Massima

Il requisito della residenza per 10 anni di cui gli ultimi due in maniera continuativa, richiesto per accedere alla misura del reddito di cittadinanza, va inteso in senso sostanziale, consentendo agli interessati di fornire riscontri obiettivi e univoci che dimostrino l’effettività di tale residenza anche se non risultante dai registri anagrafici, in linea con i principi comunitari che vietano qualsiasi forma di discriminazione, anche indiretta, fondata sulla nazionalità sicché, qualora tale effettività di residenza venga provata, l’INPS deve riammettere la ricorrente al beneficio.

 

Supporto alla lettura

REDDITO DI CITTADINANZA

Il Reddito di Cittadinanza è una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale.

Si tratta di un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari, ed è associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale.

Per ottenerlo occorre possedere determinati requisiti di cittadinanza, economici e di altro tipo.
La legge di Bilancio 2023 ha stabilito che dal 1° gennaio 2024 il Reddito di cittadinanza sarà superato dalle nuove misure di inclusione sociale e lavorativa. Potranno continuare a ricevere il Reddito di Cittadinanza fino al 31 dicembre 2023 i nuclei familiari dove ci sia almeno una persona minorenne o con disabilità o con almeno 60 anni di età, in caso contrario potranno continuare a riceverlo i nuclei familiari avviati ai servizi sociali che entro il 30 novembre 2023 siano stati da questi presi in carico in quanto valutati non attivabili al lavoro, oppure i cui componenti tra i 18 e i 59 anni siano stati avviati ai Centri per l’Impiego e da questi, in quanto non attivabili, reindirizzati ai servizi sociali e presi in carico entro il 30 novembre 2023.
Il c.d. “Decreto Lavoro 2023” (D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito con modificazioni dalla L. 3 luglio 2023, n. 85) ha introdotto due nuove misure di inclusione sociale e lavorativa:
  • dal 1° settembre 2023 possono accedere al Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL) i singoli componenti dei nuclei familiari, di età compresa tra 18 e 59 anni, con un valore dell’ISEE non superiore a euro 6.000 annui, che non hanno i requisiti per accedere all’Assegno di inclusione o i singoli componenti dei nuclei che percepiscono l’Assegno di Inclusione che decidono di partecipare ai percorsi di politiche attive per il lavoro, purché risultino esclusi dalla scala di equivalenza usata per calcolare il beneficio spettante e dagli obblighi di attivazione dell’ADI. La misura è incompatibile con il Reddito e la Pensione di cittadinanza e con ogni altro strumento pubblico di integrazione o di sostegno al reddito per la disoccupazione;
  • dal 1° gennaio 2024 i nuclei familiari con un valore ISEE non superiore a euro 9.360, dove ci sia almeno una persona minorenne o con disabilità o over 60 o in condizioni di svantaggio certificate dalla pubblica amministrazione potranno richiedere l’Assegno di Inclusione (AdI) per 18 mesi rinnovabili.

Entrambe le nuove misure richiedono il rispetto di ulteriori requisiti, che riguardano principalmente la condizione economica, la cittadinanza, la residenza e il soggiorno.

