Massima

In materia di trascrizione in Italia di atti di nascita formati all’estero per minori nati tramite maternità surrogata, il riconoscimento della maternità secondo la legge straniera in capo a un cittadino italiano consente al minore di acquisire la cittadinanza italiana ius sanguinis. Tale acquisizione rafforza il principio del superiore interesse del minore e il suo diritto all’identità, rendendo la piena trascrizione dell’atto di nascita compatibile con l’ordine pubblico internazionale.

Supporto alla lettura

CITTADINANZA

Il termine “cittadinanza” indica il rapporto tra un individuo e lo Stato, ed è in particolare uno status, denominato civitatis, al quale l’ordinamento giuridico ricollega la pienezza dei diritti civili e politici.  In Italia il moderno concetto di cittadinanza nasce al momento della costituzione dello Stato unitario ed è attualmente disciplinata dalla L. 91/1992.

La cittadinanza italiana si acquista iure sanguinis, cioè se si nasce o si è adottati da cittadini italiani.  Esiste una possibilità residuale di acquisto iure soli, se si nasce sul territorio italiano da genitori apolidi o se i genitori sono ignoti o non possono trasmettere la propria cittadinanza al figlio secondo la legge dello Stato di provenienza. Si può diventare cittadini italiani anche per matrimonio (iure matrimonii), la quale è riconosciuta dal prefetto della provincia di residenza del richiedente.

La cittadinanza può essere richiesta anche dagli stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti. In particolare il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica.

La legge prevede alcuni casi in cui può venir meno lo status di cittadino italiano, si può riacquistare su domanda, e il D.L. 113/2018, convertito con L. 132/2018 ha introdotto all’art. 10 bis della L. 91/1992 l’istituto della revoca della cittadinanza nei casi espressamente previsti dall’art. 10 bis della citata L. 91/1992.

Diverso è parlare di “cittadinanza europea” che non è uno status che si acquisisce, infatti ogni cittadino di un Paese membro della Ue, oltre alla cittadinanza del paese di origine, gode della cittadinanza europea. Secondo la testuale dizione del trattato di Maastricht (TUE), è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro.

La cittadinanza dell’Unione europea comporta una serie di norme e diritti ben definiti, che si possono raggruppare in quattro categorie:

  • la libertà di circolazione e di soggiorno su tutto il territorio dell’Unione;
  • il diritto di votare e di essere eletto alle elezioni comunali e a quelle del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza;
  • la tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro in un paese terzo nel quale lo Stato di cui la persona in causa ha la cittadinanza non è rappresentato;
  • il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e ricorsi al mediatore europeo.

 

Il D. Lgs. 36/2025, conv. L. 74/2025, ha modificato la legge sulla cittadinanza italiana, soprattutto in merito allo ius sanguinis. Il fine è quello di limitare la trasmissione automatica della cittadinanza per discendenza, introducendo requisiti più stringenti e valutando il “vincolo effettivo e attuale con la comunità nazionale”. Le nuove disposizioni non si applicano a chi ha presentato domanda di riconoscimento della cittadinanza entro il 27 marzo 2025 (data di entrata in vigore del decreto); è prevista invece una finestra temporale, dal 1 luglio 2025 al 31 dicembre 2027, per il riacquisto della cittadinanza italiana da parte di cittadini che siano nati in Italia o che abbiano risieduto in Italia per almeno 2 anni, o che abbiano perso la cittadinanza prima del 16 agosto 1992.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTO E DIRITTO
Il P.M. presso il Tribunale di Pisa chiedeva la correzione mediante procedimento di rettificazione di cui agli artt. 95-96 D.P.R. 396/2000 dei dati anagrafici di (omissis), nel senso che “fosse annullato l’atto di nascita del Comune di Pisa n. 210 PII S B/1 relativo al predetto minore, con il quale era stata trascritta la dichiarazione di paternità e maternità effettuata da parte di (omissis) e da (omissis) presso l’autorità ucraina”.

A sostegno della richiesta, la Procura deduceva che il minore risultava essere nato in Ucraina il 21.08.2014, mentre la presunta madre era entrata in Ucraina solo il 22 agosto 2014, il giorno dopo la nascita del bambino; che i genitori avevano depositato presso l’Ambasciata di Kiev memoria nella quale rappresentavano la loro situazione spiegando di essere ricorsi alla maternità in sostituzione, dichiarazione trasmessa dall’Ambasciata di Kiev in Italia, dove l’atto è stato poi trascritto.

A conforto della tesi della intrascrivibilità del certificato di nascita, il Pubblico Ministero citava la pronuncia della S.C. sezione civile n. 24001/2014, che ha ritenuto contraria all’ordine pubblico la trascrizione di certificato di nascita di bambino nato con maternità surrogata, poiché questa pratica è espressamente vietata dalla legge n. 40 del 2004, la quale prevede una sanzione penale per la violazione del disposto, divieto non travolto dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 co. 3 della legge n. 40/04.

Si costituivano i genitori del minore, opponendosi alla correzione, in quanto l’atto era stato correttamente formato in Ucraina secondo la normativa vigente in quel Paese e dunque nel rispetto dell’art. 15 comma 2 DPR 396/2000, secondo il quale le dichiarazioni di nascita e di morte rese all’estero da cittadini italiani sono disciplinate dalla lex loci.

A sostegno della trascrivibilità dell’atto, la difesa dei resistenti citava sia la giurisprudenza della S.C. che ha escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 567 c.p. sia la giurisprudenza di merito che – escludendo ogni efficienza deterministica dello status di figlio – ritiene che non sussista alcuna violazione dell’ordine pubblico interno, atteso che, se il divieto riguarda la maternità surrogata, detto divieto non attiene al momento genetico della formazione dell’atto di nascita, l’unico in cui il delitto di alterazione di stato può essere in tesi consumato, bensì al successivo momento del recepimento nell’ordinamento italiano dell’atto formatosi all’estero e cioè al momento della trascrizione dell’atto, quando lo stesso sia contrario all’ordine pubblico.

Facendo leva sul concetto di ordine pubblico internazionale, i resistenti ritengono assolutamente valida la trascrizione dell’atto di nascita del minore, dovendosi privilegiare come stabilito dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), gli interessi preminenti del minore ad un armonico sviluppo psico-fisico ed ad una vita affettiva nella famiglia.

Il Tribunale disponeva consulenza genetica al fine di accertare la paternità del minore e dunque la compatibilità biologica tra il minore e (omissis).

Le risultanze della ctu – che sono condivise da questo Tribunale – hanno dimostrato la compatibilità biologica tra il minore ed il padre, tant’è che all’udienza del 7.06.2016, il P.M. modificava l’originaria domanda proposta e chiedeva la rettifica dell’atto di nascita solo con riferimento al nome della madre del minore, in quanto madre non biologica.

In via preliminare, osserva questo Tribunale che la pronuncia del Supremo Consesso citata dal P.M. a conforto della tesi della intrascrivibilità dell’atto di nascita e della conseguente correzione dell’atto con riferimento al nome della madre sociale, riguarda una fattispecie del tutto diversa da quella in esame, riferendosi all’ipotesi di maternità surrogata eterologa in cui la madre gestante ha accolto un embrione formato con gameti estranei alla coppia committente, violando in tal modo la stessa normativa del paese in cui è consentita la maternità surrogata allorquando il padre committente è anche padre biologico del minore.

La S.C. (n. 24001 del 2014) sembra concludere che il margine di discrezionalità attribuito allo Stato italiano al fine di negare la riconoscibilità degli atti di nascita derivanti da maternità surrogata potrebbe trovare fondamento nell’interesse collettivo alla certezza dei vincoli familiari, nonché nello stesso principio del superiore interesse del minore, relativamente alla deliberata costituzione di una vita familiare da parte di soggetti di età avanzata ovvero tale da non garantire la pienezza di esercizio dei doveri genitoriali, offrendo innanzitutto una interpretazione della nozione di ordine pubblico rilevante ai sensi dell’art. 16 della l. 218/1995 (e più in generale agli effetti internazional privatistici), esprimendosi in questi termini: “E’ certamente esatto che l’ordine pubblico non si identifica con le semplici norme imperative, bensì con i principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento giuridico; è invece inesatto che tali principi si identifichino, come sostengono i ricorrenti, con “i valori condivisi della comunità internazionale che il prudente apprezzamento del Giudice non può trascurare, armonizzandoli con il sistema interno”. L’ordine pubblico internazionale, infatti, è il limite che l’ordinamento nazionale pone all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna; dunque non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili. È peraltro evidente che, nella individuazione di tali principi, l’ordinamento nazionale va considerato nella sua completezza, ossia includendovi principi, regole ed obblighi di origine internazionale o sovranazionale”.

