Massima

Integra il reato di interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.) la condotta del medico, incaricato dell’assistenza sanitaria turistica, che si rende ripetutamente e ingiustificatamente assente e irreperibile durante l’orario in cui avrebbe dovuto prestare servizio in ambulatorio, causando in tal modo un consistente disservizio nella prestazione sanitaria e turbando il regolare svolgimento del servizio, anche se l’alterazione è temporanea e oggettivamente apprezzabile.

Supporto alla lettura

INTERRUZIONE DI PUBBLICO SERVIZIO

Il reato di interruzione o turbamento di un ufficio o servizio pubblico o di un sevrizio di pubblica necessità (art. 340 c.p.) tutela il buon andamento della Pubblica Amministrazione, e in particolare il funzionamento regolare e continuativo dell’ufficio o del servizio.

Il comportamento interruttivo consiste nella mancata prestazione o nella cessazione per intero dell’attività di servizio per un arco temporale apprezzabile. Il turbamento, invece, consiste in una sofisticazione del funzionamento del servizio o dell’ufficio.

La fattispecie delittuosa si manifesta quindi alternativamente nel comportamento di chi determina un’interruzione o di chi turba la normalità di un ufficio o di un servizioo di pubblica necessità. Ciò che assume rilievo è l’effettiva lesione cagionata al corretto e regolare andamento della Pubblica Amministrazione, assumendo, altresì, carattere seondario l’arco temporale inerente il turbamento o l’interruzione del servizio, che deve pur essere di natura apprezzabile.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

A seguito di citazione diretta da parte del PM, (omissis) veniva tratto a giudizio davanti a questo Tribunale imputato come da epigrafe.

Assunte le prove ammesse, in esito al giudizio, ritiene questo giudice provata la responsabilità dell’imputato in ordine al reato a lui ascritto.

Emerge dalle indagini e dalla istruttoria dibattimentale che l’imputato, assunto con contratto dd. 21 dicembre 2010 dalla Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari del distretto Fiemme e Fassa quale medico incaricato dell’assistenza sanitaria ai turisti per la stagione invernale 2010-2011, in due occasioni, il 7 ed il 18 febbraio 2011, si rendeva irreperibile in orario in cui doveva esser presente nell’ambulatorio ospedaliero, così omettendo le cure ai pazienti.

Le indagini evidenziavano altresì che (omissis) attestava, ai fini della liquidazione dei propri compensi, la sua presenza in ambulatorio in almeno quattro giornate del mese di febbraio 2011 nelle quali, per parte degli orari indicati, lo stesso non poteva esser stato in servizio presso l’ambulatorio turistico.

Le testimonianze assunte e la documentazione prodotta in atti confermano la sussistenza degli addebiti.

Per quanto riguarda l’assenza dal posto di lavoro e la irreperibilità dell’imputato nella giornata del 7 febbraio 2011 la stessa risulta attestata dal dipendente dell’ospedale di Cavalese (omissis) il quale, a fronte delle rimostranze di un paziente, tentava vanamente e ripetutamente di rintracciare anche telefonicamente l’imputato, che avrebbe dovuto prestare servizio ambulatoriale dalle 10,00 alle 12,00 e che si presentava solo alle 11,30.

L’episodio, mai smentito né giustificato dall’imputato, trova conferma nella lettera di contestazione inviatagli il 9 febbraio dal Dott. (omissis), responsabile dell’Unità operativa assistenza primaria del Distretto, il quale in dibattimento ha confermato tale suo intervento.

Medesima condotta l’imputato teneva il 18 febbraio 2011, allorchè l’infermiera (omissis) e il centralinista dell’ospedale (omissis) – come dagli stessi riferito – a fronte delle proteste di un paziente che non riusciva a trovare il dott. (omissis) in orario in cui questi doveva prestare servizio, provavano vanamente a rintracciare quest’ultimo, riscontrandolo assente dall’ambulatorio e irreperibile al numero di telefono mobile che il medesimo aveva comunicato per eventuali chiamate e questo per la fascia oraria lavorativa di quella giornata.

Anche questo episodio trova conferma ulteriore nella lettera della Direttrice del Distretto sanitario (omissis) che in data 24 febbraio 2011, in relazione a detta condotta, comunicava all’imputato la risoluzione del contratto di lavoro.

Neppure in questa occasione l’imputato contestava l’addebito o allegava giustificazioni.

Consolidata e condivisibile è la giurisprudenza che intravvede in condotte del genere il contestato reato di interruzione di pubblico servizio. In particolare la Suprema Corte ha ribadito che integra il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità anche la condotta che determini una temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell’ufficio o del servizio, proprio in riferimento al comportamento di un medico che aveva ritardato di due ore l’apertura dell’ambulatorio ortopedico di un ospedale (Sez. 6, Sentenza n. 36253 del 22/09/2011 Rv. 250810), che integra il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità e non il reato di rifiuto di atti di ufficio la condotta del medico in turno di reperibilità presso una struttura ospedaliera che si renda irraggiungibile al recapito fornito disattivando il telefono cellulare (Sez. 6, Sentenza n. 37459 del 08/07/2004 Rv. 230358), che in detto reato l’elemento soggettivo non consiste esclusivamente nel dolo diretto, corrispondente alla condotta intenzionalmente diretta a provocare l’interruzione o la turbativa del pubblico ufficio o servizio, essendo rilevante anche il dolo indiretto o eventuale, fondato sulla consapevolezza che l’azione o l’omissione è idonea a cagionare l’evento dell’interruzione o della turbativa e sull’accettazione del rischio della verificazione di esso. Ne consegue che commette il reato di interruzione di un pubblico servizio il medico addetto a un determinato servizio, il quale pur essendo di turno, si renda irreperibile (Sez. 6, Sentenza n. 33062 del 08/04/2003 Rv. 226663).