Ambito oggettivo di applicazione

ORDINANZA

Con ricorso ex artt. 702 bis cpc e 28 D.Lgs. 159/11, (omissis) ha esposto di essere cittadina comunitaria presente sul territorio italiano dall’estate del 2008 in modo continuativo e ininterrotto, sebbene non sia risultata sempre formalmente iscritta nei registri anagrafici, avendo ottenuto l’iscrizione anagrafica presso il Comune di Roma in data 22.3.13, poi cancellata a seguito di cambio di abitazione effettuato senza alcuna comunicazione, e, successivamente, presso lo stesso Comune in data 11.3.20; di aver presentato, in data 7.4.20, all’Inps domanda di reddito di cittadinanza; che l’Inps, dopo aver accolto la domanda e iniziato ad erogare il beneficio, lo ha revocato, con comunicazione del 25.8.21, del seguente tenore: ““mancanza del requisito di residenza (art. 2, co. 1, lett. a), n. 2, L. 26/2019) – non ha risieduto in Italia gli ultimi due anni in modo continuativo e non ha risieduto in Italia per almeno dieci anni”. Ha contestato tale revoca, assumendo: in punto di fatto di aver documentato la propria presenza effettiva sul territorio italiano da più di 10 anni e in punto di diritto che il requisito della residenza previsto dall’art. 2, comma 1, lett. a), punto 2, del d.l. 4/19 convertito in legge n. 26/19 va inteso in senso sostanziale, quale criterio di radicamento territoriale, e non quale formale iscrizione anagrafica, così come indicato anche nelle circolari del Ministero delle Politiche Sociali del 19.2.20 e del 14.4.20; che, di contro, pretendere una residenza legale sul territorio comporterebbe una discriminazione indiretta per i cittadini comunitari, i quali, a differenza dei cittadini italiani, per ottenere l’iscrizione anagrafica, devono dimostrare i requisiti per ottenere il diritto al soggiorno (ovvero, ai sensi dell’art 7 del d.lgs. 30/07, devono rientrare in una delle seguenti categorie: essere lavoratori subordinati o autonomi; disporre di risorse economiche sufficienti; frequentare corsi di studio o di formazione professionale disponendo di risorse economiche sufficienti; essere familiari di un cittadino dell’unione che rientri in una delle categorie sopra indicate).

Ha chiesto, pertanto, al fine di essere riammessa al beneficio revocato, che nel caso in cui il requisito della residenza in Italia sia inteso in senso formale, la norma sia disapplicata per violazione dei principi comunitari di non discriminazione in base alla nazionalità (art. 45 TFUE, art. 14 CEDU, art. 21 CDFUE) o che, in subordine, venga effettuato un rinvio pregiudiziale alla CGUE ex art. 267 TFUE con la formulazione del seguente quesito: “se l’art. 7, par. 2, Regolamento n. 492/2011, l’art. 1, par. 2 del medesimo Regolamento, l’art. 10 del medesimo Regolamento come interpretato dalla giurisprudenza della Corte, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una norma nazionale come quella contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. a) DL 4/2019 che prevede il requisito di residenza legale e non della presenza effettiva e non episodica nello Stato Italiano al fine di accedere a una prestazione di contrasto alla povertà e di sostegno nell’accesso al lavoro come il “reddito di cittadinanza”

Ha quindi rassegnato le seguenti conclusioni:

a) accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’INPS consistente

– nel non aver precisato nella circolare 20.3.2019 (doc. 22) e nel proprio sito istituzionale che il requisito della residenza sia da intendersi in senso sostanziale come radicamento decennale sul territorio italiano;

– nell’aver sospeso l’erogazione e revocato alla ricorrente il Rdc a causa della asserita mancanza del requisito dei dieci anni di pregressa residenza legale in Italia e conseguentemente, ai fini della cessazione della discriminazione e della rimozione degli effetti, anche quale piano di rimozione ex art. 28, c. 5 Dlgs 150/11

IN VIA PRINCIPALE

b) ordinare all’INPS di modificare la circolare 20.3.2019 e il proprio sito istituzionale specificando che il Rdc venga riconosciuto anche in assenza del requisito di 10 anni di residenza formale in Italia se sussistente quello della presenza sostanziale, fermo ogni altro requisito;

c) condannare l’INPS, in persona del legale rappresentante pro tempore a pagare alla ricorrente l’importo spettante a titolo di RDC nella medesima misura riconosciuta sino al momento della revoca, per la parte successiva alla revoca stessa e sino al completamento del periodo di 18 mesi, ferma la verifica di tutti i requisiti previsti dal DL 4/19 diversi dalla residenza legale;

d) ordinare all’INPS di ammettere la ricorrente al Rdc anche per le eventuali domande successive a quelle già ad oggi depositate, ferma la verifica di tutti i requisiti previsti dal DL 4/19 salvo quello della residenza legale;

