RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con ricorso, depositato il 7.11.2017, i ricorrenti hanno esposto di essere rispettivamente moglie e figli di Si. De. il quale ha prestato attività lavorativa dal 1971 al 1995, quale dipendente della Grandi Motori Trieste Spa, a cui è successivamente subentrata la resistente, a Trieste, svolgendo mansioni di tornitore e addetto al controllo qualità in situazione ambientale di esposizione ad amianto, analiticamente descritta in ricorso ed è deceduto il 23 luglio 2012 a causa di adenocarcinoma polmonare asseritamente contratto a causa delle mansioni svolte. Parte ricorrente ha, quindi, sostenuto la colpa e la responsabilità della resistente per violazione dell’art. 2087 c.c., per la patologia contratta da Si. De. ed ha, quindi, concluso come indicato in epigrafe.
Si è costituita la società Fincantieri S.p.a., la quale ha eccepito l’inammissibilità della domanda di automatico riconoscimento del danno biologico differenziale, applicandosi alla fattispecie l’art. 13, d.lgs. 38/2000, ha contestato la sussistenza del nesso di causalità (quantomeno esclusivo) tra la patologia contratta dal lavoratore e l’attività lavorativa dal medesimo prestata. La società ha contestato la configurabilità della violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c.; ha eccepito la mancata prova in ordine ai danni non patrimoniali lamentati. Ha, quindi, concluso come indicato in epigrafe.
La causa è stata istruita attraverso l’acquisizione dei documenti prodotti dalle parti, l’assunzione delle testimonianze richieste dalle parti e l’espletamento di una c.t.u. medico-legale.
La causa è stata discussa e decisa all’udienza del giorno 11.2.2019.
Quanto all’eccezione preliminare di inammissibilità della domanda di risarcimento del danno biologico in relazione alla previsione del suo indennizzo nell’ambito della copertura assicurativa pubblica ex articolo 13 del decreto legislativo 38 del 2000, essa risulta infondata.
Invero, anche a prescindere dal rilievo secondo cui l’indennizzo del danno biologico previsto dalla disciplina dell’assicurazione obbligatoria non copre alcune voci di danno alla persona, qualificate, a tale stregua, anche quale c.d. “danno complementare”, risulta dirimente il rilievo per cui, poiché l’indennità Inail, in considerazione della sua natura assistenziale, non copre esattamente l’intero danno alla salute, anche dopo la novella di cui al decreto legislativo 38/2000 il lavoratore ha diritto, ricorrendo i presupposti dell’articolo 10 del TU 1124/1965, ad agire contro il datore di lavoro per il ristoro del danno biologico c.d. differenziale, ovverosia di quella parte di danno biologico che, in termini meramente quantitativi, non sia coperta dall’assicurazione obbligatoria (in tal senso, di recente Cass. 18469/2012; Cass. 13222/2015).
In altri termini, anche successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. 38/2000, a norma degli artt. 10 e 11 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 (T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro), la responsabilità civile del datore di lavoro, nonostante la copertura assicurativa garantita al lavoratore infortunato dall’Inail, permane (con la conseguente esperibilità dell’azione risarcitoria dell’infortunato per il cosiddetto danno differenziale) quando l’infortunio sia stato cagionato dalla violazione delle norme di protezione contro gli infortuni, allorché il fatto si configuri come reato procedibile d’ufficio, valutazione effettuabile incidenter tantum anche dal giudice del lavoro. L’obbligo risarcitorio del datore di lavoro (o committente, v. infra) nei confronti del lavoratore infortunato, previsto dall’art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, è subordinato e limitato all’eventuale eccedenza dell’ammontare complessivo del risarcimento determinato secondo i criteri civilistici, rispetto alle “indennità liquidate a norma degli articoli 66 e seguenti” del T.U. dell’assicurazione obbligatoria.
Ebbene, nel caso di specie, nel ricorso sono stati allegati i presupposti della domanda di risarcimento del danno relativa al c.d. danno differenziale/complementare. Invero, da un lato, sono stati allegati tutti gli elementi costitutivi della affermata responsabilità della convenuta in ordine ad una condotta suscettibile di configurarsi astrattamente quale reato (omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione di infortuni e malattie professionali), essendo stata allegata la sua condotta omissiva (nocività dell’ambiente di lavoro ed omissione dell’adozione di misure di prevenzione dei rischi da esposizione all’amianto: v. ricorso, pag. 10 ss.), il nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento (insorgenza di adenocarcinoma polmonare pag. 3 ss. del ricorso), l’affermato elemento soggettivo della colpa (ricorso, pag. 30 ss.). Dall’altro lato, parte ricorrente ha allegato il danno in relazione alle diverse voci di cui chiede il risarcimento, quantificandolo secondo i criteri civilistici.
