Con atto di citazione ritualmente notificato, O. F., S. F. e I. F., in proprio e quale esercente la responsabilità genitoriale sui figli minori C. T. e Ch. T. (rispettivamente coniuge convivente, figlio convivente, figlia e nipoti di L.F.), hanno adito l’intestato Tribunale al fine di sentir accertare e dichiarare la responsabilità della struttura sanitaria convenuta per la morte di L.F. e, conseguentemente, ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali dagli stessi subito.
A sostegno della propria domanda, hanno dedotto che:
– in data 15.01.2016 L.F. sarebbe stata ricoverata presso la struttura ospedaliera convenuta per l’insorgenza di un dolore all’arto inferiore sinistro, a causa di una caduta accidentale occorsa nel proprio domicilio;
– a seguito di accertamenti clinici e strumentali, le sarebbe stata diagnosticata una frattura sottocapitata di femore sinistro e, per tale motivo, in data 18.01.2016, la stessa sarebbe stata sottoposta, in assenza di consenso informato, ad un intervento chirurgico di “impianto protesi biarticolare”;
– dopo l’intervento chirurgico, tuttavia, la paziente avrebbe riportato uno stato febbrile e un addensamento parenchimale in sede basale destra di natura flogistica;
– in data 23.01.2016, L.F. sarebbe stata dimessa con terapia antibiotica domiciliare;
– in data 01.02.2016, la paziente sarebbe tornata nuovamente presso l’ospedale civile di L’Aquila su indicazione del proprio medico di medicina generale, per un probabile scompenso cardiaco e ivi le sarebbe stata diagnosticata un'”area di opacità parenchimale nel campo polmonare medio a destra, compatibile con un processo flogistico in atto;
– successivamente, le condizioni cliniche di L.F. sarebbero peggiorate, anche a causa di una severa acidosi metabolica e, in data 5.02.2016, la stessa è deceduta con la diagnosi di “Shock cardiogeno in paziente con doppio focolaio broncopneumonico”;
– gli attori, al fine di chiedere il risarcimento dei danni derivanti dalla morte della propria congiunta, in data 28.09.2017, hanno esperito, seppur con esito negativo, un tentativo di mediazione
Si è costituita in giudizio la Asl 1 Avezzano – Sulmona – L’Aquila, la quale ha contestato la ricostruzione avversaria deducendo, in particolare, che il modulo del consenso informato sarebbe stato sottoscritto dalla figlia di L.F., che le dimissioni sarebbero avvenute in ADI, secondo le linee guida in materia e che il decesso della paziente sarebbe avvenuto per cause naturali e in ogni caso non riconducibile a responsabilità della struttura.
All’udienza del 25.11.2019 il giudice ha concesso termine agli attori per richiedere al giudice tutelare l’autorizzazione alla proposizione della domanda giudiziale in nome e per conto dei minori C. T. e Ch. T., che è stata concessa.
La causa è stata istruita con la concessione dei termini ex art. 183 c.p.c. e con l’espletamento di C.T.U. medico – legale.
All’udienza del 03.05.2022 il giudice ha trattenuto la causa in decisione assegnando alle parti termine per note conclusionali ed eventuali repliche.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è parzialmente fondata.
In primo luogo, deve affermarsi che la materia in questione, con precipuo riferimento alla responsabilità medica della struttura sanitaria, va inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale. Infatti, pur non potendosi applicare le disposizioni normative attualmente in vigore (L. 8 marzo 2017 n. 24) che, a norma dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale e come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. 28994/2019) non hanno efficacia retroattiva, deve evidenziarsi che la natura di detta responsabilità si fonda sul c.d. “contratto di spedalità”, alla stregua del quale, l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto atipico, che si perfeziona anche per fatti concludenti, laddove si abbia anche soltanto l’accettazione del malato presso la struttura (cfr. Cass. 577/08, 8826/2007).
Orbene, chiarita la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, ne discende l’applicabilità del relativo regime in punto di riparto dell’onere probatorio. Sul piano processuale, dunque, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare l’esistenza del contratto di spedalità ed allegare sia l’inadempimento della struttura (che consiste nell’aggravamento della situazione patologica, o nell’insorgenza di nuove patologie per effetto del trattamento sanitario), sia il relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile che non” (cfr. Cass. sez. un. n. 581/2008). Resta a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (Cass. civ. n. 10297/2004).