In altre parole, il giudice di legittimità sembra respingere sia l’interpretazione “dualistica” della nozione di ordine pubblico (fatta propria dalla più recente giurisprudenza di merito: ad esempio, da Corte App. Bari del 2009, da Trib. Napoli del 1/07/2011 e da Trib. Milano n. 3301 del 2015), tesa a contrapporre l’ordine pubblico interno (inteso come l’insieme delle norme imperative di diritto interno) all’ordine pubblico internazionale (restrittivamente identificato con il complesso dei valori condivisi dalla comunità internazionale), sia la concezione unitaria di ordine pubblico come ordine pubblico internazionale, ribadendo sì il carattere unitario della nozione di ordine pubblico (internazionale), ma offrendo una valenza puramente “descrittiva” e “relazionale” dell’attributo “internazionale” riferito allo stesso (in questo senso, può parlarsi di ordine pubblico internazionale quando la nozione, in sé unitaria, di ordine pubblico venga in rilievo in relazione a rapporti giuridici che presentino “elementi di estraneità” rispetto all’ordinamento interno).

Infine, il giudice della nomofilachia sembra non attribuire neppure la corretta rilevanza all’affermazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Quinta Sezione, contenuta nelle sentenze gemelle emesse il 26 giugno 2014 nei confronti della Francia sui ricorsi n. 65192/11 Mennesson c. Francia e n. 65941/11 Labassee c. Francia, secondo cui esiste il diritto del nato mediante surrogazione di maternità ad essere riconosciuto come figlio legittimo della coppia committente, ritenendo che la Corte Europea abbia altresì riconosciuto un ampio margine di apprezzamento discrezionale ai singoli Stati sul tema della maternità surrogata, in considerazione dei delicati interrogativi di ordine etico posti da tale pratica, disciplinata in maniera diversa nell’ambito dei paesi membri del Consiglio d’Europa ed ha ravvisato il superamento di detto margine nel difetto di riconoscimento giuridico del solo rapporto di filiazione tra il nato e il padre committente allorché quest’ultimo sia anche padre biologico (difetto di riconoscimento che, rileva la Corte, viola il diritto al rispetto della vita privata del figlio, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, comprendente il diritto all’identità personale sotto il profilo del legame di filiazione). Sennochè, la questione che i ricorrenti hanno sottoposto alla Corte nel caso in esame è la compatibilità con i diritti garantiti dalla Convenzione della decisione dello Stato di privare i bambini nati da una maternità surrogata regolarmente praticata all’estero, nel Paese in cui gli stessi risiedono, dei documenti di stato civile che attestino il loro status di figli della coppia che ha fatto ricorso alla procreazione assistita, in particolare per quanto riguarda il loro rapporto con il padre biologico.

Rispetto al caso deciso dalla Corte di Strasburgo, tuttavia, quello che ha interessato la Corte di Cassazione (sentenza n. 24001 del 2014) si differenzia, come già evidenziato, per un aspetto di non secondaria importanza: mentre, infatti, i coniugi Me. e La. avevano ottenuto il riconoscimento del rapporto di parentela in virtù di provvedimenti giurisdizionali emanati dalle autorità del Paese in cui si erano recati per sottoporsi a surrogazione di maternità, i coniugi italiani, nel caso all’esame della Suprema Corte citato dal P.M., al contrario, risultano aver agito in spregio persino della legge ucraina, essendo quindi dubbio che il rapporto di parentela si sia validamente instaurato ab origine alla stregua dello stesso ordinamento straniero, con la conseguenza che, viceversa, nell’ipotesi di maternità surrogata realizzata secondo le norme della legge straniera, gli atti di nascita sembrerebbero suscettibili di trascrizione (conseguenza che si desumerebbe a contrario dalla medesima pronuncia della Cassazione citata dalla Procura).

Una tale lettura consente, pertanto, di ridimensionare la portata negativa della sentenza del Supremo Consesso posta a fondamento della richiesta di rettifica della Procura.

Tanto premesso, prima di approfondire, in particolare, la giurisprudenza di legittimità e quella di merito sull’argomento, è opportuno ricostruire la normativa straniera ed italiana che regola la materia.

Secondo la legge ucraina, all’art. 123 cod. famiglia, nei casi di maternità surrogata quando almeno uno dei coniugi abbia donato le sue cellule, nel certificato di nascita vien riportato solo il nominativo della “madre sociale”. Nella presente fattispecie, la determinazione del rapporto di filiazione tra la madre sociale e il minore è regolato dal diritto internazionale privato italiano.

L’individuazione della cittadinanza italiana, è regolato dal diritto internazionale privato italiano- L. 218/1995 – che ha la finalità di stabilire la norma applicabile in presenza di elementi di estraneità.

La legge 218/1995 ha utilizzato, con ampiezza, il criterio del “rinvio” ad altre leggi nazionali che assumono, per tale via, efficacia direttamente vincolante per il Giudice nazionale con il solo limite del non contrarietà all’ordine pubblico (art. 16 L. cit.).

L’art. 33 L.218/1995 dispone: “lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino al momento della nascita.

La legge nazionale del figlio al momento della nascita regola gli effetti dell’accertamento e della contestazione dello stato di figlio … Lo stato di figlio legittimo, acquisito in base alla legge nazionale di uno dei due genitori, non può essere contestato che alla stregua di tale legge”.

L’articolo 13 della stessa legge conferma il favore nei confronti della filiazione disponendo che, quando è richiamata la legge straniera, si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero, alla legge di un altro Stato (in presenza di alcune condizioni) e comunque, nei casi di cui agli articoli 33, 34 e 35, si tiene conto del rinvio soltanto se esso conduce all’applicazione di una legge che consente lo stabilimento della filiazione.

Dall’art 33 cit. discende, con evidenza, che la norma di diritto internazionale privato attribuisce ai provvedimenti accertativi (certificato di nascita) dello Stato estero, ogni determinazione in ordine al rapporto di filiazione con conseguente inibizione al giudice italiano di sovrapporre accertamenti sulla validità di un titolo valido per la legge nazionale di rinvio (cfr. Cass. 367/2003; Cass. 14545/2003), salva la contrarietà all’ordine pubblico.

L’art. 35, in tema di riconoscimento detta tuttavia un’apposita disciplina per una particolare modalità, nota praticamente a tutti gli ordinamenti giuridici, nella quale una manifestazione unilaterale di volontà del genitore costituisce da sé sola il momento genetico della relazione tra genitore e figlio. Il principio della nazionalità sancito da tale disposizione è reso tuttavia coerente con i valori costituzionali , ponendo la centralità dell’interesse del figlio a vedersi riconosciuto tale status.

In tal senso, si nota come al principio della prevalenza dell’interesse del figlio si ispiri palesemente la norma che consente di derogare al criterio della legge nazionale del figlio quando, applicando la legge nazionale di uno dei genitori, possa comunque derivare un vantaggio al figlio sotto il profilo del favor filiationis.

