avvenuto scioglimento della società), determinando quale sia stata l’incidenza della illegittima prosecuzione dell’attività di impresa sulla integrità patrimoniale della società, nonché sul verificarsi del dissesto che ha condotto alla dichiarazione di fallimento della (omissis) e dunque quantificando il danno cagionato al ceto creditorio”.

Terminata la fase istruttoria con il deposito della perizia e discusse le osservazioni delle parti, venivano precisate le conclusioni, infine, la causa è stata rimessa al collegio per la decisione.

Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. PREMESSA.

Va premesso che la presente decisione viene resa dal Tribunale in composizione collegiale, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 50 bis, c.p.c. (il quale dispone, testualmente, che “il tribunale giudica in composizione collegiale”, tra l’altro, “nelle cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi”) trattandosi di causa intentata dalla curatela ai sensi dell’art. 146 l. fall. ed avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità degli amministratori, di fatto e di diritto, della società (omissis) s.r.l., con conseguente richiesta di condanna al risarcimento dei danni in favore del fallimento.

La competenza deve ormai ritenersi radicata presso questo Tribunale in quanto, pur essendo astrattamente competente in materia la sezione specializzata del Tribunale delle imprese (cfr. Cass. n. 19340/2016) la relativa eccezione non è stata sollevata nè dalla parte né dall’ufficio tempestivamente.

Nel merito, la domanda è fondata nei termini che seguono.

Va evidenziato che la controversia ha ad oggetto l’accertamento della responsabilità di (omissis) ., nella qualità rispettivamente di amministratore di diritto e di fatto della società dichiarata fallita con sent. n. 14/2012, per avere questi ultimi violato, prima di tutto, il dovere di regolare tenuta delle scritture contabili e, in secondo luogo, per avere disatteso il combinato disposto degli articoli 2482 ter e 2484 n. 4 che impone agli amministratori – quando il capitale sociale si riduce al di sotto del minimo legale – di procedere senza indugio alla convocazione dell’assemblea dei soci per la nomina del liquidatore, astenendosi dall’intraprendere alcuna operazione sociale incompatibile con gli scopi della liquidazione.

Occorre prima di tutto procedere ad inquadrare giuridicamente le responsabilità imputate all’amministratore e poste alla base dell’azione di risarcimento danni avanzata dal fallimento.

Ai sensi dell’art. 146 l. fall. II comma: “sono esercitate dal curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali ed i liquidatori (…)”.

La disposizione richiamata trasferisce sul piano processuale concorsuale alcune azioni previste sul piano civile sostanziale, attribuendone la legittimazione attiva al curatore.

Per quanto riguarda gli amministratori, le azioni di responsabilità astrattamente esperibili, secondo la formula aperta adottata dal legislatore nell’articolo in esame, trovano fondamento, per le s.r.l. negli articoli 2392 – 2394, oltre che in altre specifiche fattispecie (es. 2423 c.c.)

Per effetto del fallimento di una società di capitali, le diverse fattispecie di responsabilità, confluiscono in un’unica azione, dal carattere unitario ed inscindibile, esercitabile in via esclusiva dal curatore del fallimento che può conseguentemente formulare istanza risarcitorie verso gli amministratori tanto con riferimento ai presupposti di responsabilità (contrattuale) di questi verso la società (2392, 2407) quanto a quelli di responsabilità (extracontrattuale) verso i creditori sociali (cfr. Cass. civ. n. 25977/2008; Trib. Roma, sez. III, del 10.8.2017).

Giova chiarire che non ogni inosservanza di regole di condotta previste dalla legge a carico di un amministratore di società può dare luogo ad un fatto risarcibile, dovendo sempre fornirsi la prova di tutti gli elementi fondanti il giudizio di responsabilità e dunque della presenza di un danno effettivo per la società e della circostanza che quel danno sia causalmente ricollegabile alla condotta dell’amministratore.

Invero, all’amministratore di una società che si sia reso responsabile di condotte illecite può essere imputato non ogni effetto patrimoniale dannoso che la società, cui esso è legato da un rapporto di mandato, sostenga di aver subito, ma solo quello che si ponga come conseguenza immediata e diretta della violazione degli obblighi incombenti sull’amministratore (Cass. n. 3774/2005).

La natura contrattuale dell’azione (2393 c.c.) non esime l’attore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni, dal dimostrare la sussistenza delle violazioni, del danno e del nesso causale tra le prime ed il secondo (cfr. Cass. n. 25977/2008).

Più precisamente, sul tema dell’onere probatorio, la S.C. (Cass. civile sez. I – 04/04/2011, n. 7606 ) ha precisato che, nel caso di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita, compete a chi agisce dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio (si v. sul tema dell’onere probatorio anche, da ultimo, Tribunale Milano, 01/06/2020, n. 3090).

Con riferimento al tema introdotto con la domanda attorea, va osservato che ai sensi dell’art. 2485 c.c. al verificarsi di una causa di scioglimento e fino al momento della consegna di cui all’art. 2487 bis, gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma.

