Massima

I messaggi scambiati all’interno di una chat privata WhatsApp, anche se inviati tramite un cellulare aziendale, sono coperti dalla garanzia costituzionale della libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.). Di conseguenza, il loro contenuto non è utilizzabile a fini disciplinari dal datore di lavoro.  Al contrario, un post pubblicato sulla bacheca aperta al pubblico di un profilo Facebook, sul quale il lavoratore si qualifica come dipendente dell’azienda, costituisce una condotta disciplinarmente rilevante.

Supporto alla lettura

LICENZIAMENTO

Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro risolve il rapporto di lavoro.
Esistono diverse motivazioni che possono dare origine al licenziamento:

  • giusta causa
  • giustificato motivo soggettivo
  • giustificato motivo oggettivo
  • licenziamento orale (o verbale)
  • licenziamento in maternità o in conseguenza del matrimonio

GIUSTA CAUSA

Comportamento del lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro (c.c. 2119).

GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

È rappresentato da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso. Rientra ad esempio il licenziamento per motivi disciplinari.

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

E’ rappresentato da ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro dell’impresa.
Costituisce pertanto G.M.O. la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento.

La procedura in tutte queste forme di licenziamento per impugnare è bifasica: impugnativa stragiudiziale entro 60 giorni. Impugnativa giudiziale nei successivi 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale.

LICENZIAMENTO VERBALE O ORALE

E’ il caso in cui il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera – mail) ma a voce. Il licenziamento è nullo.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso al Tribunale di Milano, quale Giudice del Lavoro, depositato in data 24/04/2025 P1 ha convenuto in giudizio C1 per l’annullamento del licenziamento disciplinare intimatogli e la condanna della parte convenuta alle conseguenze gradate di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015; spese rifuse.

Si è ritualmente costituita in giudizio C1 contestando in fatto e in diritto l’avversario ricorso; spese rifuse.

Il ricorso, nei limiti e per i motivi di seguito esposti, è fondato.

P1 veniva assunto da C1 in data 26 ottobre 2021 quale operaio inquadrato al livello 3B CCNL per i dipendenti di imprese e società esercenti servizi ambientali.

Per quanto di interesse, a settembre 2024 C1 contestava disciplinarmente a P1 di aver pubblicato sulla chat WhatsApp, collegata al proprio numero di cellulare aziendale, messaggi audio a carattere “diffamatorio” nei confronti della dott.ssa X1 sindaco di X , messaggi scritti a contenuto asseritamente “aggressivo e finanche minatorio” nei confronti del Comandante della Polizia Locale di X e, infine, messaggi audio contenenti espressioni “inappropriate, oltreché gravemente diffamanti” nei confronti del Gruppo X di cui C1 è parte; da ultimo, gli veniva contestato di aver pubblicato, in data 21 agosto 2024, sul proprio profilo Facebook, un post “inappropriato, oltreché infamatorio” nei confronti dei Vigili; venivano, infine, richiamate precedenti sanzioni disciplinari ai fini della recidiva.

Nonostante le giustificazioni, con comunicazione del 16 ottobre 2024 la società intimava al lavoratore il licenziamento per giusta causa in questa sede impugnato.

Tanto premesso, si osserva quanto segue.

Come sopra accennato, C1 ha contestato disciplinarmente al ricorrente che:

i) all’interno della chat ” X ” condivisa con alcuni colleghi, utilizzando il numero di cellulare aziendale, nelle date del 12 e del 18 giugno 2024, nonché del 5 luglio 2024, diffamava e offendeva (con espressioni oggettivamente gravi e inappropriate) con dei messaggi audio, la sindaca del Comune;

ii) con analoghe modalità, in data 24 aprile 2024, scriveva dei messaggi dal contenuto aggressivo e minaccioso nei confronti del comandante della polizia locale del Comune;

iii) in data 21 agosto 2024, sulla bacheca aperta al pubblico del proprio profilo Facebook, ove si qualificava, nella sezione informazioni personali, quale autista di C1 pubblicava un post inappropriato nei confronti della polizia locale del Comune affermando che ”Sono del parere che i vigili sono dei falliti rubastipendi” e, commentando il proprio post, aggiungeva: X2 bel lavoro di merda, estorcere in tutti i modi soldi alla gente … bellissimo!”

iv) infine, sempre utilizzando la chat di WhatsApp, pubblicava un messaggio audio dai contenuti offensivi nei confronti del gruppo X Tanto detto, la difesa del ricorrente ha, innanzitutto, contestato l’utilizzabilità delle chat dell’app di messaggistica WhatsApp ai fini disciplinari.