Nel caso in esame, è pacifica tra le parti la conclusione del contratto di spedalità, conseguente al ricovero dell’attrice presso la struttura convenuta.
A tal proposito gli attori hanno dedotto la responsabilità della struttura convenuta sotto diversi profili: in primo luogo, hanno lamentato la mancanza di adeguate informazioni relative al rapporto rischio/beneficio dell’operazione chirurgica cui è stata sottoposta L.F. a seguito di una caduta accidentale in ambiente domestico; in secondo luogo, hanno lamentato la responsabilità della struttura convenuta relativa alla condotta tenuta dai sanitari in occasione del primo ricovero ospedaliero (dal 15.01.2016 al 23.01.2016) di L.F. e, in particolare, alle dimissioni imprudenti e precoci della paziente a fronte dell’insorgenza di un’infezione nosocomiale che non sarebbe stata adeguatamente diagnosticata e trattata; infine, gli attori hanno lamentato la condotta negligente e omissiva dei sanitari in ordine al secondo ricovero ospedaliero (dal 01.02.2016 al 05.02.2016), relativamente alla condizione ipotensiva della paziente e, in generale, al peggioramento delle sue condizioni di salute, fino al decesso della stessa.
Orbene, dalle allegazioni delle parti, nonché dalla consulenza tecnica esperita in corso di causa – le cui risultanze possono essere condivise in quanto immuni da vizi logici e giuridici e comunque svolta nel contraddittorio delle parti – la fattispecie può essere ricostruita in questi termini.
Sotto il profilo del mancato consenso informato in ordine all’operazione chirurgica cui è stata sottoposta L.F. giova rilevare come, dalla documentazione versata in atti da parte convenuta (cfr. doc. nn. 3 e 4), è emerso che il consenso informato è stato adeguatamente prestato dalla figlia della paziente, sig.ra I. F.. Nei documenti citati, infatti, si evince che quest’ultima fosse a conoscenza delle possibili complicanze post-operatorie ed in tale occasione ha altresì diCh.to che la propria madre fosse affetta da “attuale grave deficit cognitivo, non in possesso delle piene facoltà mentali ed incapace di esprimere alcun consenso. L’intervento chirurgico è indispensabile ed improcrastinabile”.
Tale circostanza, pertanto, consente di ritenere che L.F., o comunque i suoi familiari, erano stati informati della necessità dell’operazione chirurgica a cui la prima doveva essere sottoposta, nonché delle relative eventuali complicanze.
Sotto tale aspetto, dunque, non trova accoglimento la richiesta di risarcimento danni per la lesione del diritto all’autodeterminazione richiesto dagli attori.
Inoltre, quanto all’intervento chirurgico (artroprotesi d’anca sinistra), sotto il profilo medico-legale, il CTU ha ritenuto che sia stato correttamente eseguito.
Con riferimento al profilo di doglianza relativo alle dimissioni precoci e imprudenti di L.F., nonostante uno stato di infezione nosocomiale in atto, deve dichiararsi la responsabilità della struttura convenuta.
Al riguardo, infatti, il collegio peritale ha osservato che “le dimissioni del 23/01 appaiono sostanzialmente precoci ed infatti non risultano essere allegati esami laboratoristici attestanti un miglioramento della leucocitosi, della neutrofilia o degli indici di flogosi, non è stato eseguito un Rx di controllo per valutare la regressione del focolaio flogistico e soprattutto non è stata rivalutata l’acidosi. Basandosi sugli ultimi parametri laboratoristici presenti in cartella clinica la dimissione appare precoce nonostante il miglioramento clinico descritto nella diaria […]. La paziente F. avrebbe meritato un’ulteriore stabilizzazione della sua situazione clinica proprio in funzione di quella fragilità che la F. manifestava”.
In risposta alle osservazioni dei consulenti di parte, il collegio peritale ha, altresì stabilito che “gli squilibri elettrolitici evidenziati erano già insorti durante il ricovero prima delle precoci dimissioni del 23/01, infatti come già descritto in bozza l’emogasanalisi eseguito il 20/01 obiettivava un’acidosi metabolica che non fu correttamente trattata né ricontrollata. Pertanto è da ritenere che lo squilibro elettrolitico evidenziato nel ricovero del 1/02 sia in realtà un’espressione di aggravamento della acidosi metabolica, su base ipossica da processo polmonitico, non correttamente trattato ed evoluto poi in uno shock multiorgano. Pertanto si ribadisce quanto già precedentemente espresso in bozza di relazione in quanto, un trattamento più tempestivo della patologia polmonare dovuta ad un’infezione correlata all’assistenza e un’adeguata terapia medica a correzione dell’acidosi metabolica da ipossia avrebbero, secondo il principio del più probabile che non, evitato il decesso della paziente”.