Nel merito, la domanda dev’essere accolta nei termini che seguono.
Giova premettere, in punto di diritto, che la particolare forma di responsabilità datoriale di cui all’art. 2087 c.c., collegata alla violazione dell’obbligazione di sicurezza su di lui gravante nei confronti dei lavoratori (sostanziantesi in obblighi di comportamento imposti da specifiche norme di legge o suggeriti dalle conoscenze del momento in forza della clausola aperta in esso contenuta) è ascrivibile all’ambito della responsabilità contrattuale. Si ritiene, infatti, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, con ogni conseguenza in tema di distribuzione dell’onere della prova che si pone, dunque, negli stessi termini dell’art. 1218 cod. civ., circa l’inadempimento delle obbligazioni (ex plurimis, Cass. 28205/2011; 26378/2008; Cass. 11781/2003; Cass. 1886/2000).
Ne consegue che incombe sul lavoratore l’onere di allegare e provare l’esistenza del rapporto di lavoro, il danno subito, nonché il nesso tra prestazione lavorativa e danno, mentre incombe sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele adottabili volte ad impedire il verificarsi del danno e ciò anche quanto la specifica norma cautelare sia entrata in vigore dopo i fatti di cui si discorre, proprio in virtù della citata clausola di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c. (Cass. 22710/2015).
Nella presente controversia, i ricorrenti cumulano sia l’azione contrattuale per il risarcimento del danno spettante al defunto sia l’azione extracontrattuale per i danni asseritamente subiti iure proprio.
Ebbene, un tanto premesso in diritto, in punto di fatto si osserva che a seguito dell’esame del materiale istruttorio in atti, è possibile affermare che risulta provato che Si. De., nell’ambito del rapporto di lavoro intercorso con la Grandi Motori (nei cui rapporti giuridici quest’ultima è succeduta), ha eseguito le mansioni allegate in ricorso in condizioni ambientali di esposizione all’amianto.
Si veda la deposizione del teste Lu.: “ io ho iniziato alla Fabbrica Macchine poi confluita in Grandi Motori, nel 1963 e il De. grosso modo nel 1971 e come me lavorava sulle macchine utensili in relazione a diverse componenti dei motori, usavamo anche guarnizioni che venivano ricavate da componenti di cartone che conteneva amianto; poi con i cordoncini di amianto dovevamo anche isolare le finestre dei locali dove lavoravamo e passando per andare in mensa si attraversava la fonderia. Poi siamo passati in Grandi Motori e entrambi lavoravamo al tornio ma anche su tutta la gamma delle macchine utensili; confermo il capitolo 2; il capitolo 3; si lavorava sui cuscinetti e ralle che provenivano dai trattamenti termici ma anche su altre componenti che potevano avere amianto. Noi personalmente andavamo nel reparto trattamenti termici a prendere personalmente i pezzi: guarnizioni ralle e cuscinetti che erano ancora impregnati di metallo bianco e per dividere i diversi pezzi si mettevano dei cordoni e dei cuscinetti di amianto anche spessi 3 cm. Poi questi pezzi arrivavano alla postazione di lavoro su cartoni di amianto. Nelle vicinanze c’erano macchine alesatrici e fresatrici su cui lavoravamo anche noi in quanto operai multifunzione; confermo il capitolo 7; preciso che l’area dei trattamenti termici non era completamente separata dalle altre zone di lavorazione; confermo il cap.8; il cap. 10, l’aria compressa si usava anche per raffreddare le componenti e questo spostava il pulviscolo nell’ambiente.”.
Il CTU, sulla base della documentazione medica e della documentazione comprovante l’utilizzo dell’asbesto nell’ambito lavorativo di riferimento, in atti, ha identificato la causa della morte nella patologia adenocarcinoma polmonare, da porsi in correlazione con le mansioni svolte, anche in relazione al tempo di latenza e agli studi scientifici che evidenziano che statisticamente l’adenocarcinoma è la patologia neoplastica di più frequente insorgenza tra gli esposti all’amianto (come deve ritenersi essere stato il De., per quanto sopra esposto) non fumatori (pag. 17 ss. della CTU).
Risulta, quindi, accertato, sulla base della predetta CTU, anche il nesso di causa tra attività lavorativa e patologia che ha causato il decesso.