Ebbene, sul rema la consolidata giurisprudenza di legittimità ha statuito che: IN TEMA DI licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una “chat” privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare ana condotta diffamatoria in quanto, ore la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse (Cass., ordinanza n. 21965 del 10/09/2018).

Sul tema, si è, inoltre, valorizzata la previsione dell’art. 15 Cost, che, come noto, definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, tutela costituzionale che è circoscritta al rapporto comunicativo attuato con cautele e modalità idonee ad escludere terzi dalla conoscenza, attraverso cioè l’impiego di mezzi trasmissione convenzionalmente riconoscibili come segreti, in difetto dei quali sarà configurabile solo una manifestazione del pensiero rivolta ad un destinatario determinato (Cass., ordinanza n. 5936/2025).

D’altra parte, in tale ultimo precedente viene espressamente richiamato – avendo riguardo proprio all’interpretazione della disposizione costituzionale in relazione alla diffusione dei messaggi scambiati nelle app di messaggistica – quanto statuito dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 170/2023) secondo cui “posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo dei tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurala dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione”.

Ciò posto, può darsi per pacifico che, nel caso di specie, la diffusione all’esterno dei messaggi audio e testi scritti del ricorrente all’interno della chat sia avvenuta da parte di membri della medesima.

Senza dubbio vero che il datore di lavoro ne è venuto a conoscenza non già direttamente bensì per il tramite della sindaca del comune di X , salvo che, sotto tale profilo, la fattispecie è perfettamente assimilabile a quella valutata dalla Cassazione già richiamata al paragrafo precedente, ove si evidenziava che: la società ricorrente ha appreso il contenuto della corrispondenza) destinala a rimanere segreta, su iniziativa di uno dei destinatari della stessa; nondimeno, tale iniziativa costituisce violazione del diritto alla segretezza e riservatezza della corrispondenza (v. citato art. 15 Cost.) avvenuta in danno dell’odierno intimato.

Ciò che rileva, difatti, è pur sempre il fatto che la conoscenza di una condotta potenzialmente rilevante ai fini disciplinari (ma relativa a dichiarazioni rese in una chat privata che rientra nell’ambito della tutela del citato articolo 15 Cost.) sia avvenuta con modalità quali quelle in commento.

Ed allora, è del tutto evidente che, anche nel caso di specie, ciò che la società ha contestato e qualificato come giusta causa di licenziamento è rappresentato esclusivamente dal contenuto della comunicazione inviata dal lavoratore tramite WhatsApp e col suo temono privato ai colleghi di lavoro, partecipanti alla chat. Il contenuto del messaggio, inviato a persone determinate e destinato a rimanere segreto, è divenuto esso stesso ragione del recesso. La manifestazione del pensiero attuata attraverso le moderne vie di comunicazione elettronica, assimilabili, secondo le parole della Corte Costituzionale, a una lettera inserita in una busta chiusa, è stata considerata dal datore di lavoro come condotta riprovevole (Cass., ordinanza n. 5936/2025 cit.).

Né valga invocare il latto che il lavoratore aveva utilizzato il cellulare aziendale e che la chat in commento fosse relativa anche a comunicazioni di lavoro, non essendovi nessun elemento per ritenere che, ciò nonostante, vi fosse (ed eventualmente in che termini) il diritto di soggetti ad essa esterni di prenderne visione o venirne a conoscenza per poi veicolarla al datore di lavoro.

Per quanto detto, deve convenirsi con le difese del lavoratore circa la non utilizzabilità, ai fini disciplinari, di tutti i messaggi audio e scritti contestati al lavoratore.

Resta invece, senza dubbio, rilevante ai fini disciplinari e contestabile dal datore di lavoro il messaggio pubblicato dal ricorrente su Facebook, non essendo contestata la natura pubblica del post, indirizzato, quindi, ad una indifferenziata platea di destinatari, ivi compreso il datore di lavoro.

