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Tribunale Nola, 15/01/2025, n.2147
Massima
In tema di diffamazione aggravata, il gestore di un sito web è responsabile del delitto di diffamazione aggravata se non provvede a rimuovere tempestivamente i commenti denigratori che appaiono suila propria pagina, anche se sono stati scritti da altri. Dunque, chi amministra un sito internet è responsabile di ciò che accade al suo interno e, di conseguenza, anche dei contenuti che dovessero essere pubblicati o condivisi dagli altri utenti della rete, per la posizione di garanza che egli assume, ricadendo su di lui un obbligo di vigilanza; quindi, il gestore del sito che tollera consapevolmente la presenza del commento denigratorio, anche per omessa vigilanza, dei contenuti pubblicati sui sito di cui è titolare, si rende responsabile dello stesso reato di chi ha effettuato la pubblicazione.
Supporto alla lettura
DIFFAMAZIONE
Rispetto all’ingiuria ex art. 594 c.p., l’art.595 c.p. consiste nell’offesa all’altrui reputazione fatta comunicando con più persone, con il mezzo della stampa o tramite i social network a causa della loro capacità di raggiungere un numero indeterminato o apprezzabile di persone; persegue la condotta dell’offendere rivolta verso persone non presenti, ovvero non solo assenti fisicamente, ma anche non in grado di percepire l’offesa (la c.d. maldicenza in assenza dell’interessato).
La nuova costituzione italiana (art. 21) ha esteso la garanzia costituzionale a tutte indistintamente le manifestazioni del pensiero. Alla costituzione ha fatto seguito la legge 8 febbraio 1948, n. 47, che, pur avendo carattere provvisorio, tuttavia regola per la prima volta compiutamente la materia della stampa. Mentre la CEDU si è espressa più volte sul tema sostenendo che quando la diffamazione si realizza a mezzo social network, ad essere violato è l’art. 8 della CEDU, che tutela la vita privata del singolo in cui deve intendersi ricompreso anche il diritto alla reputazione.
Ambito oggettivo di applicazione
Alla prima udienza del 9.12.2022, dichiarata l’assenza dell’imputato, il processo veniva rinviato su richiesta del difensore dell’imputato al fine di consentire un bonario componimento della vicenda, con sospensione dei termini di prescrizione; su analoga richiesta dello stesso difensore il processo veniva rinviato anche alla successiva udienza del 22.2.2023, con sospensione dei termini di prescrizione del reato.
Seguiva ulteriore rinvio alla successiva udienza del 19.5.2023, stante l’assenza dei testi del P.M., non essendo pervenute le parti ad accordo per ii bonario componimento.
All’udienza dell’8.11.2023 veniva dichiarato aperto il dibattimento e venivano ammesse le prove come richieste dalle parti ma poi il processo veniva rinviato per l’assenza dei testi; seguiva ulteriore rinvio alla successiva udienza del 2.2.2024 per la assenza dei testi.
All’udienza del 3.5.2024 veniva assunta la testimonianza di (omissis), poi su richiesta del PM venivano acquisiti i documenti allegati alla querela.
Alla successiva udienza del 9.9.2024 veniva disposta la rinnovazione del dibattimento per la mutata composizione del Tribunale; quindi venivano nuovamente ammesse le prove come richieste dalle parti e poi veniva assunta la testimonianza di (omissis), al cui esito veniva acquisita la documentazione prodotta dal PM (stampa della e-mail cui aveva fatto riferimento il teste (omissis)).
Alla successiva udienza del 18.11.2024 la Difesa rinunciava al residuo teste della sua lista ed il Giudice, nulla osservando il P.M., ne revocava l’esame; quindi, così terminata l’istruttoria dibattimentale, veniva dichiarato chiuso il dibattimento e quindi le parti procedevano alla discussione, formalizzando le conclusioni riportate in epigrafe.
Ritiene il Tribunale che il compendio probatorio acquisito nel dibattimento fornisca prova piena della responsabilità dell’imputato in ordine al reato a lui ascritto.
I fatti possono ricostruirsi come di seguito esposto sulla base delle testimonianze della persona offesa, (omissis), e degli altri testi escussi, nonché nella documentazione acquisita. (omissis), Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi, sporgeva querela per le affermazioni fatte sul suo conto e pubblicate sul sito internet (…).
Effettivamente tali pubblicazioni – allegate alla querela e ritualmente acquisite all’udienza del 3.5.2024 – erano riferite in modo esplicito al (omissis), nella sua qualità di Presidente dell’Ordine dei Biologi.