Ai sensi dell’art. 2482 ter c.c., se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dal numero 4) dell’art. 2463 c.c., gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo. È fatta salva la possibilità di deliberare la trasformazione della società. Ai sensi dell’art. 2484 c.c., poi, la società si scioglie (n. 4) per la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dagli articoli 2447 e 2482 ter c.c.

Se pure gli effetti dello scioglimento si determinano alla data dell’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese della dichiarazione con cui gli amministratori ne accertano la causa, in virtù del disposto di cui all’art. 2486 c.c., al verificarsi di una causa di scioglimento e fino al momento della consegna di cui all’articolo 2487 bis c.c., gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Gli amministratori sono, poi, personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma.

Una volta accertata la sussistenza delle condizioni prescritte, gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea. L’organo competente alla convocazione è, come di consueto, il consiglio di amministrazione (o l’amministratore unico). Essa va disposta “senza indugio”, dizione questa che deve essere interpretata come convocazione per una data ragionevolmente prossima, tenuto conto delle circostanze del caso concreto.

Nel caso specifico, la peculiarità dell’azione, insita nella circostanza che è rivolta anche nei confronti dell’amministratore di fatto, impone, infine, anche di esaminare i principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di responsabilità dell’amministratore di fatto.

In linea di principio si è affermato che la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche a coloro i quali si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il cosiddetto amministratore di fatto (Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 8 ottobre 2020, n. 21730; Cass. 12 marzo 2008, n. 6719).

L’amministratore di fatto di una società di capitali è colui che, pur privo di un’investitura formale, esercita sotto il profilo sostanziale nell’ambito sociale un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione (Cassazione civile sez. I – 08/10/2020, n. 21730;Cass. 18 settembre 2017, n. 21567).

Ai fini del riconoscimento della qualità di amministratore di fatto è necessario che l’ingerenza nella gestione della società, attraverso le direttive e il condizionamento delle scelte operative, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei e occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (Cassazione civile , sez. I , 08/10/2020 , n. 21730) mediante l’esercizio dei poteri propri dell’amministratore c.d. “di diritto” (Tribunale di Milano 14 marzo 2019).

*

2. ACCERTAMENTO DEL RUOLO DI AMMINISTRATORE DI FATTO.

Fatte tali considerazioni di ordine generale e passando all’esame della fattispecie all’attenzione, va osservato preliminarmente che dall’istruttoria è emerso con certezza il ruolo di amministratore di fatto svolto dal (omissis) nella società (omissis) facente formalmente capo alla moglie, (omissis).

Infatti, giova sul punto richiamare il nucleo argomentativo del decreto di revoca della procedura di concordato preventivo e della sentenza di fallimento che ne è conseguita, avente ad oggetto la supersocietà di fatto costituita tra la (omissis) e la (omissis). Entrambi i provvedimenti in questione sono scaturiti dai fatti accertati nell’ambito delle indagini penali che hanno condotto al sequestro preventivo delle quote sociali e del patrimonio della (omissis) s.r.l. e di altre società a questa collegate.

In particolare, nella sentenza di fallimento n. 13/2013, il Tribunale, ricostruiti gli articolati rapporti tra le due società di cui innanzi, perveniva ad un giudizio di configurabilità tra le stesse di una cd. supersocietà di fatto che contestualmente dichiarava fallita (in estensione del fallimento della (omissis) ), per la ricorrenza di tutti i presupposti di legge.

Trattandosi di accertamento coperto da giudicato appare ultroneo soffermarsi sul punto, potendo farsi integralmente rinvio all’iter motivazionale seguito dal Collegio in detto pronunciamento di cui, per comodità, si riporta la parte di maggior interesse:

“avuto riguardo al caso di specie, sono emersi una serie di elementi (alcuni dei quali già segnalati nel decreto con cui è stata disposta la revoca dell’ammissione della (omissis) alla procedura di concordato preventivo) da cui desumere la gestione di un’unica attività imprenditoriale e commerciale riconducibile ai coniugi (omissis) e (omissis) . i quali hanno curato il coordinamento delle attività della (omissis) s.r.l. e della (omissis) s.r.l. nell’ottica di un disegno imprenditoriale unitario e del perseguimento di interessi riferibili ad un’unica società di fatto, partecipata dalle due predette società.

In tale direzione depone, in primo luogo, la verifica della compagine sociale delle due società che fino al mese di febbraio 2011 era costituita, per entrambe, dai coniugi (omissis)  e (omissis)  la prima rivestiva anche la carica di amministratore della (omissis), mentre il secondo quella di amministratore della (omissis).