Ancora ai sensi dell’art. 65 della l. n. 218/1995, si stabilisce l’effetto automatico in Italia dei provvedimenti relativi all’accertamento della filiazione emanati nello Stato la cui legge è richiamata dagli artt. 33-35, o ivi produttivi di effetti ancorché pronunciati in altro Stato. Tali provvedimenti (e le situazioni giuridiche cui danno luogo) saranno però suscettibili di produrre effetti soltanto qualora nel procedimento svoltosi all’estero siano stati garantiti alle parti i diritti essenziali di difesa, e non vi sia contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento (c.d. limite dell’ordine pubblico). Nessuna rilevanza è invece attribuita alla circostanza che in concreto sia stata applicata questa o quella legge materiale: sono, in altri termini, di per sé produttivi di effetti in Italia i provvedimenti adottati – a seconda del tipo di filiazione – nello Stato di appartenenza del figlio o del genitore, indipendentemente dalla legge sulla base della quale sono stati emanati. Come è noto, principio generale sancito dalla legge di riforma del sistema italiano di diritto privato n. 218 del 1995 per l’efficacia di sentenze e provvedimenti stranieri in Italia – come già detto – è quello del loro automatico riconoscimento:

tanto sia attraverso la disciplina di ordine generale, valida per tutti i tipi di controversie prevista dall’art. 64 della ridetta legge, sia attraverso quella più agile prevista dall’art. 65 della stessa legge – allargata alla categoria dei “provvedimenti” e riservata all’esclusivo ambito delle materie della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia e dei diritti della personalità – la quale richiede soltanto il concorso dei presupposti della “non contrarietà all’ordine pubblico” e dell’avvenuto “rispetto dei diritti essenziali della difesa”, esigendo, tuttavia, il requisito che i provvedimenti in questione siano stati assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto (così molto efficacemente: Cass. 28.5.2004 n. 10378).

La fattispecie in esame trova la propria naturale disciplina nello schema ispirato al favor per il riconoscimento dei provvedimenti relativi allo status delle persone di cui all’art. 65 della L. 218/1995, che configura una deroga ratione materiae rispetto alla disciplina più generale dell’art. 64 della stessa legge (cfr. Cass. 28.5.2004 n. 10378; Corte App. Torino 29.10.2014).

Ciò precisato, in ordine alla sussistenza dei requisiti di riconoscibilità di cui al citato art. 65 L. 218/1995 ed in generale al quadro normativo italiano, si osserva che il minore è nato in Ucraina secondo la lex loci e la dichiarazione di nascita conforme alla legge nazionale dell’Ucraina è stata effettuata all’Ambasciata che – come per legge – lo ha trasmesso all’Ufficiale di stato civile italiano. Tanto il contratto, quanto l’articolazione successiva del rapporto, sono pienamente conformi alla legge ucraina, in forza del combinato disposto degli artt. 123 e 139 del codice della famiglia, 11 del decreto del Ministero della Giustizia n. 52/5 del 18.10.2000, 5 e 7 del decreto del Ministero della Salute n. 771 del 23.12.2008. La madre surrogata, cui gli embrioni sono stati impiantati – anch’ella volontaria, maggiorenne, con piena capacità giuridica, sottoscrittrice di un consenso informato scritto – veniva scelta da un elenco di donne che avevano avuto almeno una gravidanza propria e non presentavano controindicazioni; inoltre, la stessa attestava in forma notarile l’inesistenza di qualsiasi relazione genetica con il neonato e prestava il consenso all’indicazione dei coniugi (omissis) e (omissis) quali genitori del minore.

In ottemperanza alla legge ucraina, l’ufficiale di stato civile di Kìev, dunque, formava l’atto di nascita, indicando in (omissis) la madre e in (omissis) il padre del neonato. E non avrebbe potuto provvedere diversamente: l’art. 139, comma 2, del codice della famiglia esclude che la maternità così determinata sia soggetta a contestazione; né, alla luce dell’art. 5, comma 2, del decreto n. 771/2008, la donatrice di gameti avrebbe potuto assumere alcuna responsabilità genitoriale.

L’atto di nascita originale veniva quindi tradotto in lingua italiana ed apostillato – ovvero munito di un’annotazione che ne attesta sul piano internazionale l’autenticità e la qualità legale dell’autorità rilasciante – come contemplato dalla Convenzione dell’Aja del 5/10/61, che sopprime la legalizzazione degli atti pubblici esteri cui hanno aderito anche Italia (con la legge di ratifica n. 1253/1966) e Ucraina: il documento che indicava nei predetti i genitori del neonato risultava così completo, valido, perfezionato, di autenticità certificata sul piano internazionale e suscettibile di divenire efficace anche nell’ordinamento italiano.

Col riconoscimento della maternità, secondo il diritto ucraino, in capo ad (omissis), cittadina italiana, il minore assume la cittadinanza italiana ius sanguinis. Il rinvio operato alla lex loci dall’ordinamento interno funge da perno del sistema e delinea la disciplina degli atti dello Stato civile formati all’estero in maniera conforme alla scelta – condivisa a livello internazionale – di individuare la legge regolatrice in quella del luogo in cui l’evento rilevante è avvenuto. È dunque la stessa legge italiana ad imporre ai cittadini italiani all’estero di effettuare le dichiarazioni di nascita all’ufficiale di stato civile straniero e secondo la legge del luogo ove l’evento è avvenuto.

Ne consegue che la richiesta di trascrizione formulata dalla resistente, in qualità di esercente la potestà sul minore, integra gli estremi di cui all’art. 17 DRP 396/2000, il quale prevede che “l’autorità diplomatica o consolare trasmette, ai fini della trascrizione e dei provvedimenti relativi al cittadino italiano formati all’estero, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui l’interessato ha o dichiara che intende stabilire la propria residenza,…. ovvero se egli è nato e residente all’estero, a quello del Comune di nascita o di residenza della madre o del padre di lui, ovvero dell’avo materno paterno …”.

Del resto, detta legittimità trova conferma nella recentissima pronuncia n. 2016/13525 con la quale la S.C., sezione penale, ha affermato che, nel caso di specie, la coppia aveva agito conformemente all’articolo 15 DPR 396/2000, in base al quale le dichiarazioni di nascita relative ai cittadini italiani all’estero devono essere rese all’autorità consolare e devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità competenti locali se ciò è imposto dalla legge stessa, con l’invio della copia dell’atto a cura dell’autorità diplomatica e consolare italiana.

Alla stregua della normativa citata, risulta dunque valida la trascrizione dell’atto di nascita formato secondo la legge ucraina.

Ciò posto, però, resta sempre il limite dell’ordine pubblico, di cui all’art. 16 della legge n. 218/1995, richiamato dagli artt. 64 e 65 della medesima legge (Cass. Civ., Sez. I, 10/10/2003, n. 14545).

Sennonchè, la non contrarietà all’ordine pubblico va verificata non già rapportandolo ai valori fondamentali dell’ordinamento che si intende tutelare, ma considerando l’effetto che le disposizioni che si intendono applicare produrrebbero in Italia. In altri termini “non ha rilevanza ai fini del riconoscimento la regola in base alla quale la sentenza straniera – o il provvedimento – è stata resa” ma il risultato concreto che a seguito del riconoscimento si produce nell’ordinamento che compie il relativo sindacato di ammissibilità.

Il best interests of the child rappresenta il principio informatore di tutta la normativa a tutela del fanciullo, garantendo che in tutte le decisioni che lo riguardano il giudice deve tenere in considerazione il superiore interesse del minore: ogni pronuncia giurisdizionale, pertanto, è finalizzata a promuovere il benessere psicofisico del bambino e a privilegiare l’assetto di interessi più favorevole a una sua crescita e maturazione equilibrata e sana. Corollario applicativo è che i diritti degli adulti cedono dinnanzi ai diritti del fanciullo, con l’ulteriore conseguenza che essi stessi trovano tutela solo nel caso in cui questa coincida con la protezione della prole.

Gli strumenti internazionali a tutela del bambino si informano, difatti, al principio del superiore interesse del minore, sancito in maniera formale in tutte le convenzioni e dichiarazioni dedicate al fanciullo: in via esemplificativa, si pensi alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, il cui art. 3, par. 1, che disciplina il rilievo del superiore interesse del minore nelle decisioni che lo riguardano.