IN SUBORDINE, IN IPOTESI DI RITENUTA INAMMISSIBILITÀ DELLA CONDANNA SUB C)

e) Condannare l’INPS a pagare alla ricorrente la medesima somma di cui al par. c) a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da discriminazione;

IN ULTERIORE SUBORDINE

f) Ordinare l’INPS ad ammettere la ricorrente alla procedura per l’attribuzione del Rdc disponendo il pagamento della somma prevista dal DL 4/19 e attivando tutti gli ulteriori adempimenti previsti dal DL stesso”.

L’Inps, costituitosi in giudizio, ha eccepito il difetto di giurisdizione rispetto alla richiesta di modifica della circolare n. 43/2019, ha evidenziato che, ai sensi della comunicazione del 21.12.21 del Ministero del Lavoro, il Comune, nel caso di specie Roma Capitale, è l’unico soggetto deputato a verificare la stabile residenza in Italia del cittadino europeo che abbia richiesto il reddito di cittadinanza e che intenda dimostrare l’effettività di tale residenza anche in disaccordo con le risultanze anagrafiche; che parte ricorrente non ha avanzato tale richiesta nei confronti di Roma Capitale; che l’Inps non ha posto in essere alcuna discriminazione, avendo applicato la legge, basandosi sugli accertamenti compiuti da Roma Capitale, nei cui confronti andrebbe rivolta la domanda risarcitoria in caso di reputata erroneità degli accertamenti compiuti dagli uffici dell’anagrafe di Roma Capitale.

Il Tribunale osserva quanto segue.

L’eccezione relativa al difetto di giurisdizione sollevata dall’Inps è infondata e va rigettata.

Parte ricorrente, infatti, non ha chiesto l’annullamento di un atto amministrativo, ma ha chiesto – quale misura, dalla medesima giudicata, idonea a rimuovere gli effetti della denunciata discriminazione, ai sensi dell’art 28 comma 5 del d.lgs. 150/2011- di modificare la circolare Inps 20.3.19, precisando che il requisito di 10 anni di residenza in Italia, per fruire del reddito di cittadinanza, possa essere inteso come residenza effettiva.

Anche l’eccezione di difetto di legittimazione passiva dell’INPS è infondata.