Quanto alle conseguenze, il CTU ha accertato che: “ In considerazione del periodo intercorso tra diagnosi e decesso del de cuius e in considerazione del quadro clinico di esordio della malattia già in fase avanzata si ritiene equo quantificare in termini di inabilità temporanea biologica 90 giorni al 50% e 90 giorni a totale “ (CTU pag. 19).
L’analisi svolta dalla c.t.u. medico-legale si presenta come una analisi puntuale e argomentata, aderente al quesito posto ed esaustiva, convincentemente sostenuta; ad essa questo giudice ritiene di aderire e in questa sede fa rinvio.
Né risulta che il datore di lavoro abbia provato di aver adottato tutte le cautele idonee ad evitare o ridurre i rischi connessi alla pericolosità dell’amianto, secondo le conoscenze dell’epoca (e, dunque, anche a prescindere dalla già intervenuta commercializzazione o meno di una maschera specifica per le polveri di amianto).
Ed invero, la pericolosità dell’amianto era nota, quanto al carcinoma polmonare, quantomeno dal 1935-1940 (pag. 15 della CTU).
Tuttavia, parte resistente, nella memoria di costituzione, non ha allegato in modo specifico di aver adottato, con specifico riferimento alla posizione di Si. De., tutte le misure possibili per evitare il danno, attraverso l’adozione di ogni strumento e accorgimento possibile.
In particolare, a fronte delle contestazioni di parte ricorrente, parte resistente, in relazione alla provata contestualità delle lavorazioni, non ha nemmeno allegato in modo specifico di aver adottato misure atte ad evitare la propagazione delle polveri (anche di amianto), confinando e delimitando le aree ove si svolgevano le lavorazioni che ne determinavano la diffusione.
Né risulta siano stati adottati idonei sistemi di aspirazione o siano state impiegate mascherine; inoltre, il datore di lavoro resistente non ha offerto alcuna informazione ai lavoratori in merito alla pericolosità dell’amianto: si veda la deposizione del teste Lu.: “ Non c’erano aspiratori; nessuno ci ha mai detto di adoperare mascherine; nessuno ci ha mai spiegato la pericolosità dell’amianto; solo a metà degli anni ottanta ci hanno detto di stare attenti con l’aria compressa.”.
Per quanto precede, dunque, deve ritenersi sussistente la colpa del datore di lavoro che non ha adottato tutti gli accorgimenti e le misure di sicurezza in materia di prevenzione del rischio amianto, già noto all’epoca dei fatti.
Sicché parte resistente deve essere condannata a risarcire il danno non patrimoniale – trasmissibile iure hereditatis agli odierni ricorrenti – colposamente arrecato a Si. De. per l’esposizione professionale ad amianto subita nel periodo in cui era alle sue dipendenze o di società sue danti causa.
Nel caso di specie, trattasi di un periodo di inabilità temporanea che ha rapidamente portato alla morte del lavoratore. Dovrà quindi riconoscersi un periodo di invalidità temporanea parziale seguito da un periodo di tre mesi (massima estensione secondo le tabelle di cui infra) in cui si configura un danno terminale, in considerazione del fatto che all’evento dannoso è seguita, in un apprezzabile intervallo di tempo, la morte; in tale intervallo temporale non si è avuta una stabilizzazione dei postumi ma le conseguenze dannose dell’evento si sono aggravate sino alla morte: “In tema di danno da perdita della vita, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso. Tale danno, qualificabile come danno “biologico terminale”, dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile “iure hereditatis” da commisurare soltanto all’inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte.” (Cass. 15499/2014; Cass. 23183/2014; Cass. 1072/2011).
Nella liquidazione, tenuto conto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine alla idoneità dei parametri contenuti nelle Tabelle del Tribunale di Milano a consentire una equa liquidazione del danno non patrimoniale (Cass. 2167/2016; Cass. 20895/2015), troveranno dunque applicazione i criteri di liquidazione dell’invalidità temporanea parziale (per il periodo di tre mesi in cui il CTU ha riconosciuto una invalidità temporanea al 50%); inoltre si ritiene che la circostanza che l’insorgenza della malattia e la morte sono avvenute ad una età non avanzata (il lavoratore aveva 58 anni e ha avuto la consapevolezza di lasciare una moglie di 54 anni e due giovani figlie di 23 e 20 anni) giustifichino un aumento dei valori medi delle tabelle a titolo di personalizzazione.