Parimenti, l’art. 24, par. 2. della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dichiara: “in tutti gli atti relativi ai bambini (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente” e l’art. 8 CEDU prevede che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.” La nozione di “vita privata” elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo è una nozione ampia, non soggetta ad una definizione esaustiva che comprende l’integrità fisica e morale della persona e può, dunque, includere numerosi aspetti dell’identità di un individuo. La Corte Edu ha ritenuto che nella nozione di “vita familiare” possa rientrare anche la relazione stabile tra un individuo sottopostosi ad un intervento di mutamento di sesso, il partner di sesso biologicamente uguale (femminile) e il figlio di quest’ultima, concepito mediante inseminazione eterologa. Pertanto, anche la filiazione mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita è stata fatta rientrare nel concetto di “vita familiare” ( sentenza 22 aprile 1997, n. 21830 : X,Y e Z contro Regno Unito ). Invero, avuto riguardo alle sentenze della Corte Costituzionale, di cui si dirà in particolare di seguito, trattasi di fattispecie, in astratto, tutte riconducibili nell’alveo di applicazione dell’art. 8 CEDU. Infatti, sia il diritto fondamentale all’identità di genere e quello di vivere liberamente una condizione di coppia omosessuale (sentenza n. 170 del 2014) che quello della coppia di divenire genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli, quale espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, (sentenza n. 162 del 2014) concernono la “sfera privata e familiare” e, pertanto, sarebbero, a rigore, riconducibili anche nella nozione di “vita privata e familiare” di cui all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu.

Ad avviso di questo Tribunale, il requisito della “non contrarietà all’ordine pubblico” va interpretato, dunque, in relazione al principio del superiore interesse del minore di cui alla Carta di Nizza e all’art. 8 della CEDU, secondo l’interpretazione che ne offre la Corte di Strasburgo (cfr. sentenza della Grande Camera del 16 luglio 2014: Hamalainen contro Finlandia), ogni volta che sussista l’interazione tra la Convenzione dei diritti dell’uomo ( CEDU) con il diritto comunitario, interazione ravvisabile nella giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di responsabilità genitoriale e di tutela dei figli come soggetti autonomi (sotto il primo profilo: Sentenza della Corte di Giustizia 11 luglio 2008, causa C-195/08 PPU, Rinau Sentenza della Corte di giustizia 1 luglio 2010, causa C-211/10 PPU, Povse Sentenza della Corte di Giustizia 15 luglio 2010, causa C- 256/09, Purrucker ; sotto il secondo profilo: Sentenza della Corte di Giustizia 5 febbraio 2002, causa C-255/99, Humer Sentenza della Corte di giustizia 17 settembre 2002, causa C-413/99, Baumbast Sentenza della Corte di giustizia 19 ottobre 2004, causa C-200/02, Chen).

E difatti, pur trattandosi di diritti fondamentali, l’orientamento attualmente prevalente, derivante dalla giurisprudenza costituzionale, ha chiarito la differente portata delle norme tutelate a Strasburgo rispetto a quelle comunitarie, sostenendo che solo queste ultime debbono ritenersi (si veda anche Cassazione, Sezioni unite civili sentenza 11.11.2008 n. 26972) prevalenti, mentre le norme CEDU assumono soltanto una posizione rafforzata, rispetto alla legge ordinaria che le ha ratificate ed introdotte nell’ordinamento, dovendosi considerare norme interposte tra la Costituzione e la Legge ordinaria, secondo il riferimento effettuato dal novellato art. 117 Costituzione. Prima di arrivare a tale impostazione, sancita nelle sentenze C.Cost. n. 348 e 349 del 2007, il percorso è stato tutt’altro che semplice, giacché si è snodato attraverso una serie di pronunce dalle posizioni diametralmente opposte, passando della considerazione della CEDU quale mera “legge ordinaria”, alla necessaria prevalenza delle regole internazionali, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, su norme e situazioni di fatto, comportanti la lesione di Diritti dell’Uomo da parte della Repubblica Italiana. E così, si è assistito, in alcuni casi, addirittura a decisioni che hanno fatto applicazione diretta di norme della CEDU, giustificata dalla straordinaria necessità di disapplicare la norma nazionale onde garantire, in concreto un diritto minimo della persona.

La Corte Costituzionale (sentenza n. 137 del 2009) ha chiarito che l’integrazione del parametro costituzionale rappresentato dal primo comma dell’art. 117 Cost. non deve intendersi come una sovraordinazione gerarchica delle norme CEDU – in sè e per sè e quindi a prescindere dalla loro funzione di fonti interposte – rispetto alle leggi ordinarie e, tanto meno, rispetto alla Costituzione.

Con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si perviene facilmente alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie è frutto di una combinazione virtuosa tra l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU – nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea ai sensi dell’art. 32 della Convenzione – l’obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l’obbligo che infine incombe sulla Corte costituzionale – nell’ipotesi di impossibilità di una interpretazione adeguatrice – di non consentire che continui ad avere efficacia nell’ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale. Del resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali. L’accertamento dell’eventuale deficit di garanzia deve quindi essere svolto in comparazione con un livello superiore già esistente e giuridicamente disponibile in base alla continua e dinamica integrazione del parametro, costituito dal vincolo al rispetto degli obblighi internazionali, di cui al primo comma dell’art. 117 Cost. La conseguenza di questo ragionamento è che il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti.

Nel concetto di massima espansione delle tutele deve essere compreso, come già chiarito nelle sentenze della Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela.

Naturalmente, alla Corte Europea spetta di decidere sul singolo caso e sul singolo diritto fondamentale, mentre appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea. Il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.

Con l’entrata in vigore del “Trattato di Lisbona”, la Carta di Nizza ha acquisito il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati e protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea. Anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU (in francese: “Convention européenne des droits de l’Homme”) è una Convenzione internazionale redatta e adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa. La CEDU è considerata il testo centrale in materia di protezione dei diritti fondamentali dell’uomo perché è l’unico dotato di un meccanismo giurisdizionale permanente che consenta ad ogni individuo di richiedere la tutela dei diritti ivi garantiti, attraverso il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo.

Con il trattato di Lisbona, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) è stata “comunitarizzata”, mentre con il secondo e terzo paragrafo si consente che l’Unione europea possa aderire alla Cedu.

Secondo taluni autori e parte della giurisprudenza di legittimità, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che (sembra) resti, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale (si rammentano le recenti sentenze n. 230 del 2012 n. 230 e n. 210 del 2013).

La Corte di Cassazione – sentenza n. 950/2015 – ha ribadito “ammettere un potere o addirittura un obbligo di non applicare la legge (in contrasto col principio costituzionale che il giudice è soggetto unicamente alla legge di cui all’art. 101 Cost.), significherebbe aprire un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario, che appare estraneo al nostro sistema costituzionale, determinando il giudice eventuali limiti di applicazione della normativa nazionale per contrasto con pronunce della Corte di giustizia, esorbitando dai suoi poteri. L’abrogazione della legge è vincolata alle ipotesi contemplate dall’art. 15 preleggi, e art. 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur dovendo essere interpretata alla luce dei principi sovranazionali, con le puntualizzazioni sovra evidenziate”. Secondo la Consulta, in particolare, il Trattato di Lisbona non ha comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della Cedu nel sistema delle fonti, tale da rendere inattuale la concezione delle norme interposte. Sulla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la S. C., Sez. Un., 13 giugno 2012, n. 959563, ha precisato che tale testo, alla luce della clausola di equivalenza sancita dall’art. 52, par. 3, non ha determinato una trattatizzazione indiretta e piena della Cedu, la quale è predicabile solo per le ipotesi nelle quali la fattispecie sia disciplinata dal diritto europeo e non già da norme nazionali prive di alcun legame con il diritto dell’Unione (interazione tra convenzione e diritto dell’Unione già evidenziata in precedenza nella materia dei diritti dei figli e della famiglia).

Al contrario, si ergono anche voci dissonanti sulla intervenuta comunitarizzazione della CEDU in seguito alla stipula del Trattato di Lisbona, che ne determinerebbe la diretta applicazione nel singolo Stato con relativa e conseguente disapplicazione delle norme contrastanti con i principi CEDU.

Ma se per la Corte interna, la questione è risolta nel senso della non assimilazione dei valori della Carta al diritto comunitario e della non diretta applicabilità interna della Carta (la quale è comunque norma interposta), è pur vero che la Corte Europea conclude che, se in ipotesi, i diritti fondamentali della CEDU si intrecciano con il diritto dell’Unione, essa è competente a rispondere alle questioni sollevate e a fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari per la valutazione, da parte del giudice nazionale della conformità della normativa nazionale con i principi sanciti dalla carta (ed in detta ipotesi i principi fondamentali CEDU si intrecciano con la il Reg CE 2201/2003).