Elementi sintomatici della commistione nella gestione delle due società sono poi emersi dalle indagini della Guardia di Finanza, quali il fatto che, anche dopo la cessazione della qualità di socio della (omissis) , la(omissis) abbia conservato il potere di firma sui conti correnti intestati alla predetta società, che, relativamente al conto corrente postale della (omissis) , l’indirizzo fornito per l’invio della corrispondenza cartacea fosse quello della sede legale della (omissis), o numeri di telefono forniti come recapiti fossero quelli intestati alla (omissis) e alla (omissis), gli indirizzi e-mail fossero tutti riconducibili alla (omissis) ; che il contratto preliminare di compravendita immobiliare intercorso tra la (omissis) e la (omissis) snc sia stato sottoscritto per la (omissis) dalla (omissis) benchè la stessa a quella data (12.5.2010) fosse solo socia della (omissis) e non disponesse di alcuna procura; che i terzi che intrattenevano rapporti commerciali tanto con la (omissis) quanto con la (omissis) avessero sempre quali referenti entrambi i coniugi (omissis)  e (omissis) . (si v. dichiarazioni del legale rappresentante della (omissis) e di (omissis) , legale rappresentante della (omissis) ).

Ancora dalle numerose e-mail contenute nel computer sequestrato presso l’azienda (omissis) , tutte successive all’uscita della (omissis) dalla compagine societaria della (omissis) , traspare l’interessamento ed il coinvolgimento della stessa in vicende che apparentemente interessano la predetta società (…). Particolare rilievo assumono i numerosi versamenti postali eseguiti dalla madre della (omissis) . a favore della (omissis) nel periodo maggio – giugno 2011. Ma gli elementi più significativi sono costituiti dai rapporti finanziari ed economici intrattenuti tra le due società tra le quali sono intercorsi passaggi di denaro che hanno comportato una sostanziale commistione tra i patrimoni.

Innanzitutto dalle indagini della Guardia di Finanza emerge che la (omissis) (avente come oggetto sociale l’esercizio di attività nel campo immobiliare per conto proprio o per terzi nonchè la locazione e noleggio di mezzi di trasporto marittimi e autovetture) aveva come unico cliente la (omissis) (solo il capannone industriale sito in San Gregorio risulta locato anche alla (omissis)  e (omissis), oltre che alla (omissis) ).

La prova dell’esistenza di un’unica realtà societaria si ricava poi dall’avvenuta corresponsione da parte della (omissis) in favore della (omissis) dell’importo di 1.078.000,00 che trova appunto plausibile giustificazione solo in un contesto di unicità imprenditoriale delle due s.r.l.

Al riguardo occorre considerare che la corresponsione de qua, apparentemente avvenuta a titolo di “caparra e anticipazione per futura locazione” era relativa ad un fabbricato, l’immobile di via (omissis), privo di destinazione urbanistica utile ai fini commerciali, in quanto avente destinazione abitativa, come tale inutilizzabile dalla (omissis) per l’esercizio dell’impresa.

Ancora non vi è traccia in atti di un accordo tra le due società per la locazione dell’immobile.

La cd. caparra confirmatoria, inoltre ha avuto ad oggetto l’intero prezzo di acquisto del bene (cfr. pag. 1 della nota integrativa al bilancio del 31.12.2010 della (omissis) in cui si dà atto che “…la società precedentemente interessata alla locazione e che peraltro ha già anticipato a titolo di caparra confirmatoria tutte le somme necessarie per l’acquisto del bene…” ) nel mentre la caparra normalmente corrisponde, in ragione della sua funzione tipica, solo ad una quota parte del prezzo.

Gli indicati elementi rendono evidente come la causa dello spostamento patrimoniale dall’una all’altra società fosse in realtà quella di un finanziamento che trova appunto giustificazione solo nell’ottica di una commistione di intenti tra le due persone giuridiche.

Il medesimo modus operandi è riscontrabile con riguardo alle anticipazioni di €170.000,00 per la locazione del magazzino sito in (omissis) restituito alla (omissis) perché privo di agibilità urbanistica, con conseguente rigetto dell’istanza di rilascio della licenza commerciale (la mancanza di interferenze tra le due società avrebbe voluto che l’anticipazione avvenisse solo previa rigorosa verifica a parte della futura conduttrice dei requisiti necessari per l’esercizio dell’attività commerciale) e di € 198.000,00 a titolo di caparra per l’affitto dei locali siti in (omissis) ove la (omissis) avrebbe dovuto aprire un nuovo punto vendita, in realtà mai aperto (in ricorso di afferma che tra le parti sarebbero insorte contestazioni, “sia pure in fase di risoluzione” a causa del ritardo nella consegna dei locali che erano in corso di costruzione).

In tale contesto si inseriscono le dichiarazioni rese dal commercialista delle due società, dr. (omissis) (il quale emetteva fattura unica dalla (omissis) anche per le prestazioni fornite alla (omissis) ; si v. mail del 13.6.2011) il quale, sentito dal P.M. in data 12.3.2013, ha testualmente dichiarato: “…effettivamente la (omissis) , la (omissis) , costituiscono un gruppo sociale unico ed unitario… i rapporti (omissis)(omissis) erano strutturati come segue la prima s.r.l. forniva la liquidità alla seconda per i vari investimenti immobiliari che questa effettuava . Poiché nonostante i miei consigli di far entrare formalmente dentro la (omissis) la (omissis) , la (omissis) non intendeva acconsentire.”.