L’art. 5, commi 3 e 4, d.l. n. 4/2019, così dispone: “3. Il Rdc e’ riconosciuto dall’INPS ove ricorrano le condizioni. Ai fini del riconoscimento del beneficio, l’INPS verifica, entro cinque giorni lavorativi dalla data di comunicazione di cui al comma 1, il possesso dei requisiti per l’accesso al Rdc sulla base delle informazioni pertinenti disponibili nei propri archivi e in quelli delle amministrazioni titolari dei dati. A tal fine l’INPS acquisisce, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e fermi restando i dati di cui al comma 2, dall’Anagrafe tributaria, dal Pubblico registro automobilistico e dalle altre amministrazioni pubbliche detentrici dei dati, le informazioni necessarie ai fini della concessione del Rdc. Con provvedimento dell’INPS, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, sono definite, ove non gia’ disciplinate, la tipologia dei dati, le modalita’ di acquisizione e le misure a tutela degli interessati. In ogni caso, la valutazione e l’eventuale riconoscimento da parte dell’INPS avvengono entro la fine del mese successivo alla trasmissione della domanda all’Istituto. 4. Nelle more del completamento dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, resta in capo ai comuni la verifica dei requisiti di residenza e di soggiorno, di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), secondo modalita’ definite mediante accordo sancito in sede di Conferenza Stato-citta’ ed autonomie locali. I comuni effettuano a campione, all’atto della presentazione dell’istanza, verifiche sostanziali e controlli anagrafici sulla composizione del nucleo familiare dichiarato nella domanda per l’accesso al Rdc e sull’effettivo possesso dei requisiti di cui al primo periodo nonché, successivamente all’erogazione del beneficio, sulla permanenza degli stessi. A tal fine l’INPS rende disponibili ai comuni le informazioni rilevanti per il tramite della piattaforma di cui all’articolo 6, comma 1. I criteri per la selezione del campione sono definiti in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali con la partecipazione dell’INPS, al quale è tempestivamente comunicato l’esito delle verifiche e dei controlli attraverso la piattaforma di cui all’articolo 6, comma 1, finalizzata al coordinamento dei comuni. L’Anagrafe nazionale di cui al primo periodo mette comunque a disposizione della medesima piattaforma le informazioni disponibili sui beneficiari del Rdc, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. 4-bis. I dati anagrafici, di residenza, di soggiorno e di cittadinanza, dichiarati in modo analitico nella domanda, sono preventivamente e tempestivamente verificati dall’INPS sulla base delle informazioni presenti nelle banche dati a disposizione dell’Istituto. 4-ter. L’INPS comunica tempestivamente ai comuni responsabili dei controlli ai sensi dell’articolo 7, comma 15, le posizioni che necessitano di ulteriori accertamenti sui requisiti anagrafici mediante la piattaforma di cui all’articolo 6, comma 1. 4-quater. L’esito delle verifiche e’ comunicato dai comuni all’INPS attraverso la piattaforma di cui all’articolo 6, comma 1, entro centoventi giorni dalla comunicazione di cui al comma 4-ter da parte dell’INPS. Durante il decorso di tale termine il pagamento delle somme è sospeso. Decorso tale termine, qualora l’esito delle verifiche non sia comunicato dai comuni all’INPS, il pagamento delle somme e’ comunque disposto. Il responsabile del procedimento del comune che deve fornire i dati risponde per il danno erariale causato dall’eventuale corresponsione delle somme non dovute”.

L’art. 7, comma 15, prevede che “15. I comuni sono responsabili, secondo modalità definite nell’accordo di cui all’articolo 5, comma 4, delle verifiche e dei controlli anagrafici, attraverso l’incrocio delle informazioni dichiarate ai fini ISEE con quelle disponibili presso gli uffici anagrafici e quelle raccolte dai servizi sociali e ogni altra informazione utile per individuare omissioni nelle dichiarazioni o dichiarazioni mendaci al fine del riconoscimento del Rdc”.

Da tale complesso normativo si evince che l’amministrazione comunale è sì deputata alle verifiche della sussistenza dei requisiti di residenza e di soggiorno richiesti per l’erogazione del reddito di cittadinanza e sulla loro permanenza, anche con verifiche a campione (art 7 comma 4), ma per conto dell’Inps, che è il soggetto competente ad adottare i provvedimenti di concessione (7 comma 3) e di sospensione del beneficio in questione (7 comma 4-quater), tanto che a quest’ultimo compete la verifica preventiva e tempestiva dei “dati anagrafici, di residenza, di soggiorno e di cittadinanza, dichiarati in modo analitico nella domanda”, con facoltà di comunicare tempestivamente ai comuni responsabili dei controlli le posizioni che necessitano di ulteriori accertamenti sui requisiti anagrafici (art 7 comma 4-ter).

Pertanto, nei confronti del soggetto richiedente il reddito di cittadinanza unico soggetto legittimato passivo è l’Inps.