In altri termini, la CEDU è senz’altro estranea al diritto comunitario, ma fonte ispiratrice dello stesso e allo stesso tempo “limite” dell’azione comunitaria nella materie di competenza comunitaria (contrariamente a quanto sostenuto senza dubbi dalla S.C. con sentenza n.19405 del 2013).

A sostegno di tale conclusione, si rileva altresì che alla luce di importanti strumenti normativi sovranazionali ed europei (vengono richiamati al riguardo l’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia emessa a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176, e l’art. 23 Reg. CE n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003), nel valutare la conformità all’ordine pubblico degli atti e provvedimenti esteri relativi ai minori, un ruolo preminente va riconosciuto al “superiore interesse del minore” indicato nella Cedu (come interpretato dalla Corte Edu) e nella Carta di Nizza.

La circostanza che l’articolo 12, comma 6, della legge 40 del 2004, vieti la surrogazione di maternità, non pare assolutamente sufficiente a configurare come contrari all’ordine pubblico internazionale gli atti successivi al contratto di surrogazione di maternità, come la registrazione dell’atto di nascita.

L’ordine pubblico è quell’insieme di norme fondamentali dell’ordinamento giuridico riguardante i principi etici e politici – la cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile per l’esistenza di tale ordinamento – che sono posti dalla Costituzione, dal diritto comunitario e dalle leggi (anche in via di attuazione del diritto comunitario e di adattamento al diritto internazionale) a base dell’armonia del sistema giuridico interno (cfr. S. U. 1993 n. 7447). Tali principi giuridici possono essere posti da norme giuridiche inderogabili ovvero inferibili dal sistema. L’ordine pubblico inoltre viene preso in considerazione anche dal diritto internazionale, qualificandolo come ordine pubblico internazionale.

Proprio la variabilità del contenuto del concetto di “ordine pubblico” ha indotto parte della dottrina ad assimilarlo alla categoria dei principi – valvola, cioè a quei concetti presenti in ogni ordinamento la cui funzione consiste nell’approntare una categorizzazione dell’imprevisto, nel prestare al diritto una certa capacità all’adattamento, una certa flessibilità, motivo per cui sono considerati valvole di sicurezza degli ordinamenti: il carattere fondamentale dell’ordine pubblico è la sua caratteristica di modificarsi con l’evolversi della vita politica e sociale, adeguando l’ordinamento al trasformarsi della società.

Nella disciplina delle fattispecie privatistiche caratterizzate da elementi di estraneità, l’ordinamento italiano sperimenta due spinte opposte. Da un lato esso persegue la c.d. armonia (uniformità) internazionale delle soluzioni, coordinandosi con gli altri ordinamenti e aprendosi – grazie all’operare delle norme del diritto internazionale privato – verso i loro valori giuridici; dall’altro, non rinuncia alla tutela della propria armonia interna, munendosi di strumenti idonei a consentirgli di difendersi richiudendosi in se stesso. Il principale di questi strumenti è senz’altro la clausola (eccezione) di ordine pubblico, il cui fine è di impedire tanto l’applicazione di norme straniere quanto il riconoscimento di sentenze straniere, quando ne deriverebbero effetti non compatibili con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Per riprendere la definizione fornita dalla Corte di Cassazione, l’ordine pubblico è “formato da quell’insieme di principi, desumibili dalla Carta costituzionale o, comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l’intero assetto ordinamentale …, tali da caratterizzare l’atteggiamento dell’ordinamento stesso in un determinato momento storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia” (Cass., 28.12.2006, n. 27592).

Lo scopo, in altre parole, è di salvaguardare i principi etici, economici, politici e sociali operanti nei vari campi della convivenza sociale in Italia (ciò che, evidentemente, nulla ha a che vedere con il concetto di ordine pubblico attinente al mantenimento della sicurezza pubblica).

Deve, tuttavia, ritenersi ormai superata la distinzione tra le nozioni di ordine pubblico “interno” e ordine pubblico “internazionale”, distinzione che veniva in passato giustificata sulla base della considerazione che la inderogabilità di talune norme italiane risponde ad esigenze differenti e può dunque valere – a seconda dei casi – solo in relazione a fattispecie totalmente interne oppure in assoluto (ossia anche in relazione a fattispecie non totalmente interne). Gli artt. 16, 64 e 65 l. n. 218/1995 fanno riferimento all’ordine pubblico senza qualificarlo, ma è la loro collocazione sistematica a rendere manifesto che quello da esse considerato è il limite inerente al funzionamento delle norme di diritto internazionale privato (non a caso, l’art. 16 figura proprio tra le c.d. norme di funzionamento della legge del 1995). In questo senso si è espressamente pronunciata anche la Corte di Cassazione, secondo la quale “il concetto di ordine pubblico … non si identifica con il c.d. ordine pubblico interno, e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamento civile, bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico” (cfr. Cass., 6.12.2002 n. 17349).

Nel diritto interno, si è consolidata l’opinione per cui la nozione di ordine pubblico (anche in riferimento all’art. 31 delle preleggi) – in forza della quale la norma straniera che vi contrasti non può trovare ingresso nel nostro ordinamento in applicazione della pertinente disposizione di diritto internazionale privato – non è enucleabile esclusivamente sulla base dell’assetto ordina mentale interno, racchiudendo essa i principi fondamentali della Costituzione o quegli altri principi e regole che rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti del suo assetto ordinamentale (Cass., 26 novembre 2004, n. 22332; Cass., 19 luglio 2007, n. 16017).

In altri termini, come posto in rilievo dal Supremo Consesso – sentenza 26 aprile 2013 n. 10070 (che cita anche Cass., 6 dicembre 2002, 17349 e Cass., 23 febbraio 2006, n. 4040) – il concetto di ordine pubblico a fini internazionalprivatistici si identifica con quello indicato con l’espressione “ordine pubblico internazionale”, da intendersi “come complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo”.

Del resto, in un sistema plurale, di cui è partecipe il nostro ordinamento, non può ignorarsi la sinergia che proviene dall’interazione delle fonti sovranazionali con quelle nazionali. Si tratta di una combinazione, articolata e complessa, che si riflette sulla portata stessa dell’ordinamento interno, il quale cosi risulta diversamente modulato a seconda del modus operandi del rapporto che è instaurato tra esso e la fonte sovranazionale o internazionale interagente.

Ed è proprio in tale prospettiva che si viene a declinare la vocazione cd. internazionalista della nostra Carta Fondamentale, che, oggi, non si esaurisce più negli originari principi desumibili dagli artt. 10 e 11 Cost., ma trova ulteriore forza di radicamento nell’art. 117 Cost., comma 1, il quale imprime alla legislazione tutta il rispetto dei vincoli derivanti dai trattati internazionali e dalla partecipazione all’Unione (cfr. Cass. 11 novembre 2000, n. 14662; 26 novembre 2004, n. 22332; 7 dicembre 2005, n. 26976; 23 febbraio 2006, n. 4040; Cass. 2007 n. 16017; Cass. 2010 n. 12020).

In questa prospettiva il concetto di ordine pubblico è uno strumento di protezione dei diritti fondamentali dello Stato membro, ma anche un mezzo di tutela degli interessi comunitari. Nel suo divenire, il controllo comunitario sull’ordine pubblico diventa “terra di confine” fra ordinamenti; è lo strumento che consente di armonizzare valori e principi condivisi, terreno in cui la Corte di Giustizia Europea deve armonizzare gli interessi dell’Unione Europea con gli interessi degli stati membri. E la Corte Europea ha utilizzato detto concetto non tanto quanto limite all’espansione del diritto comunitario, bensì come mezzo di difesa dei diritti fondamentali, rinviando ai principi di libertà della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ed è in questo rinvio alla giurisprudenza Cedu che il concetto di ordine pubblico comunitario è stato identificato con quello di ordine pubblico europeo. Se dunque esiste un concetto di ordine pubblico comunitario, elaborato in contrapposizione col concetto di ordine pubblico interno, è solo in funzione di un ordine pubblico europeo omogeneo.