In particolare, veniva scritto, nella pubblicazione del 26.6.2017: “Il (omissis), Presidente dell’Ordine dei Biologi, è un abusivo (Omissis). Per questo è sotto processo in quanto già rinviato a giudizio per falso in atto pubblico. (Omissis)… con i soldi dei Biologi, che pagano gli avvocati di (omissis), è anche ricorso alla Corte di Cassazione. (Omissis) … (omissis) siede nel Consiglio dell’Ordine, con tanto di lauto gettone (oggi 400 Euro a seduta), da circa 30 anni e forse per festeggiare la ricorrenza si è deliberato ultimamente anche uno stipendio mensile. Tralasciando gli altri fatti recenti di peculato, dei quali siamo a conoscenza perché li denunceremo alla Magistratura”.
Ancora in altra pubblicazione del 26.6.2017 veniva scritto: “(omissis.) Che (omissis) tenti il Golpe ed indica le elezioni pur essendo stato dichiarato decaduto, è un atto grave, truffaldino e lesivo degli interessi generali dei Biologi. L’ennesima buffonata di un vecchio arnese!”.
Ed ancora, in altra pubblicazione del 26.6.2017 veniva scritto: ” (Omissis) Calcatela prepara l’ennesima buffonata convocando per Giovedì 15 giugno i presidenti di seggio. Come se non bastassero il rinvio a giudizio per falso e brogli elettorali, intende violare ancora le leggi”. Questo, dunque, era il tenore delle affermazioni pubblicate nell’arco temporale compreso dal giugno al settembre 2017 nei confronti del (omissis) sul sito (…)., con le quali si attribuivano espressamente a costui condotte criminose ed antigiuridiche (essendo irrilevante la consapevolezza o meno della verità o falsità del fatto diffamatorio propalato, se non nei termini di cui all’art. 596 c.p.).
Ebbene, è indubbio che le affermazioni e le considerazioni contenute nei vari articoli pubblicati sul sito internet anzidetto sono gravemente offensive ed addirittura infamanti per il decoro e la reputazione del (omissis), atteso che tali pubblicazioni sul sito web hanno avuto l’effetto di comunicare con un numero indeterminato di terze persone; infatti la teste (omissis) ha dichiarato che si trattava di un sito abbastanza conosciuto tra gli appartenenti alla categoria e di aver letto ella stessa tali pubblicazioni, così come molti altri colleghi.
Ciò posto, è del pari indubbio che tali pubblicazioni diffamatorie siano attribuibili all’imputato. Infatti si è appurato che il titolare del citato sito web anzidetto era (omissis): il teste di PG (omissis) ha riferito che dagli accertamenti effettuati è risultato che l’imputato era l’assegnatario del sito.
In tale veste è senza dubbio configurabile nel caso in esame la responsabilità dell’imputato in relazione alle pubblicazioni effettuate sul predetto sito, sia sul piano oggettivo che sul piano soggettivo.
Quanto al primo profilo va evidenziato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il gestore di un sito web è responsabile del delitto di diffamazione aggravata se non provvede a rimuovere tempestivamente i commenti denigratori che appaiono sulla propria pagina, anche se sono stati scritti da altri.
Dunque, chi amministra un sito internet è responsabile di ciò che accade al suo interno e, di conseguenza, anche dei contenuti che dovessero essere pubblicati o condivisi dagli altri utenti della rete, per la posizione di garanza che egli assume, ricadendo su di lui un obbligo di vigilanza; quindi, il gestore del sito che tollera consapevolmente la presenza del commento denigratorio, anche per omessa vigilanza, dei contenuti pubblicati sui sito di cui è titolare, si rende responsabile dello stesso reato di chi ha effettuato la pubblicazione.
Pertanto nel caso in esame, indipendentemente dalla circostanza che l’imputato abbia o meno pubblicato personalmente sul sito gli articoli di contenuto diffamatorio, la loro omessa rimozione, per un periodo prolungato di tempo, è indicativo di una condotta penalmente rilevante a carico dell’imputato – avere tollerato consapevolmente la presenza del commento denigratorio – che configura la sua penale responsabilità, a titolo di concorso, nel reato di cui all’art. 595 c.p.