Alla luce di quanto sin qui detto si può ragionevolmente affermare l’esistenza di un’unica compagine societaria che vede come soci le due s.r.l., le quali hanno agito con comunione di scopo nell’intento di creare, attraverso i finanziamenti della (omissis), il patrimonio immobiliare della (omissis) (che costituiva appunto la cassaforte)” (…).

Ai fini che in questa sede interessano l’accertamento condotto dal Tribunale avente ad oggetto l’esistenza di un’unica compagine societaria avente come soci le due s.r.l., induce certamente a ritenere acquisito l’accertamento anche dello status di amministratore di fatto di detta unitaria supersocietà in capo al coniuge formalmente non investito dei poteri gestori e, dunque, per quanto concerne la (omissis) in capo al (omissis) (sin dal suo ingresso nella compagine societaria, il 31.10.2005).

Giova peraltro a tal proposito rimarcare come, sino alla cessione reciproca delle quote sociali del 14.2.2011, detto stato di fatto corrispondesse a quello di diritto, atteso che i due coniugi godevano di partecipazioni incrociate nelle menzionate società e che soltanto a ridosso della procedura di concordato preventivo, ponevano in essere il richiamato congegno negoziale, proprio al fine di separare formalmente le due compagini, così da “sottoesporre” i rapporti finanziari e commerciali tra le imprese – circostanza anch’essa accertata con i provvedimenti giurisdizionali richiamati.

Deve dunque ritenersi accertato che nonostante la (omissis) risultasse formalmente unica amministratrice della (omissis) la gestione della stessa era continuata di fatto ad essere affidata anche al coniuge, il quale, sebbene rivestisse la carica di (unico socio e) amministratore unico della (omissis) s.rl. continuava ad ingerirsi nella amministrazione della (omissis) dettando le strategie e concorrendo a metterle in atto di concerto con la (omissis) , attraverso le operazioni cui si è fatto cenno e di cui più approfonditamente si dirà.

3. LA RESPONSABILITA’ DEGLI AMMINISTRATORI DI FATTO E DI DIRITTO.

Tanto esposto, occorre ora soffermarsi sull’accertamento di una eventuale responsabilità di detti amministratori per condotte illecite ai danni del ceto creditorio.

In special modo, la curatela dopo aver premesso che gli amministratori non hanno tenuto in maniera regolare le scritture contabili della società, si è soffermata, in particolare, sulle operazioni immobiliari poste in essere dalla società in un momento in cui – a parere della difesa – si era già manifestata una causa di scioglimento della (omissis) (2484, n. 4: ” per la riduzione del capitale al disotto del minimo legale”) così ritenendo configurata la violazione del disposto di cui all’art. 2486 ai sensi del quale: “al verificarsi di una causa di scioglimento e fino al momento della consegna di cui all’articolo 2487 bis, gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”.

Ebbene, va prima di tutto ritenuta dimostrata la condotta di irregolare tenuta delle scritture contabili da parte degli amministratori, non avendo neanche questi ultimi contestato in giudizio in modo specifico la circostanza. A tal proposito, si legge nella consulenza tecnica d’ufficio: “come più volte rilevato nella documentazione in atti nemmeno la curatela fallimentare è entrata mai in possesso della documentazione contabile completa tant’è che alle richieste del sottoscritto il CTP della curatela fallimentare ha evidenziato tale circostanza con la precisazione che gli unici documenti contabili reperiti sono i bilanci di esercizio riferibili agli anni 2007 – 2010” (sul punto si v., altresì, verbale di acquisizione beni da parte del curatore del 26 marzo 2014).

Tuttavia la condotta in discorso, stando alle allegazioni difensive – sul punto decisamente generiche – non conduce di per sé a ritenere accertato alcun danno ai creditori sociali specifico ed ulteriore rispetto a quello di cui si dirà infra in relazione alla seconda e più specifica condotta contestata – che sarebbe consistita in un vero e proprio travaso di disponibilità economiche dalla Doc Market’s alla Gabrem, celato da operazioni immobiliari che avrebbero di fatto determinato l’irreversibile dissesto della Doc Market’s s.r.l. – in relazione alla quale l’omessa tenuta delle scritture contabili non è in nesso eziologico.

In particolare, si fa riferimento alle seguenti operazioni: a) acquisto nell’anno 2009 del ramo di azienda della “Cordon Bleu dei fratelli (omissis) s.r.l.” per € 1.562.126,00; b) il versamento nell’anno 2010 della caparra alla (omissis) per €1.446.000,00; c) sempre nel 2010, gli oneri per “operazione (omissis) ” – (omissis) , per complessivi € 368.303,00 per le unità di (omissis) e (omissis) ;

A tal proposito, al fine di verificare la configurabilità della fattispecie richiamata deve prima di tutto verificarsi se al momento dell’effettuazione delle operazioni in discorso poteva ritenersi integrata la condizione posta dalla norma richiamata di “riduzione del capitale al di sotto del minimo legale”.