Come detto, con riferimento al periodo di 3 mesi di inabilità temporanea (periodo massimo di indennizzabilità del danno biologico terminale secondo la citata tabella) nell’ultimo periodo di vita, in cui le condizioni si sono rapidamente evolute verso la morte, trova applicazione – quanto meno per analogia – la tabella per la liquidazione del danno terminale, tabella i cui valori includono la componente biologica temporanea e sono già parametrati alla natura “terminale” del danno, consentendo, in ogni caso, la personalizzazione del danno in presenza di circostanze specifiche che come detto, nel caso di specie risiedono in particolare nell’età del lavoratore defunto e delle ricorrenti.
Nel caso di specie, con riferimento al periodo di 3 mesi di inabilità temporanea parziale al 50% (v. CTU), tenuto conto che le tabelle di Milano per l’invalidità temporanea assoluta prevedono un importo giornaliero di euro 98 oltre al massimo del 50% personalizzazione, che nel caso di specie si ritiene di riconoscere in tale importo massimo proprio in considerazione della età non avanzata dei coniugi e della giovane età delle figlie – rapportato tale importo al grado di inabilità del 50% e moltiplicando per i giorni in cui tale grado di invalidità è perdurato secondo il CTU -, la liquidazione del danno per tale periodo è di euro 6.615,00.
Con riferimento all’ultimo periodo di tre mesi di vita da valutarsi, per quanto precede, sub specie di danno terminale, la tabella milanese del danno terminale (che include la liquidazione dell’invalidità temporanea) prevede un importo complessivo pari, per tre mesi, ad euro 51.835,00 e che già tiene conto delle peculiarità del danno terminale; come detto, per i motivi sopra esposti si ritiene equo l’aumento del 50% a titolo di personalizzazione: sicché il danno terminale deve essere liquidato in euro 77.752,50.
Il danno non patrimoniale subito dal De. in conseguenza della malattia professionale per cui è causa deve, dunque, essere complessivamente liquidato in euro 84.367,50.
Alcuna deduzione deve essere riconosciuta in relazione agli importi erogati (o erogabili) dall’Inail in quanto il risarcimento riconosciuto in questa sede riguarda voci non indennizzate dall’Istituto (danno alla salute da inabilità temporanea e danno terminale). Sicché, non assume in ogni caso rilievo, in questa sede, la recente modifica dell’art. 11, comma 6, del T.U. 1124/1965 a mente del quale “Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto.”, poiché la novella, nell’introdurre un metodo di determinazione del danno per poste indistinte, richiama sia i concetti di risarcimento (civilistico) che di indennizzo (da intendersi, dunque, proprio in contrapposizione con la nozione di risarcimento, come indennizzo Inail) e fa comunque riferimento ai “pregiudizi oggetto di indennizzo” (per quanto esposto, indennizzo Inail), delimitando quindi il proprio ambito di applicazione al solo danno differenziale (differenza tra il risarcimento civilistico e l’indennizzo Inail in relazione alle voci di danno da quest’ultimo indennizzate). Del resto, non risponderebbe ad alcun criterio di ragionevolezza ricomprendere nell’alveo di applicazione della predetta norma il c.d. danno complementare (relativo alle voci di danno non indennizzate dall’Inail) in relazione al quale, invero, non si pone alcuna necessità di raffronto tra quanto liquidabile civilisticamente e quanto oggetto di indennizzo Inail, proprio perché si tratta di voci che l’Inail non indennizza.
L’importo sopra determinato è trasmissibile iure hereditatis agli odierni ricorrenti , moglie e figlie di Si. De., in ragione della rispettiva quota ereditaria di 1/3 ciascuno (euro 28.122,50 ciascuna).
Quanto al danno non patrimoniale iure proprio dei ricorrenti, le tabelle di Milano indicano per la perdita del coniuge e di un genitore un importo da euro 165.960,00 a euro 331.920,00.
Ebbene, quanto a Mi. Ma. deve considerarsi che essa è rimasta vedova a 54 anni, in un momento i cui – in relazione ai dati statistici sulla aspettativa di vita – poteva attendersi di trascorrere con il marito altri 20/30 anni, e che ha assistito il marito sino alla morte (teste De.. In relazione a tali circostanze, si ritiene equo discostarsi dai valori minimi e liquidare
l’importo di euro 250.000,00.
Quanto alle figlie Gi. e Si. De., oltre ad essere stata provata la sussistenza del rapporto parentale – le figlie convivevano, all’epoca dei fatti, con i genitori e hanno assistito il padre -, deve tenersi in considerazione che esse, alla morte del padre, avevano rispettivamente 23 e 20 anni, erano studentesse, e dunque sono state private in giovane età di un fondamentale punto di riferimento per la loro crescita. In ragione di tali circostanze appare equo discostarsi dai valori minimi e liquidare per ciascuna delle due figlie un importo di euro 230.000,00.