Quanto al profilo soggettivo – posto che l’elemento psicologico della fattispecie in esame è costituito dal dolo generico consistente nella coscienza e volontà di comunicare a più persone espressioni o informazioni delle quali si conosce la valenza lesiva dell’altrui reputazione – la titolarità del sito web in questione in capo all’imputato e la mancanza di alcuna iniziativa volta a bloccare le pubblicazioni diffamatorie nel protratto periodo in cui esse sono state reiterate sono chiaramente indicative di una consapevolezza, da parte dell’imputato, che vale a configurare il dolo generico, quanto meno nella forma del dolo eventuale, sia in termini di accettazione della diffusione della notizia diffamatoria sia in termini di valenza offensiva dell’espressione usata. Nel caso in esame si configura poi l’aggravante di cui all’art. 595 co. 2 c.p. in quanto il contenuto degli scritti diffamatori è indicativo dell’attribuzione alla persona offesa di fatti determinati (truffa, peculato, abuso di ufficio e quant’altro).
Si configura inoltre l’aggravante di cui all’art. 595 co. 3 c.p. perché l’offesa è stata arrecata con un mezzo – la pubblicazione s sito web -t ale da determinarne la massima diffusività e pubblicità.
Va pertanto affermata la responsabilità dell’imputato in ordine al reato aggravato come a lui ascritto.
Ritiene il Tribunale che non ricorrano nel caso di specie i presupposti di legge per riconoscere la causa di non punibilità per la ‘particolare tenuità’ del fatto contestato, richiesto dalla Difesa. Nel caso in esame non ricorrono i presupposti di legge per riconoscere la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p., come richiesto dalla Difesa.
Va evidenziato al riguardo che i presupposti applicativi dell’istituto invocato sono due: la “particolare tenuità dell’offesa”, riguardante il fatto di reato, e la “non abitualità del comportamento, inerente la personalità dell’autore del reato, i quali devono necessariamente sussistere congiuntamente; la sussistenza della particolare tenuità dell’offesa deve essere desunta, ai sensi dell’art. 131 bis, co. 1, c.p., sulla base delle “modalità della condotta” e della “esiguità del danno o del pericolo”, da valutarsi ai sensi dell’art. 133, co. 1, c.p.
Ebbene nel caso in esame, sotto il primo profilo, deve rilevarsi che la gravità delle offese indirizzate alla persona offesa ed il mezzo diffamatorio utilizzato – sito web – denota una notevole offensività della condotta, tale da escludere quella particolare tenuità dell’offesa che costituisce il primo presupposto della causa di non punibilità invocata, che pertanto non è configurabile nel caso in esame.
Passando poi al profilo sanzionatorio, non paiono configurabili le circostanze attenuanti generiche atteso che, a fronte della formale incensuratezza (di per sé sola inidonea a configurare dette attenuanti), deve rilevarsi che – pure a fronte di più volte prospettati propositi riconciliativi – non è individuabile alcun elemento da valorizzare in favore dell’imputato, in particolare alcun indice di resipiscenza o di rielaborazione critica delle proprie condotte.
Quanto alla dosimetria della pena, tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p.p. e dei principi di proporzionalità e adeguatezza della sanzione penale, pare congruo infliggere la pena detentiva -stante la gravità dei fatti – fissando tuttavia la pena base nel minimo edittale della fattispecie aggravata più grave (di cui all’art. 595 co. 3 c.p., trattandosi di aggravante ad effetto speciale), pari a mesi 6 di reclusione, aumentata per l’ulteriore aggravante a mesi 7, ulteriormente aumentata per la continuazione interna a mesi 8 di reclusione, così computata:
p.b. ex art. 595 co. 3 c.p. – mesi 6;
aumenta ex art. 595 co. 2 c.p. – mesi 7;
aumentata ex art. 81 c.p. – mesi 8;
Consegue ex lege la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali. Ricorrono nel caso in esame i presupposti di legge per concedere all’imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena, potendosi fondare sull’assenza di precedenti penali un giudizio prognostico positivo circa il fatto che costui si asterrà, per il futuro, dal commettere altri reati.
A norma dell’art. 544 c.p.p. è stato fissato in giorni 60 il termine per il deposito della motivazione.
Letti gli artt. 163 e ss c.p. ordina sospendersi l’esecuzione della pena per anni 5 alle condizioni di legge.
Letto l’art. 544 co. 3 c.p.p. fissa in giorni 60 il termine per il deposito della motivazione della sentenza.
Così deciso in Nola il 18 novembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 15 gennaio 2025.
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