Su questo specifico aspetto, appare eloquente quanto riportato, dal CTU nominato nel presente procedimento, che afferma, che “la salute della società (…) appare accettabile sino al bilancio al 31.12.2008, in lieve difficoltà nel 2009 e in totale default nell’anno 2010. I bilanci rappresentano in maniera impietosa le difficoltà finanziarie cui è andata incontro la società a causa degli “investimenti” realizzati negli anni 2009 e 2010, in particolar modo nell’acquisizione del (omissis) (investimento pari ad euro 1.050.000,00 atto del 02/07/2009 Notaio(omissis) ) nonché le operazioni effettuate in favore della (omissis)  srl, (euro 1.446.000,00) intese quali caparra confirmatoria per la concessione in locazione di alcuni locali anche in corso di costruzione, che, concretamente, evidenzia una mera operazione di finanziamento nei confronti della (omissis) s.r.l. Dall’esame dei dati numerici rappresentati, nonché dalla verifica dei prospetti di bilancio riclassificati, si evidenzia un andamento positivo negli esercizi 2007 e 2008, un primo campanello d’allarme nel 2009 e una grande negatività nell’esercizio 2010″.

Proseguendo nel ragionamento, il perito ritiene che l’andamento economico e finanziario dell’impresa sociale in quegli anni (2009-2010) avrebbe dovuto suggerire agli amministratori (ove avessero agito con la diligenza dovuta) di astenersi dal compimento di nuove operazioni, evidenziando “l’imprudenza ad effettuare l’operazione di acquisizione (omissis) “; mentre, attenendosi alle risultanze contabili che è stato possibile esaminare, assume come operazione certamente successiva “in danno del ceto creditorio, il finanziamento nei confronti di Gabrem immobiliare per un importo pari ad € 1.446.000,00” (cfr. p. 2 della Relazione definitiva e risposta alle osservazioni, depositata agli atti).

In altri termini, il Consulente assume la illiceità delle operazioni censurate dalla curatela in quanto incompatibili con gli scopi della liquidazione, seppure sotto un diverso profilo:

– le operazioni con la (omissis) s.r.l., in quanto intervenute certamente dopo che si era verificata la causa di scioglimento di cui all’art. 2484 n. 4 c.c., in ragione della esposizione, nel bilancio dell’esercizio 2010, della perdita del capitale, che già, a quella data, si era realizzata ( cfr: “di contro l’esclusivo riferimento all’erosione del capitale sociale come da bilancio al 31/12/2010 in conseguenza di una perdita pari a – 4.321.385, quindi con esclusivo riferimento al comma 4, le uniche operazioni incompatibili, riguarderebbero le sole anticipazioni alla (omissis) per un importo pari ad euro 1.446.000, tenuto ovviamente conto che in assenza di scritture contabili non è possibile verificare l’effettivo momento della perdita del capitale”);

– l’acquisizione del (omissis), in quanto effettuata successivamente al verificarsi della causa di scioglimento prevista al comma 2 del medesimo articolo per “impossibilita di conseguimento dell’oggetto sociale” (cfr pag. 6 : “tenuto conto che, come vedremo in seguito, le manifestazioni di difficoltà finanziaria appaiono già nell’anno 2009, la società si potrebbe ritrovare nella causa di scioglimento prevista al comma 2 (impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale) di contro con specifico riferimento ai valori numerici di bilancio si potrebbe far derivare lo scioglimento della società esclusivamente dall’anno 2010 (comma 4) riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale” ).

In realtà il ragionamento del perito esposto al punto b) non appare a parere di questo collegio condivisibile, in quanto l’antieconomicità dell’attività di impresa non comporta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale, dal momento che il lucro è scopo della società e non suo oggetto (essa potrà tutt’al più rilevare come mero motivo della deliberazione di anticipato scioglimento da parte dell’assemblea – si v. Corte d’Appello Napoli del 28.2.1996) e peraltro non forma oggetto neanche della domanda di parte attrice.

E allora, su queste premesse può senz’altro ritenersi accertata la illiceità della condotta per le operazioni effettuate nel 2010, mentre rimane in ombra l’operazione compiuta nel 2009 atteso che, in assenza della prova del preciso momento in cui il capitale sociale è sceso al di sotto minimo legale, non è possibile per il CTU determinare se questa operazione sia stata compiuta prima o dopo tale momento, seppure sembrerebbe escludersi detta circostanza, facendo riferimento il consulente ad una semplice “inopportunità” della stessa e anche alla luce di quanto evidenziato nella relazione B., ove viene dato atto che la gestione della società fino al 2009 “presentava una sostanziale sanità gestionale con risultati assoluti e relativi coerenti nel triennio” (cfr. pag. 11 relazione cit.).