Nel merito, il ricorso può trovare accoglimento, in quanto, ad avviso del Tribunale, vi sono riscontri oggettivi sufficientemente attendibili della presenza in Italia della ricorrente nel territorio italiano per almeno un decennio, prima della presentazione della domanda del 7.4.20, di cui gli ultimi due in maniera continuativa, essendo condivisibili le argomentazioni espresse dall’ufficio legislativo del Ministero del lavoro, nelle note del 19.2.20 e del 14.4.20, richiamate in ricorso, poi ribadite dalla nota del 21.12.21, richiamata dalla difesa dell’Inps, secondo cui il requisito della residenza in questione va inteso in senso sostanziale, consentendo agli interessati di fornire riscontri obiettivi e univoci che dimostrino l’effettività di tale residenza anche se non risultante dai registri anagrafici, in linea con i principi comunitari che vietano qualsiasi forma di discriminazione, anche indiretta, fondata sulla nazionalità (art 45 TFUE, art 14 CEDU, art 21 CDFUE).

Passando all’esame della documentazione in atti, l’Agenzia delle Entrate ha certificato che dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria risulta che la ricorrente ha avuto i seguenti domicili fiscali: dal 29.9.08 a Roma in via (omissis); dal 26.01.2009 a Palermo, in via (omissis); dal 18.02.2019 a Fiumicino in (omissis); dall’11.03.2020 in Roma in via (omissis) (all. 2).

La ricorrente ha poi documentato tra dicembre 2010 e dicembre 2012 di aver effettuato tre esami medici: un esame radiologico presso la ASL Roma B del 10.12.2010; un esame ecografico presso l’Ospedale G.B. Grassi di Ostia il 14.06.2011; un esame ecografico presso il Centro diagnostica lido di Ostia del 12.01.2012 (all. 3).

Dall’estratto conto previdenziale del 5.10.2021 risulta che la ricorrente è stata regolarmente impiegata nei seguenti periodi: circa 15 mesi dal 10.3.12 al 23.6.13; circa 3 mesi dal 16.5.14 al 31.8.14; circa un anno dal 1.4.16 al 7.3.17; un mese dal 1.2.18 al 28.2.18; circa 15 giorni tra il 26.2.20 e il 10.3.20; circa sei mesi dal 17.1.21 al 30.6.21 (all. 4).

La ricorrente ha ottenuto l’iscrizione anagrafica presso il Comune di Roma in via (omissis), in data 22.03.2013, in concomitanza con il primo periodo lavorativo risultante dall’estratto contributivo, e il rilascio della carta d’identità in data 24.05.2013 (all-ti 5, 6).

Secondo le allegazioni contenute in ricorso, la residenza in questione è stata poi cancellata nel 2015 a seguito del cambio di abitazione all’interno dello stesso territorio comunale effettuato dalla ricorrente senza alcuna comunicazione.

Tra il 2015 e il 2017 la ricorrente ha effettuato i seguenti esami medici: esame radiografico presso il “Centro diagnostica lido” di Ostia del 12.01.2015; esami ematici presso un laboratorio di Ostia del 04.03.2015; esame TAC presso IDI di Roma del 20.09.2016; esame radiografico presso uno studio medico di Roma del 21.10.2017 (all. 7), mentre non risulta documentato l’allegato ricovero in pronto soccorso dell’ospedale G.B. Grassi di Ostia del 6/7 marzo 2015.

In data 3.10.18 ha presentato domanda di iscrizione al centro per l’impiego di Ostia, indicando come residenza via (omissis) (all. 8).

In data 7.1.19 (omissis), residente nel Comune di Fiumicino in via (omissis), ha comunicato all’Inps l’assunzione della ricorrente come collaboratrice domestica per 20 ore settimanali, sino al 19.8.19, data di cessazione del rapporto (all. 11).

In data 7.2.19 dalla pec di (omissis), datore di lavoro della ricorrente, risulta inviata una email al Comune di Fiumicino, relativa alla richiesta del cambio di residenza della lavoratrice presso l’indirizzo del datore di lavoro medesimo, richiesta rimasta priva di riscontro (all. 9).

In data 1.5.19 la ricorrente ha dato alla luce il piccolo (omissis) (all. 10).