Sennonché, come innanzi chiarito, la Corte di Giustizia Europea tende a rimuovere i limiti degli ordinamenti internazionali privati, elaborando concetti che mirano al contrario ad armonizzare gli ordinamenti privati e a rimuovere gli ostacoli che essi frappongono ad un concetto di ordine pubblico internazionale. Questa tendenza si fonda sulla necessità di riconoscimento reciproco basato sulla fiducia reciproca degli stati membri e nella conseguente limitazione della possibilità di escludere il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni degli altri stati all’interno di uno spazio giuridico comune. Ed è proprio in funzione dell’attuazione del reciproco rispetto che l’eccezione dell’ordine pubblico (interno) è stato interpretato in modo restrittivo e residuale.

Dalla stessa giurisprudenza della Corte europea emerge la nozione di ordine pubblico di dimensione europea attraverso il confronto tra i concetti di ordine pubblico nazionale con i principi di diritto comunitario. La stessa Corte ha affermato la propria competenza a sindacare i limiti in cui lo stato membro può ricorrere al concetto di ordine pubblico (sentenza Krombach). Nella opponibilità del concetto di ordine pubblico da parte di uno stato membro devono essere valutati, secondo la Corte, anche i principi ed i valori degli altri Stati membri. Ancora, nella sentenza Eco Swiss la Corte ha affermato l’esistenza del principio dell’ordine pubblico comunitario per negare il riconoscimento di un lodo in contrasto con esso.

La Corte non ha ancora elaborato e definito un concetto di ordine pubblico europeo, ma ha comunque posto dei limiti al concetto di ordine pubblico nazionale, così formulando “il comune denominatore europeo” dei vari ordini pubblici nazionali; in questo modo, la Corte ha elaborato il concetto di ordine pubblico internazionale in considerazione dei diritti fondamentali dei singoli casi, nel senso che nel bilanciamento degli interessi coinvolti, il giudice deve valutare gli effetti che l’eccezione del principio di ordine pubblico produce sui diritti inviolabili dell’individuo (nel caso che qui occupa, del minore).

Ove, poi, vengano in rilievo fonti che sono votate alla protezione dei diritti fondamentali della persona umana (Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la L. n. 88 del 1955; Carta Europea dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – o Carta di Nizza – che, in forza dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, ” assume lo stesso valore giuridico dei trattati”), la loro incidenza sull’individuazione del limite di recepimento della norma straniera, partecipe di ordinamento anch’esso soggetto a quel sistema di fonti, non può essere revocato in dubbio, posto che appare evidente, al contempo, l’apertura internazionalista del concetto di ordine pubblico e la condivisione degli stessi valori fondamentali tra i diversi ordinamenti statuali, nell’ambito dello stesso sistema di tutela multilivello( cfr. Corte di Cass. 2013/19405).

In altri termini, se la definizione del concetto di ordine pubblico europeo non è stata ancora oggetto di una elaborazione giuridica complessa e completa, la sua affermazione è conseguenza diretta della garanzia dei diritti fondamentali dell’Uomo che non possono cedere, al contrario, di fronte al concetto di ordine pubblico interno.

In conclusione, ai fini del riconoscimento o meno dei provvedimenti giurisdizionali stranieri, deve aversi prioritario riguardo all’interesse superiore del minore (art. 3, L. 27.5.1991,n. 176 di ratifica della Convenzione sui diritti del fan-ciullo, di New York 20.11.1989), principio questo ribadito in ambito comunitario con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere in materia di rapporti tra genitori e figli, dall’art. 23 del Reg. CE n. 2201/2003, il quale stabilisce espressamente che la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto dell’interesse superiore del figlio. Il richiamo all’art. 23 reg. CE n. 2201/2003 (che consente il non riconoscimento di decisioni straniere relative alla responsabilità genitoriale “se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto”) non appare affatto fuori luogo, come affermato nella citata sentenza della S. C. ( 24001/2014), sol perché il regolamento attiene alle decisioni giudiziarie mentre, nella specie, veniva in considerazione un atto amministrativo, in quanto ciò che rileva – sia che si tratti di provvedimenti, che di atti amministrativi – è il risultato che deriva dal bilanciamento degli interessi coinvolti, di talchè, se prevale l’interesse primario del minore sia nell’uno che nell’altro caso, è a questo principio della Convenzione richiamato in sede comunitaria cui occorre far riferimento. Inoltre, la circostanza che lo stesso regolamento esclude espressamente dal proprio campo di applicazione le decisioni relative “alla determinazione o all’impugnazione della filiazione” e “all’adozione, alle misure che la preparano o all’annullamento o alla revoca dell’adozione” (art. 1, par. 3, lett. a) e b), non assurgono, ad avviso di questo Tribunale, alcuna rilevanza ostativa all’applicazione del principio fondamentale del “superiore interesse del minore” nella materia della responsabilità genitoriale regolata dal diritto comunitario.

Il concetto di ordine pubblico internazionale – anche inteso come bilanciamento degli interessi coinvolti – è inferibile in modo evidente dalla decisione della Corte di Strasburgo che, nel noto caso “Paradiso -Campanelli”, osserva che la vita familiare, al cui presidio si pone l’art. 8 citato, deve potersi intendere nel concreto atteggiarsi dei rapporti affettivi che ne costituiscono la base, a prescindere dalla sussistenza di un effettivo legame legalmente riconosciuto. In tal senso, si darebbe rilievo pure alla presenza di rapporti familiari de facto, non necessariamente avvinti dal legame matrimoniale (Kroon e al. c. Paesi Bassi, 27 ottobre 1994, § 30; Johnston e al. c. Irlanda, 18 dicembre 1986, § 55; Keegan c. Irlanda, 26 maggio 1994, § 44; X, Y e Z c. UK, 22 aprile 1997, § 36).

Il giudice europeo, sebbene affermi che l’art. 8 CEDU non comporta il diritto – inteso in senso soggettivo – a fondare una famiglia o ad adottare (E.B. c. Francia [GC], § 41, 22 gennaio 2008), presupponendo pur sempre la necessaria sussistenza di un previo rapporto matrimoniale (Marckxc. Belgio, 13 giugno 1979, § 31) o familiare (Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. United Kingdom, 28 maggio 1985, § 62) o relazionale non fittizio (Pini e al. c. Roumania, § 148), chiarisce che può ravvisarsi, in ogni caso, la presenza di un legame familiare, come tale tutelabile, anche laddove manchi il riconoscimento dell’adozione (Wagner et J.M.W.L. c. Lussemburgo, 28 giugno 2007), ovvero vi sia stato un rapporto di affido temporaneo (Moretti e Benedetti, citata, §§ 50-52). In questo caso, il superiore interesse del minore viene ravvisato come limite all’ordine pubblico internazionale.

La Corte per negare l’efficacia tout court del limite dell’ordine pubblico, sostiene che esso non può certamente fungere da “carte blanche justifiant toute mesure, car l’obligation de prendre en compte l’intérêt supérieur de l’enfant incombe à l’État indépendamment de la nature du lien parental, génétique ou autre”.

Secondo la Corte di Strasburgo, difatti, l’autorità nazionale dovrebbe astenersi da qualsiasi intervento che possa essere ritenuto lesivo della integrità psico-fisica del minore, in considerazione della peculiare delicatezza del periodo di formazione che il soggetto si trova ad affrontare e dell’indubbia importanza che le relazioni sociali possano assumere nella strutturazione della propria personalità e della definizione della propria individualità.

La Convenzione, infatti, non si limita a riconoscere al cittadino la titolarità di un diritto, ma impone allo Stato membro di adottare “le misure ragionevoli ed adeguate per proteggere i diritti riconosciuti”; si tratta di “diritti soggettivi perfetti” che, come tali, devono trovare la loro tutela all’interno del sistema nazionale. A tale garanzia la Convenzione aggiunge, inoltre, un sistema di tutela sovranazionale, mediante il meccanismo di controllo, anch’esso di carattere giurisdizionale, attribuito alla Corte Europea: il Giudice deve dunque valutare se in concreto corrisponda all’interesse del bambino rilevare la contrarietà del certificato di nascita ucraino (e quindi della legge ucraina dallo stesso presupposta) alla legge nazionale al fine di negarne il riconoscimento in Italia.