In conclusione, per tutto quanto precede, deve essere accertato e dichiarato il diritto di parte ricorrente al risarcimento del danno non patrimoniale iure hereditatis e iure proprio subito a causa della morte di Si. De
Pertanto parte resistente deve essere condannata a corrispondere ai ricorrenti a titolo di danno non patrimoniale iure hereditatis per la morte del marito e padre l’importo di euro 28.122,50 quanto alla quota ereditaria di ciascuno, oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data della diagnosi della malattia (9.7.2012, v. doc. 18 di parte ricorrente) e via via rivalutata sino al saldo; inoltre parte resistente deve essere condannata a corrispondere, a titolo di danno non patrimoniale iure proprio patito da Mi. Ma. l’importo di euro 250.000,00 oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data della morte di Si. De. (23.7.2012) e via via rivalutata sino al saldo; a titolo di danno non patrimoniale iure proprio patito da Gi. e Si. De. l’importo di euro 230.000,00 ciascuna, oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data della morte di Si. De. (23.7.2012) e via via rivalutata sino al saldo.
Quanto precede assorbe ogni ulteriore questione.
Le spese di lite, come infra liquidate, secondo il d.m. 55/2014 seguono la soccombenza di parte resistente.
Pertanto, tenuto conto del valore della causa, del pregio dell’attività prestata da parte ricorrente, le spese di lite dovute ai ricorrenti, in solido tra loro, si quantificano in euro 3.500,00 per la fase di studio, euro 1.500,00 per la fase introduttiva, euro 2000,00 per la fase istruttoria, E 2.900,00 per la fase decisionale, per un ammontare complessivo di euro 9.900,00, oltre euro 1830,00 per spese di CTU, oltre al 15% del compenso a titolo di rimborso spese forfetario, oltre ad Iva e CPA come per legge, da distrarsi in favore dei difensori dichiaratisi antistatari. Parte resistente deve essere condannata, altresì, alla refusione in favore di Ma. Mi. delle spese per accertamenti medici pari ad euro 305,00.
Per le stesse ragioni, le spese della c.t.u. medico legale – liquidate in favore del dott. Somma, visto l’art. 21 del DM 30 maggio 2002 nonché l’art. 52 del DPR 115/2002, considerato il pregio e la complessità dell’opera svolta, vista la parcella depositata in atti, nell’importo di complessivi euro 581,54, oltre ad Iva e Cassa previdenza, come per legge – vengono poste a carico di parte resistente con solidarietà delle parti nei confronti del consulente.
P.Q.M.
il Giudice del Lavoro di Trieste, definitivamente pronunciando tra le parti, ogni contraria e diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così giudica:
1) accertato e dichiarato il diritto di parte ricorrente al risarcimento del danno non patrimoniale iure hereditatis per la morte di Si. De. a causa della malattia professionale allegata in ricorso, condanna parte resistente a corrispondere ai ricorrenti, in ragione della rispettiva quota ereditaria, l’importo di euro 28.122,50 per ciascuno, oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data della diagnosi della malattia (9.7.2012) e via via rivalutata sino al saldo;
2) accerta e dichiara il diritto iure proprio dei ricorrenti al risarcimento del danno non patrimoniale per la morte di Si. De. a causa della malattia professionale allegata in ricorso e pertanto condanna parte resistente a corrispondere a Ma. Mi., l’importo di euro 250.000,00, a Gi. De. l’importo di euro 230.000,00, a Si. De. l’importo di euro 230.000,00, oltre ad interessi legali sulle somme devalutate alla data della morte di Si. De. (23.7.2012) e via via rivalutate sino al saldo;
3) condanna parte resistente alla refusione in favore della parte ricorrente delle spese di lite che liquida in euro 9.900,00, oltre ad euro 1830,00 per spese di CTP, oltre al 15% del compenso per rimborso spese forfetario, oltre Iva e CPA come per legge, da distrarsi in favore del patrocinio di parte ricorrente dichiaratosi antistatario; condanna parte resistente a corrispondere a Ma. Mi. l’importo di euro 305,00 per spese per accertamenti medici;
5) pone a carico di parte resistente e con solidarietà delle parti in favore del consulente le spese della CTU liquidate in favore del dott. Somma in euro 581,54 oltre IVA e Cassa Previdenza di legge.
Motivazione riservata ex art. 429 c.p.c. nel termine di giorni 60.
Così deciso in Trieste, 11.2.2019
Depositata in Cancelleria il 25/02/2019