Dalla scheda vaccinale si evince che il bambino è stato sottoposto alle vaccinazioni, dopo la nascita, in data 31.10.19 e anche successivamente alla presentazione della domanda di reddito di cittadinanza del 7.4.20 (all. 11).

La ricorrente ha ottenuto l’11.03.2020 una nuova iscrizione anagrafica in via (omissis) nel Comune di Roma e il rilascio il 19.03.2020 di un’attestazione di regolare soggiorno in Italia quale cittadina comunitaria (all.ti nn. 12-13).

La ricorrente, ascoltata all’udienza del 6.4.22, ha dichiarato: “nei due anni che hanno preceduto la presentazione della domanda del 7.4.20, ho abitato nel IV municipio di Roma in via (omissis) a partire da maggio 2019, quando ho partorito, mentre in precedenza ho abitato in affitto a Ostia in via (omissis) sino al 2018, non ricordo sino a quale mese. Volevo cambiare la residenza da Ostia a Roma in via (omissis) ma il cambio di residenza non è andato a buon fine e vista la gravidanza mi sono trasferita presso i genitori del mio ex compagno in via (omissis)”.

Sulla scorta di tali risultanze documentali può ritenersi provato che la ricorrente sia stata presente sul territorio italiano sin dal 29.9.08, quando, secondo le risultanze dell’anagrafe tributaria, ha ricevuto il codice fiscale, avendo eletto il proprio domicilio fiscale in Roma e dopo qualche mese (a gennaio 2009) a Palermo. Gli esami medici compiuti tra il 2010 e il 2012 e tra il 2015 e il 2017 dimostrano la sua presenza in quegli anni nel Comune di Roma, così come i periodi lavorativi risultanti dall’estratto contributivo (dal 10.3.12 al 23.6.13; dal 16.5.14 al 31.8.14; dal 1.4.16 al 7.3.17; dal 1.2.18 al 28.2.18; dal 26.2.20 al 10.3.20; dal 17.1.21 al 30.6.21), il primo dei quali coincidente con la prima iscrizione all’anagrafe del Comune di Roma, anche se successivamente non confermata. Nei due anni che hanno preceduto la domanda del 7.4.20, in particolare, risulta che la ricorrente, cessato il rapporto di lavoro svolto nel mese di febbraio 2018, si è iscritta, in data 3.10.18, al centro per l’impiego di Ostia, indicando come residenza via (omissis), è stata poi assunta come collaboratrice domestica dal 6.2.19 al 19.8.19, ha partorito in data 1.5.19, ha eseguito le vaccinazioni del bambino in data 31.10.19, ha lavorato dal 26.2.10 al 10.3.20 ed ha ottenuto una nuova iscrizione anagrafica nel Comune di Roma in via (omissis) in data 11.3.20.

I riscontri documentali, in tal modo riepilogati, depongono per la effettiva presenza sul territorio italiano della ricorrente per un decennio a ritroso rispetto alla domanda del 7.4.20 e in maniera continuativa negli ultimi due anni.

Conseguentemente, va ordinato all’Inps di riammettere la ricorrente al beneficio del reddito di cittadinanza in godimento al momento della revoca, fatta salva la verifica dei requisiti diversi dalla residenza.

Non si ritiene invece opportuno ordinare all’Inps la modifica della Circolare del 20.3.19, dal momento che dalle stesse allegazioni della difesa dell’ente convenuto si evince che il contenuto di tale circolare è stato superato dalle note dell’ufficio legislativo del Ministero del Lavoro sopra citate.

Le spese di lite seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Ordina all’Inps di riammettere la ricorrente al beneficio del reddito di cittadinanza in godimento al momento della revoca, fatta salva la verifica dei requisiti diversi dalla residenza;

condanna l’Inps al pagamento, in favore dell’avv. (omissis), dichiaratasi antistataria, delle spese di lite, liquidate in € 1.800,00, oltre accessori come per legge.

Roma, 27/09/2022

Allegati

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