I convenuti non hanno espletato alcuna incisiva difesa, riferendo esclusivamente che il fine individuato dall’impresa nelle operazioni in discorso era perfettamente aderente ad una logica di espansione territoriale e di diversificazione dell’attività.

Si tratta, tuttavia, di un argomento che non è idoneo ad incidere sull’essenza dell’accertamento compiuto, ma anzi corrobora l’assunto della insussistenza di un fine precipuamente liquidatorio che era il solo giustificato in quel contesto.

Neppure è possibile – come vorrebbe la difesa di parte convenuta – ricondurre gli investimenti in discorso alla sfera di insindacabilità della business judgement rule, atteso che, come illustrato in premessa, incombe un giudicato che copre anche il fine (di frode ai creditori) per cui tali operazioni sono state compiute (cfr. decreto di revoca del concordato: “la stessa finalità dell’operazione di “travaso” di disponibilità economiche dalla Doc Market’s alla Gabrem non è stata compiutamente rappresentata ai creditori, dandole appunto la veste di una “caparra confirmatoria per futura locazione”).

Deve infine ritenersi raggiunta la prova della circostanza che dette condotte abbiano in un qualche modo determinato il fallimento della società, aggravandone in modo irreversibile il dissesto, con conseguente danno di tutti i creditori.

Conferma tale assunto la relazione del CT B., ove a pag. 12 si legge: “sono le operazioni individuate come “straordinarie” ad aver segnato lo stato di crisi, operazioni senza le quali probabilmente la società avrebbe continuato ad operare senza importanti scossoni, nonostante le modeste riduzioni di fatturato dovute alle cessazioni dei punti vendita avvenute nel 2009 ed il loro effetto a regime”.

Sul punto si esprime anche il collegio nel decreto di revoca del concordato, nei seguenti termini: “Oltretutto va rilevato che la predetta “elargizione”, così qualificata dal (omissis), è stata indicata da quest’ultimo come una delle cause del dissesto della società, potremmo aggiungere, forse la principale considerata l’entità del versamento e il periodo temporale in cui lo stesso è avvenuto (…). E in questa direzione si è trattato senz’altro di una condotta posta in essere ai danni del creditori i quali si sono visti sottrarre una ingente quantità di denaro che avrebbe consentito un immediato soddisfacimento delle loro ragioni, laddove viceversa il soddisfacimento nel concordato attraverso la vendita dell’immobile offerto in garanzia dalla Gabrem (peraltro solo a seguito di sollecitazione del Collegio in fase di ammissione) si presenta all’esito alquanto incerto”.

Può, in conclusione, ritenersi accertato che per tutto l’esercizio 2010, il patrimonio della Doc Market’s era azzerato e aveva assunto un valore negativo per – € 3.001.689,00 e che dunque a fronte del verificarsi della fattispecie di cui all’art. 2482 ter c.c., certamente sussistente per tutto l’esercizio 2010, gli amministratori avrebbero dovuto convocare senza indugio l’assemblea, per procedere alla ricapitalizzazione della società (o alla sua trasformazione) cosa che non veniva fatta (mentre la messa in liquidazione della società avveniva soltanto nel settembre 2011) con conseguente concretizzarsi della fattispecie di scioglimento prevista dall’art. 2484 n. 4 c.c. e dunque del conseguenziale divieto per gli amministratori di porre in essere operazioni incompatibili con le finalità della liquidazione .

Deve altresì ritenersi accertato parimenti che la condotta illecita, consistita nel proseguire una gestione della società non orientata al fine liquidatorio, specificamente ponendo in essere le due operazioni immobiliari di cui si è detto, quando già si era verificata la perdita del capitale sociale, ha provocato un danno al ceto creditorio, reso evidente dal successivo fallimento della società.

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4. IL DANNO

Su queste basi deve ora essere operata la quantificazione del danno.

Sul tema si è registrato nel corso del tempo una significativa evoluzione giurisprudenziale.

Al più risalente orientamento giurisprudenziale (ex plurimis: Cass. 2671/1997; Cass. 1281/1997; Cass. 6493/1985) secondo il cui il danno imputabile agli amministratori per condotte illecite poteva essere commisurato alla differenza fra attivo realizzato ed il passivo accertato in sede fallimentare, oggetto di numerose critiche ad opera della dottrina, si è andato affermando un orientamento giurisprudenziale (ex plurimis: Cass. 7606/2011; Cass. 5876/2011; Cass. 16050/2009; Cass. 9616/2009) – in base al quale viene riconosciuto come risarcibile il solo danno che sia conseguenza immediata e diretta delle condotte antigiuridiche poste in essere dagli amministratori e di cui è necessario fornire idonea dimostrazione.