La relazione peritale conclude poi constando che il decesso di L. F. sia stato determinato da “complicazioni di una polmonite che per le caratteristiche di insorgenza può definirsi correlata all’assistenza, in una paziente che, per l’avanzata età e per le plurime comorbidità (in primo luogo il grave decadimento cognitivo e lo stato di allettamento dovuto alla frattura) era da ritenersi paziente significativamente “fragile”.
In ultimo, con riferimento alla lamentata condotta negligente e omissiva dei sanitari in ordine al secondo ricovero ospedaliero (dal 01.02.2016 al 05.02.2016), come accertato dalla CTU, non si evidenziano profili di censurabilità “essendo le condizioni della L.F. ormai non responsive al corretto trattamento farmacologico eseguito fino al decesso del 05.02.2016”.
Alla luce di quanto precede deve, dunque, dichiararsi la responsabilità dei sanitari – e quindi della struttura – per la morte di L.F. in quanto, un trattamento tempestivo dell’infezione correlata all’assistenza, nonché un’adeguata terapia medica dell’acidosi metabolica insorta, avrebbero potuto evitare il decesso della paziente.
Orbene, passando al quantum delle pretese risarcitorie degli attori, occorre premettere che essi, ognuno per la propria parte, chiedono il risarcimento iure hereditatis del danno biologico terminale e del danno morale soggettivo e, iure proprio, del danno da perdita parentale.
Con riferimento alle voci di danno iure hereditatis, non vi è dubbio sulla loro risarcibilità. Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione, infatti, i danni non patrimoniali risarcibili dalla vittima, suscettibili di trasmissione ereditaria, possono consistere:
a) nel “danno biologico” (cd. “danno terminale”) determinato dalla lesione al bene salute, quale danno-conseguenza consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino all’exitus. L’accertamento del danno conseguenza è questione di fatto, e presuppone che le conseguenze pregiudizievoli si siano effettivamente prodotte, necessitando a tal fine che tra l’evento lesivo e il momento del decesso sia intercorso un “apprezzabile lasso temporale”;
b) nel “danno morale cd. soggettivo” (cd. “danno catastrofale” o da lucida agonia), consistente nello stato di sofferenza spirituale od intima (paura o patema d’animo) sopportato dalla vittima nell’assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso l’ineluttabile fine-vita. trattandosi di danno-conseguenza, l’accertamento dell'”an” presuppone la prova della “cosciente e lucida percezione” dell’ineluttabilità della propria fine (cfr. Cass. ord. 23153/2019).
Con riferimento alla risarcibilità del danno morale soggettivo, inoltre, è necessario che tra il fatto lesivo dell’integrità psicofisica e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo, in modo da poter individuare una netta separazione temporale tra i due eventi.
Tale principio è stato espresso dalla Suprema Corte, la quale ha evidenziato che “l’apprezzabilità dello spazio intertemporale richiesta dalla giurisprudenza consiste nel requisito di una netta separazione temporale fra i due eventi che valga a distinguere la loro verificazione nel tempo. Verificatosi questo requisito, il danno biologico terminale è sempre esistente per effetto della percezione anche non cosciente delle gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita”(cfr. Cass. 18163/2007).
Orbene, nel caso di specie, ripercorrendo la vicenda clinica di L.F., è emerso che la stessa è stata ricoverata presso l’Ospedale di L’Aquila in data 15.01.2016 ed è deceduta in data 5.02.2016. In ragione del tempo intercorrente tra la contrazione dell’infezione nosocomiale e il decesso, L.F. ha subito un danno biologico dovuto alla totale compromissione della sua integrità psicofisica.
Relativamente alla quantificazione del danno, deve procedersi in via equitativa secondo il criterio delle c.d. Tabelle di Milano, e ciò anche in virtù del principio espresso dalla Suprema Corte, secondo il quale “nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici Giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale – e al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, il parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui all’art. 1226 e 2056 c.c. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono. L’applicazione di diverse tabelle, ancorchè comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell’applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito”.