In conclusione il condivisibile orientamento ermeneutico della Corte è nel senso che, ai fini della integrazione dell’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 340 cod. pen., non ha rilievo che l’interruzione sia stata temporanea o che si sia trattato di un mero turbamento nel regolare svolgimento dell’ufficio o del servizio, atteso che la predetta fattispecie incriminatrice tutela non solo l’effettivo funzionamento di un ufficio, ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, ma anche il suo ordinato e regolare svolgimento (Cass. pen. sez. 6, 35071/2007 Rv. 238025); che conseguentemente il reato de quo si realizza anche se l’interruzione o il turbamento della regolarità dell’ufficio o del servizio siano temporalmente limitati e coinvolgano solamente un settore e non la totalità delle attività (Cass. pen. sez. 6, 334/2008 Rv. ); che, pertanto, anche la condotta che determini una temporanea alterazione, purchè oggettivamente apprezzabile, nella regolarità dell’ufficio o del servizio, è idonea a realizzare l’azione esecutiva del delitto in questione (Cass. pen. sez. 5, 27919/2009 Rv. 244337).

E’ esattamente quanto realizzato dall’imputato con le sue condotte che hanno determinato un consistente disservizio nella prestazione cui l’Azienda sanitaria si era impegnata verso i pazienti, con ripercussioni non solo sul buon andamento dell’Azienda stessa ma anche sulle aspettative mediche dei malati o infortunati che alla stessa si erano rivolti.

Quanto al secondo reato contestato, riconducibile all’art. 640 c.p., esso trova prova documentale nel raffronto tra le presenze indicate dall’imputato l’1 marzo 2011 nella richiesta delle proprie spettanze per il precedente mese di febbraio e il prospetto degli orari in cui lo stesso svolgeva servizio presso l’ospedale di Jesolo.

Con decorrenza dall’1 febbraio 2011 infatti, in contemporaneità con il servizio di medico turistico prestato presso il Distretto sanitario di Fiemme e Fassa, (omissis) stipulava contratto di prestazione medica con l’Azienda sanitaria della Regione Veneto presso l’ospedale di Jesolo.

Per i giorni 21, 22 e 23 febbraio 2011 l’imputato dichiarava nella richiesta di liquidazione diretta al Distretto sanitario Fiemme e Fassa di aver prestato servizio dalle 08,00 alle 20,00, cosa di fatto impossibile in quanto in quegli stessi giorni (omissis) risultava in servizio notturno presso l’ospedale di Jesolo con orario dalle 20,00 alle 08,00 del giorno successivo. Pertanto a Cavalese l’imputato non poteva esser rimasto oltre le ore 18,00, calcolati i tempi di trasferimento da questo Comune a quello di Jesolo.

Anche per il 7 febbraio 2011 (omissis) indicava nella richiesta di compenso una presenza in servizio a Cavalese dalle 08,00 alle 20,00, circostanza smentita dall’acclarata sua assenza per circa due ore quale – come sopra detto – inequivocabilmente accertata.

Dette emergenze documentali hanno trovato ulteriore prova nelle dichiarazioni della Dott.ssa (omissis), responsabile amministrativa del Distretto Sanitario di Fiemme e Fassa ed in quelle del M.llo (omissis) che ebbe a condurre le indagini.

In tale palese false attestazioni devono riscontrarsi gli estremi del reato di frode contestato. Per pacifico approdo giurisprudenziale infatti, la menzogna – per di più realizzata mediante falso ideologico documentale – idonea a trarre in errore la persona offesa integra gli artifici e raggiri richiesti dall’art. 640 c.p., cui, nel caso di specie, si accompagnano l’ingiusto, in quanto indebito, profitto per l’autore e il danno per l’Azienda Sanitaria.

Tale ultimo reato deve riqualificarsi nella forma tentata, avendo la responsabile amministrativa (omissis) dichiarato che, una volta accertate le mancanze dell’imputato, l’Azienda ha revocato i relativi mandati di pagamento decurtando i compensi in relazione alle ore di lavoro non prestate da (omissis), così non essendo venuta a consumazione la truffa.

Del tentativo emergono peraltro tutti i connotati giuridici, data l’evidente idoneità ed inequivocità della condotta fraudolenta dell’imputato, mentre il dolo appare a sua volta palese, non potendo il sanitario, al momento di compilazione delle richieste di compensi, non essere a conoscenza delle proprie assenze, sia perché contestategli dall’Azienda sia perché dovute a sua contemporanea presenza in altro distretto sanitario.

I due reati contestati appaiono riunibili in continuazione per il nesso teleologico e cronologico che li lega.

Nel graduare la pena vanno valutati i parametri soggettivi ed oggettivi posti dall’art. 133 c.p. e in particolare l’intensità del dolo, e l’entità dei danni anche d’immagine cagionati, nonché i precedenti giudiziari, singolarmente gravi e numerosi per un esercente la professione medica, comunque ostativi alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Alla luce di tali indici, appare equa la pena di mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa, (p.b. per il più grave reato di truffa anni uno di reclusione ed Euro 900,00 di multa, diminuita a mesi quattro di reclusione ed Euro 300,00 di multa ex art. 56 c.p., aumentata la pena detentiva a mesi sei di reclusione ex art. 81 c.p.).

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 – 535 c.p.p.,

Dichiara l’imputato colpevole dei reati ascritti, ritenuta quanto a quello di truffa la fattispecie del tentativo e riuniti gli stessi in continuazione, lo condanna alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa oltre al pagamento delle spese processuali.

Motivazione riservata in gg. 60

Così deciso in Trento, il 17 marzo 2014.

Depositata in Cancelleria il 22 marzo 2014.

Allegati

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