Tra i vari criteri elaborati dalla giurisprudenza per la quantificazione del danno si deve richiamare il criterio dei netti patrimoniali oggi positivamente riconosciuto con le modifiche all’articolo in commento apportate dal Codice della crisi (si v. Cass. 24431/2019; Cass. 2538/2005) che viene utilizzato allorché sia possibile individuare il momento in cui il capitale sociale è andato perso di talché il successivo aggravamento della situazione di crisi della società deve ascriversi all’ingiustificata ed illegittima inerzia degli amministratori. Il danno viene in questo modo quantificato nella differenza che risulta dalla comparazione tra la situazione patrimoniale della società riferita alla data in cui si è verificato la causa di scioglimento o l’insolvenza, e la situazione patrimoniale riferita alla data della dichiarazione di fallimento.

Il criterio del deficit fallimentare, seppur non più utilizzato in maniera primaria, ha mantenuto una funzione di criterio suppletivo quale parametro di riferimento utilizzato nell’ambito delle valutazioni equitative ex art. 1226, in tutte quelle situazioni – quali, ad esempio, la mancata tenuta delle scritture contabili o la loro totale inattendibilità – nelle quali risultava impossibile fornire una quantificazione dei danni imputabili agli amministratori per le condotte illecite dai medesimi tenute e dimostrate.

A precisare tuttavia i limiti di operatività di detto criterio è intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite (C. 9100/2015) la quale ha voluto chiarire che: “Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

Come accennato innanzi, sull’articolo in commento è intervenuto da ultimo il D.Lgs. 12.1.2019, n. 14 che ha introdotto un nuovo comma (terzo) all’art. 2486 c.c., ai sensi del quale: “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

*

Ebbene su queste basi il CTU conferma di non avere potuto utilizzare il criterio della differenza dei netti patrimoniali di cui al novellato articolo (che pur risulterebbe inapplicabile in ragione della sopravvenienza della norma, al giudizio in oggetto – almeno, stando all’opinione che si ritiene di condividere in merito – si v. sul punto Corte appello Catania, sez. I, 16/01/2020, n. 136) in ragione dell’assenza delle scritture contabili e dunque dell’impossibilità di determinare con precisione il momento esatto della perdita del capitale sociale ( si v. pag. 3 della risposta alle osservazioni del CTU).

Dalle risultanze del bilancio è tuttavia possibile affermare con certezza che le operazioni immobiliari effettuate nel 2010 in favore della Gabrem sono intervenute sicuramente in un periodo successivo al manifestarsi della perdita del capitale sociale (cfr. pag. 2 della risposta del CTU alle osservazioni).

In questo quadro, il Tribunale ritiene non corretto il ricorso al criterio equitativo differenziale (sollecitato dalla curatela) che nel caso specifico non troverebbe giustificazione, in quanto, nonostante la mancanza delle scritture contabili, parte attrice ha dedotto e dimostrato – grazie all’ausilio della CTU e con il riferimento ai bilanci di esercizio – uno specifico e diverso danno conseguente a delle specifiche operazioni immobiliari effettuate dagli amministratori.

Invero il ricorso al criterio differenziale non appare in questa ottica percorribile in quanto, come ribadito da numerose pronunce della S.c. successive all’arresto a SS.UU. n. 9100/2015 – “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’ art. 146, comma 2, l.fall. , la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.(Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la decisione impugnata che aveva liquidato in via equitativa il danno ascritto all’organo di amministrazione di una società di capitali, poi fallita, pur in presenza di specifici inadempimenti che, ove provati e causalmente collegabili al pregiudizio indotto dalla “mala gestio”, avrebbero consentito l’esatta quantificazione del danno patito dalla società, senza necessità di ricorrere alla liquidazione equitativa)” si v. da ultimo Cassazione civile sez. I 17 maggio 2021 n. 13220; Cassazione civile sez. VI 22 settembre 2021 n. 25664.

Più nel dettaglio, le SS.UU. del 2015, sollecitate ad un intervento chiarificatore, interrogandosi sul quesito in ordine a se e quale tra gli inadempimenti (“qualificati”) in cui può incorrere l’amministratore di società, e che l’attore deve aver allegato quale ragione della sua domanda risarcitoria, sia astrattamente efficiente a produrre un danno che si assuma corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita ed accertato nell’ambito della procedura concorsuale, ha ritenuto: a) che è evidente che lo potrebbero essere, in ipotesi, soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza (ma, se avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni); b) che qualora, viceversa, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di ogni base logica: non fosse altro perchè l’attività d’impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può quindi mai esser considerato per se solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a garantirne i risultati positivi. Nè potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare – in quanto tale e nella sua interezza – sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto nè imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, nè, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacchè questa ovviamente non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni genere di costo legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività d’impresa (si v. sul punto Cassazione civile, sez. I, 02/10/2015).

Ne discende, in termini generali, che dall’omessa o irregolare tenuta della contabilità (che pure integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori e che può, di per sè, essere potenzialmente, ma non necessariamente, produttiva di un pregiudizio) non può derivare la conseguenza che il pregiudizio stesso si identifichi nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.