Ebbene, le frasi utilizzate da P1 , contrariamente a quanto evocato da quest’ultimo (ovvero che sarebbero tutelate dall’articolo 21 della Costituzione in quanto libera manifestazione del pensiero), sono oggettivamente e inequivocabilmente offensive, esprimendo, con toni e modi inaccettabili, non certo opinioni eventualmente espresse con toni fortemente critici, ma solo gratuite offese prive di alcun apprezzabile pensiero compiuto.

La condotta del dipendente è ulteriormente aggravata dal fatto che, come sopra accennato, lo stesso aveva, nella medesima piattaforma social, chiaramente indicato il rapporto di dipendenza con C1 e le mansioni di autista.

Ed allora, va, innanzitutto, richiamato il codice disciplinare di C1 (che non è contestato, sia affisso in tutte le sedi aziendali, ivi compresa quella di pertinenza del lavoratore) il cui art. 6 così dispone: “Il lavoratore deve osservare una condotta uniformata a principi di corretteci verso i colleghi, i superiori gerarchici, gli utenti e i terzi in generale, nel rispetto delle leggi vigenti, delle normative collettive aziendali nonché del Codice Etico e del Modello Organizzativo ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 I valori ed i principi etici e morali devono costituire una componente costante ed inderogabile delia condotta di tutti i dipendenti”.

La condotta in commento è, innegabilmente, rilevante sotto il profilo disciplinare, salvo tuttavia dover essere valutata all’interno di un contesto disciplinare in cui quelle che, oggettivamente, rappresentano le condotte potenzialmente più gravi sono state escluse per le ragioni già evidenziate ai paragrafi precedenti.

Il lavoratore, inoltre, non ha diffamato o rivolto espressioni offensive nei confronti diretti del datore di lavoro, per quanto vero sia che la sua condotta sia indirizzata nei confronti di terzi,

Pertanto, pur dovendosi avere riguardo ai precedenti disciplinari del ricorrente ai fini della recidiva, deve osservarsi che la stessa società ha licenziato il lavoratore riguardo al complesso di tutti i fatti contestati, rispetto ai quali il messaggio pubblicato sulla piattaforma Facebook è senza ombra di dubbio il meno grave.

Deve quindi ritenersi sproporzionato il licenziamento in quanto unico fatto disciplinarmente rilevante, per quanto visto, non si ritiene che da solo considerato possa rendere legittimo il recesso.

Non essendovi condotte tipizzate dalla contrattazione collettiva ove ricondurre la condotta secondo l’interpretazione di cui alla sentenza 129/2024 della Corte Costituzionale (nemmeno prospettato dalla parte), va dichiarato estinto il rapporto di lavoro alla data di intimazione del recesso e, in forza delle previsioni dell’articolo 3, comma 1, D.Lgs. n. 23 del 2015, la società va condannata alla corresponsione al lavoratore di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale. Quest’ultima, va calcolata avendo riguardo alla durata relativamente breve del rapporto, tre anni, in uno con le significative dimensioni aziendali di P2 ; pertanto, si ritiene equo riconoscere 12 mensilità della retribuzione parametro che dalla busta paga in atti è pari ad Euro 2.198,21.

C1 va, quindi, condannata a corrispondere al ricorrente la somma complessiva di Euro 26.378,52 oltre interessi e rivalutazione dalla cessazione del rapporto al saldo effettivo.

Il ricorso deve, quindi, trovare accoglimento nei limiti anzidetti.

Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo avendo riguardo al valore dello indeterminabile della causa e potendosi collocare sui valori previsti per la bassa complessità.

Sentenza esecutiva.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, in parziale accoglimento del ricorso, accerta e dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato da C1 a P1 con lettera del 16 ottobre 2024 e, dichiarato estinto il rapporto di lavoro a tale data, condanna d a corrispondere a P1 , a titolo di indennità risarcitoria non assoggettata a contribuzione previdenziale, la somma complessiva di Euro 26.378,52, oltre interessi e rivalutazione dalla cessazione del rapporto al saldo effettivo;

respinge per il resto il ricorso;

condanna C1 a rimborsare a P1 le spese di lite che liquida in complessivi Euro 4.629,00 oltre spese generali e accessori di legge;

riserva il termine di giorni 15 per il deposito delle motivazioni della sentenza.

Sentenza esecutiva.

Conclusione

Così deciso in Milano, il 16 luglio 2025.

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2025.

Allegati

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