In virtù della ratio dell’art. 18 dell’ordinamento di stato civile, il limite di ordine pubblico incide non tanto sulla “completezza, validità ed autenticità dell’atto proveniente dall’autorità straniera, ma sul suo recepimento”: di conseguenza, seppur sussistente, esso non può rifluire nella consumazione di un’alterazione di stato, che al momento genetico della formazione dell’atto fa riferimento e si limiterebbe ad inibirne l’efficacia in Italia.

Tale è la concezione di ordine pubblico internazionale che, ormai recepita da tempo da dottrina e da giurisprudenza, deve necessariamente accogliersi attesa la partecipazione dell’Italia ad un più ampio contesto internazionale, convenzionale e sovranazionale (cfr. Suprema Corte n. 19405 del 2013; Cass. n. 10070 del 26.4.2013, secondo cui il concetto di ordine pubblico ai fini internazionalprivatistici è quel complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati su esigenze di garanzia comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, sulla base di valori sia interni che esterni all’ordinamento purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale).

Il concetto di ordine pubblico rinvia senz’altro a “principi desumibili dalla Carta Costituzionale o comunque fondanti l’intero assetto ordinamentale”, ma fra questi oggi vi sono anche quelli della CEDU come interpretati dalle Alte Corti europee, operando essi come parametri costituzionali interposti, che obbligano il giudice interno a un’interpretazione “convenzionalmente” orientata (con l’obbligo di sollevare, ove l’ingegneria ermeneutica non basti, questione di costituzionalità per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost.) [i leading cases in materia sono le notissime Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348; Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349 e Corte cost. 4 dicembre 2009 n. 317, ma v. anche, ad es., T.A.R. Lazio Roma, 10 giugno 2013, n. 5807; T.A.R. Lazio Roma, 10 aprile 2013, n. 3629 e, sulla diretta “comunitarizzazione” della CEDU, Cons. Stato, 2 marzo 2010, n. 1220 e T.A.R. Lazio Roma, 18 maggio 2010 n. 11984].

Del resto, il centro gravitazionale del rapporto genitori-figli non ruota più e solamente attorno al dato biologico in sé, ma al fattore affettivo, che lega i componenti del gruppo familiare, diventandone il collante indefettibile.

In altri termini, l’ordinamento è deputato a tutelare precipuamente non più il favor veritatis, ma il favor affectionis, che si realizza nella condotta di chi provvede al mantenimento, all’educazione del figlio con amore e responsabilità, guardando al futuro del nato (e non al momento del parto), a garanzia del “superiore interesse del minore” – di gran lunga prevalente rispetto all’interesse della coppia a realizzarsi come genitori – a ricevere le cure e l’affetto di cui ha bisogno per formare la sua personalità, “in una prospettiva in cui lo status viene rivitalizzato e piegato allo scopo di proteggere e non di escludere”.

Ciò risulta con tutta evidenza nelle due note e citate sentenze, in cui la Corte di Strasburgo ha dovuto verificare la sussistenza di una illegittima intrusione nella vita privata e familiare – come tale vietata dall’art. 8 CEDU – da parte della Francia, che si era rifiutata di trascrivere nei registri di stato civile il vincolo di filiazione che due coppie francesi – i coniugi La. ed i coniugi Me. – avevano legittimamente formato in due distinti Stati degli U.S.A. ricorrendo a tecniche di maternità surrogata. In entrambi i casi la madre surrogata era chiamata a portare a termine la gravidanza di un feto formato in vitro con il gamete del marito di ciascuna coppia.

In entrambi i casi la Corte ha ritenuto che verso i genitori l’intrusione nella loro vita privata e familiare risulta giustificata dall’esigenza di ordine pubblico derivante dalla necessità di adottare misure deterrenti verso pratiche vietate, mentre la discrezionalità dello Stato viene fortemente compressa quando il best interest of the child imponga di privilegiare la posizione dei minori rispetto agli interessi collettivi. Il diniego di trascrivere il vincolo di filiazione nei registi di stato civile comporterebbe, quindi, una lesione della vita privata e familiare dei figli che non vedrebbero riconosciuto in Francia il loro status con la conseguenza di non veder accertata con chiarezza la propria identità personale (cfr. Mennesson c. Francia, § 96, e Labassee c. Francia, § 75). La Corte Europea ha concluso che “Non consentendo il riconoscimento dell’instaurazione di un rapporto giuridico di parentela tra bambini nati da madre surrogata e il loro padre biologico, lo Stato francese ha oltrepassato il margine di apprezzamento consentito e nel caso di specie violato il diritto dei minori al rispetto della loro vita privata”.

Successivamente a dette sentenze, la Corte di Cassazione francese ha mutato orientamento, stabilendo che le norme di stato civile devono essere interpretate alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come delineata dalla Corte di Strasburgo. Di conseguenza, non può essere negata la trascrizione dell’atto di nascita di un bambino nato all’estero da maternità surrogata, se il padre è cittadino francese. È il principio stabilito dalla Corte di cassazione francese con la sentenza del 3 luglio 2015, n. 14-21-323 (si veda anche la sentenza della Corte n. 15-50-002).

Non si deve però pensare che, alla luce di tale orientamento, sia costante nelle sentenze della Corte EDU l’affermazione di un obbligo per gli Stati aderenti alla CEDU di riconoscere automaticamente validità ai vincoli di filiazione formati all’estero attraverso una maternità per sostituzione. Infatti, in un diverso caso nel quale una coppia belga si era recata in Ucraina al fine di ottenere attraverso una maternità surrogata un figlio che era stato formato con gameti provenienti da terzi donatori, la stessa Corte di Strasburgo ha negato che potesse concretizzare una violazione dell’art. 8 CEDU la condotta del Belgio che aveva negato alla coppia i documenti validi a trasportare il figlio dall’Ucraina al Paese di residenza della coppia committente. Tale iniziale diniego – alla luce della stessa condotta della coppia committente – è stato ritenuto del tutto giustificato rientrando nel margine di apprezzamento concesso agli Stati.

La suddetta scelta comporta, infatti, una intrusione nella vita privata e familiare della coppia che appare del tutto giustificata alla luce della superiore esigenza di prevenire condotte criminali – quali la tratta di esseri umani – nonché di tutelare i diritti della madre surrogata e del minore.

Sembra che anche all’interno dei precedenti specifici citati emessi dalla Corte di Strasburgo sia evidente una diversità di disciplina a seconda del fatto che il minore presenti o meno vincoli biologici con uno dei genitori. La risposta è che se si vuole parlare di intrusione giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 8 CEDU è solo ed esclusivamente nei confronti del minore il cui interesse superiore è stato leso da un provvedimento che si assume essere illegittimo.

Alla luce dei principi fondamentali desumibili dalla CEDU, il richiamo ai principi della responsabilità procreativa, suscettibili di vincere anche i profili della discendenza genetica – nel senso che il coniuge che abbia dato l’assenso alla nascita di un bambino tramite fecondazione eterologa con l’utilizzo di gameti estranei alla coppia non può esercitare l’azione di disconoscimento per avere assunto la responsabilità del figlio -, nonché il richiamo alla circostanza che la madre italiana, in quanto coniuge del genitore titolare del legame genetico con il minore, potrebbe adottare quest’ultimo ai sensi dell’art. 44 della legge n. 184/1983 e si determinerebbero – in base al principio di responsabilità genitoriale – gli stessi effetti concreti che sono conseguiti alla registrazione in Italia dell’atto formato davanti all’ufficiale di stato civile ucraino, ha consentito ai giudici di merito di ritenere insussistente la violazione del principio dell’ordine pubblico (si vedano sul punto: Tribunale di Napoli I sez.1.7.2011; Tribunale di Roma I sez. civile 8.8.2014; Corte Appello Bari sentenza del 13.2.2009; Tribunale per i minorenni di Roma 29.8.2014; Tribunale per i Minorenni di Bologna ordinanza 6.11.2014; C. Appello Torino 29.10.2014; Trib. Grosseto 9.04.2014).