Nel caso di specie il Fallimento ha fondato la responsabilità dei convenuti, più che sull’irregolarità nella tenuta delle scritture contabili (dalla quale non ha fatto derivare alcun concreto pregiudizio) su specifici comportamenti, correlati alle operazioni immobiliari di cui si è detto.

Alla luce delle pronunce citate, il ricorso al criterio del deficit fallimentare – nel caso specifico pari ad € 12.075.340,03 – sebbene esaminabile in virtù proprio della impossibilità di determinare con esattezza il momento della perdita del capitale sociale, a causa della irregolare tenuta delle scritture contabili – comporterebbe la liquidazione di un danno non collegabile eziologicamente agli specifici comportamenti addebitati agli amministratori.

Si tratterebbe peraltro di una operazione neanche sul piano logico plausibile (si v. sulla “logica plausibilità” del ricorso al criterio equitativo: Cass. n. 17198 dell’11 luglio 2013; n. 11155 del 4 luglio 2012; Cass. Civ. sez. I, del 01/02/2018, n. 2500) in considerazione della circostanza che il danno in questo tipo di responsabilità è collegato al periodo di gestione “non liquidatoria”; e, nel caso al vaglio, successivamente all’esercizio del 2010 la società non ha di fatto proseguito alcuna attività commerciale, essendo intervenuta dapprima la liquidazione con proposta di concordato e successivamente la revoca con dichiarazione di fallimento (per l’applicabilità del criterio equitativo nel diverso caso in cui si registra, di converso, una notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento si v. Cassazione civile, sez. I, 20/04/2017, n. 9983).

In definitiva, gli specifici comportamenti addebitati agli amministratori – consistenti nelle operazioni poste in essere simulatamente in favore della (omissis), incompatibili con gli scopi liquidatori – non si rivelano astrattamente idonei a porsi quali cause del danno lamentato pari all’intero deficit fallimentare (del resto, la causa del dissesto societario non è stata rinvenuta esclusivamente nelle operazioni immobiliari con la (omissis), ma verosimilmente anche alla gestione operata nell’anno precedente e nell’acquisizione del ramo del (omissis) ).

Per inciso, si osserva, infine, che non può incidere sulle conclusioni esposte, il dibattito sulla recente modifica dell’art. 2486 c.c. innanzi illustrata e sulla sua portata innovativa rispetto agli arresti giurisprudenziali esaminati, atteso che si tratta di norma di carattere sostanziale introdotta successivamente e dunque non applicabile al giudizio in oggetto (Corte appello Catania, sez. I, 16/01/2020, n. 136).

In coerenza con gli arresti citati, deve dunque ritenersi provato il danno per il ridotto ammontare di € 1.446.000,00, somma che formerà oggetto di condanna in solido nei confronti degli amministratori, rispettivamente di fatto e di diritto, della (omissis) s.rl. essendo stato dimostrato il loro agire concertato in frode ai creditori (per la solidarietà della responsabilità, che non ha formato oggetto di contestazione tra le parti, si v. tra le tante, Cassazione civile sez. I 18 settembre 2017 n. 21567).

Le spese di lite vanno liquidate ai parametri medi ad eccezione della fase decisionale ed istruttoria che si reputa opportuno liquidare ai minimi (la prima, per la sostanziale ripetizione delle difese svolte e quest’ultima in ragione del deposito di un solo scritto ex art. 183, comma VI c.p.c.) sul valore dell’accolto (per un totale di € 26.158,00). Queste, si compensano per 1/3 in ragione dell’accoglimento della sola domanda subordinata, fondata su presupposti in parte autonomi rispetto alla principale (Cass. n. 26043/2020) e per la restante parte si pongono a carico di parte convenuta, per il principio di soccombenza. Le spese ed i compensi di CTU – liquidati come da separato decreto – vengono interamente poste, in via definitiva, a carico della parte soccombente.

P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:1. accerta lo stato di amministratore di fatto della (omissis) s.r.l. di (omissis) sin dal 31.10.2005;

2. condanna (omissis) e (omissis)   in solido al pagamento in favore della CURATELA FALLIMENTO (omissis) S.R.L. della somma di € 1.446.000,00 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali sulla somma rivalutata dalla domanda al saldo.

3. compensa per 1/3 le spese di lite;

4. condanna (omissis) e (omissis) in solido, al pagamento della restante parte della spese di lite in favore di parte attrice che liquida in € 17.438,00 per compensi, oltre € 1.446,00 per esborsi, oltre rimborso spese forfettarie (15%) ed IVA e CPA, come per legge;

5. condanna (omissis) e (omissis)  in solido, al pagamento delle spese di CTU, in favore del dott. (omissis) , liquidate come da separato decreto.

Così deciso in Reggio Calabria, nella camera di consiglio del 13.12.2021.

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