Ciò posto, considerando la vicenda clinica di L.F., il danno biologico va liquidato nella somma di euro 60.000,00.
Quanto al danno morale soggettivo, in punto di liquidazione, la Suprema Corte ha evidenziato che lo stesso si configura come “un danno non patrimoniale di natura affatto peculiare che comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro – ancorchè sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso – che sappia tener conto della enormità del pregiudizio” (cfr. Cass. 23183/2014): di conseguenza, si ritiene opportuno stabilirlo nella misura di euro 50.000,00.
Entrambe le predette voci di danno vanno devolute in favore degli attori “eredi” secondo le richieste dagli stessi formulate ai sensi dell’art.581 c.c..
Venendo al danno da perdita parentale, invece, deve premettersi che, secondo l’ormai costante e univoca giurisprudenza di legittimità, esso costituisce un danno conseguenza, da allegare e provare, anche mediante presunzioni, nella sua duplice componente di sofferenza morale e negativa ripercussione sul piano dinamico – relazionale, quale sconvolgimento della vita del congiunto: “in tema di pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno e entrambi i profili di cui si compone unitario danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico – relazione, nonché ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ripercorrendo elementi presuntivi fuori la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso” (cfr. Cass. 907/2018). E ancora: “il danno non patrimoniale da uccisone di un congiunto, quale tipico danno – conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non è in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampie del nucleo familiare, l’abitudine di vita, l’entità della vittima e sei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata” (cfr. Cass. 28989/2019; Cass. 11200/2019.
Nel caso di specie, gli attori hanno agito in qualità di coniuge (quanto a O. F.), figli (quanto a S. e I. F.) e nipoti (quanto a C. e Ch. T.) di L.F. e, dunque, in assenza di indici contrastanti, deve ritenersi presuntivamente provato il danno non patrimoniale anche in applicazione del disposto di cui all’art. 2727 c.c.
Sotto il profilo della liquidazione del danno questo giudice ritiene di dover applicare le c.d. Tabelle di Roma, e ciò anche in considerazione del recente approdo giurisprudenziale della Corte di Cassazione, secondo cui “al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dei precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado id parentela, la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi, in ragione della particolarità della situazione, salvo l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”(cfr. Cass. 3305/2021).
Pertanto, alla luce dei richiamati principi, in considerazione dell’età della vittima (82) e dei congiunti al momento della morte (O. F. anni 86; S. F. anni 45; I. F. anni 44; C. T. anni 13 e Ch. T. anni 8), lo stato di convivenza con la vittima per O. F. e S. F., il risarcimento può liquidarsi come segue:
– in favore di O. F. euro 100,000,00;
– in favore di S. F. euro 90.000,00;
– in favore di I. F. euro 90.000,00;
– in favore di C. T. euro 70.000,00;
– in favore di Ch. T. euro 70.000,00.
Relativamente alle spese funerarie, le stesse non possono essere riconosciute in quanto non risulta in atti idonea documentazione attestante l’effettivo esborso.
Sulle somme liquidate, trattandosi di debito di valore, deve essere riconosciuta la rivalutazione monetaria e gli interessi legali con decorrenza dal giorno della domanda.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, da distrarsi in favore dell’Avv. M. S., dichiaratosi antistatario.
Le spese di c.t.u. vanno poste definitivamente a carico della convenuta.
P.Q.M.
Il Giudice, definitivamente pronunciando, così provvede:
– accoglie parzialmente la domanda attorea e, per l’effetto, condanna la Asl 1 Avezzano – Sulmona – L’Aquila al risarcimento del danno in favore degli attori, così determinato:
– in favore di O. F. la somma di euro 136.666,00;
– in favore di S. F. la somma di euro 126.666,00;
– in favore di I. F., la somma di euro 126.666,00;
– in favore di C. T., la somma di euro 70.000,00;
– in favore di Ch. T., la somma di euro 70.000,00,
con rivalutazione monetaria e interessi legali dal 15.06.2016 sino al soddisfo;
– condanna la Asl 1 Avezzano – Sulmona – L’Aquila alla refusione delle spese di lite in favore degli attori, che si liquidano nella somma di euro 10.000,00, oltre spese generali 15%, I.V.A. e C.A. come per legge, da distrarsi in favore del procuratore M. S.;
– pone definitivamente a carico della Asl 1 Avezzano – Sulmona – L’Aquila le spese di c.t.u.
L’Aquila, 17/11/2022
Il Giudice