Proprio alla luce del prevalente interesse del minore, principio che è esso stesso parte dell’ordine pubblico internazionale (ed attinente al diritto comunitario) e che non tollera compressioni nella soluzione di un conflitto di leggi, il giudice italiano deve operare il collegamento; tutela della prole che avviene nel nostro ordinamento ed in quello comunitario attraverso il principio di responsabilità procreativa.

Ciò avviene in primo luogo in virtú del principio di tutela dell’infanzia, immanente al nostro ordinamento e affermato dall’art. 31 comma 2 Cost., in applicazione del quale ogni bambino ha diritto ad avere dei genitori individuandoli in maniera certa in coloro che abbiano assunto l’iniziativa procreativa, in via naturale o tramite assistenza medica. Né ad esso può opporsi la esistenza della proibizione della surrogacy nell’ordinamento italiano, ancorchè assistita da sanzione penale, poiché il divieto non può prevalere rispetto alla concreta tutela del minore, punendo il minore per la violazione normativa commessa dei genitori nella fase anteriore e separata della tecnica riproduttiva.

Con specifico riguardo al contrasto con le norme della legge n. 40/2004, il Tribunale di Napoli (con decreto del primo luglio 2011) propone una lettura costituzionalmente orientata delle stesse, alla luce della quale, poiché “nel nostro ordinamento, il principio guida è quello della responsabilità procreativa finalizzato a proteggere il valore della tutela della prole, principio che è assicurato sia dalla procreazione naturale che da quella medicalmente assistita ove sorretta dal consenso del padre sociale … l’ingresso della norma straniera, ovvero dei suoi effetti, non mette in crisi uno dei principi cardine dell’ordinamento, ben potendo coesistere ed armonizzarsi il divieto di ricorrere a tecniche di fecondazione eterologa in Italia con il riconoscimento del rapporto di filiazione tra il padre sociale ed il nato a seguito di fecondazione eterologa in altro Stato, anche perché questo e solo questo è l’effetto prodotto e non certo la legittimazione della fecondazione eterologa”.

Anche l’ordinamento interno, al pari di quello ucraino, nel disciplinare gli effetti della fecondazione eterologa valorizza dunque il principio di responsabilità procreativa e ne fa applicazione in luogo di quello di discendenza genetica: il coniuge che abbia dato l’assenso (anche per fatti concludenti) alla nascita di un bambino tramite fecondazione eterologa con l’utilizzo di gameti maschili estranei alla coppia non può esercitare l’azione di disconoscimento, per avere assunto la responsabilità di questo figlio e ne diviene genitore nonostante lo stato civile del neonato venga determinato in maniera estranea alla sua discendenza genetica; cosi come il donatore di gameti, che quella responsabilità non ha assunto, non può divenire genitore pur essendolo geneticamente.

Pur vietando la fecondazione eterologa, è, dunque, la stessa legge n. 40/2004 a impedire, all’art. 9 comma 1, l’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità a chi, nonostante la preclusione normativa, abbia prestato egualmente il consenso a praticare questa tecnica procreativa ed a stabilire al comma 3, al pari dell’art. 5 comma 2 del decreto n. 771/2008 del Ministero della Salute ucraino, che il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può fare valere nei suoi confronti alcun diritto o essere titolare di obblighi.

Il principio della responsabilità procreativa, posto prioritariamente a tutela dell’interesse del bambino, fonda, inoltre, le norme del codice civile che pongono limiti all’azione di disconoscimento della paternità (cfr. artt. 235 e 244 e.e.), esperibile solo a determinate condizioni e soggetta a decadenza, determinando in questi casi la preminenza del principio di autoresponsabilità su quello di derivazione biologica quale criterio di attribuzione della paternità; costituisce la ratio dell’art. 250, ult. comma c.c. che non consente il riconoscimento del neonato da parte di soggetti che non abbiano compiuto i 16 anni, considerando che, pur avendo avuto la capacità di procreare, non abbiano la capacità e la consapevolezza necessarie ad assumere la responsabilità genitoriale; fonda altresì l’art. 30 comma 1 d.P.R. n. 396/2000, che riconosce alla partoriente il diritto a non essere riconosciuta come madre e ne rispetta la decisione di non volersi assumere la responsabilità del neonato, cui verrebbe attribuito altrimenti un genitore che non intende assumersi quel ruolo, integrando, così, una determinazione a tutela del bambino del tutto equivalente a quella azionata dalla donna che ha partorito, che ha rinunciato ad essere madre non solo con la dichiarazione notarile resa dopo la nascita e recepita dall’ufficiale di stato civile quale condizione necessaria per riconoscere l’imputata quale madre legale, ma anche all’atto dell’accettazione della funzione di gestante, effettuata la precisa consapevolezza di non acquisire, all’esito della nascita, alcuna responsabilità genitoriale.

A conferma e corollario, anche la legge n. 154/2013 di revisione delle disposizioni in materia di filiazione ha ribadito che la tutela del diritto allo status e all’identità personale del figlio può comportare il riconoscimento di rapporti diversi da quelli genetici, nel solco del fondamentale principio della tutela del prevalente interesse del minore: principio questo affermato dalla Corte di Cassazione già nel 1999 (cft. Cass., sez. I, 16.3.1999 n. 2315), cinque anni prima del recepimento di questo principio nell’art. 9 della legge n. 40/2004, per escludere il ricorso all’ azione di disconoscimento di paternità da parte del marito consenziente alla fecondazione assistita eterologa della moglie.

Anche la Cassazione, con la decisione sul divieto di disconoscimento di paternità da parte del marito della coppia che ha dato il consenso all’inseminazione eterologa della moglie (sentenza n 2315/1999), ha sovvertito il principio secondo il quale la verità biologica fondi il rapporto di filiazione.

Pertanto, il concetto di ordine pubblico interno deve essere declinato, alla luce anche della normativa interna, con riferimento all’interesse del minore: nel caso in questione non si tratta di introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente, ma di garantire tutela giuridica ad una situazione di fatto già in essere nell’esclusivo interesse di un bambino che la legge straniera riconosce figlio del padre biologico e della madre non biologica, ma sociale.

Ebbene, a fronte dell’interesse del minore [v., ex multis, l’art. 3, l. n. 176/1991 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York 20 novembre 1989 e Corte europea dei diritti dell’uomo, V sez., 26 giugno 2014, Mennesson c. Francia, in Reports of Judgments and Decisions 2014 (e la coeva Labassee c. Francia)], della riforma della filiazione [per fare solo un esempio, si pensi all’art. 315 bis che, come ricordato da Cass. civ., Sez. I, 2 agosto 2013, n. 18538, inedita, prevede il diritto del minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore, ove capace di discernimento, di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, e quindi anche in quelle relative all’affidamento ai genitori, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con il suo superiore interesse; ma anche le conseguenze trattene da Trib. Varese, 21 gennaio 2013, in Ilcaso.it, 2013 e Trib. Milano, 30 aprile 2013, ivi, 2013] e di una giurisprudenza CEDU che ha, altresì, superato l’inquadramento della coppia omosessuale nella mera “vita privata”, per ricondurlo alla “vita familiare” ex art. 8 della Convenzione [il revirement risale a Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 giugno 2010, Schalck and Kopf c. Austria, in Reports of Judgments and Decisions 2010, ma v. anche Corte europea dei diritti umani, Grande camera, Vallianatos e altri c. Grecia, 7 novembre 2013, in Reports of Judgments and Decisions 2013 e Corte europea dei diritti umani, Grande camera, X e Altri c. Austria, 19 febbraio 2013, ibidem], può concludersi che la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto dell’interesse superiore del figlio e del concetto della procreazione responsabile ( concetto enucleabile da tutte le fonti interne ed internazionali citate).

Il reato ex art. 12, co. 6, L 40/04 riguarda la modalità della nascita e, peraltro, il nato non ne è persona offesa. Ben altro è il caso del delitto di alterazione di stato ex 567 c.p., eventualmente consumato in ragione della aperta violazione della pertinente legge ucraina. È questo il reato che tutela l’identità personale del bambino. E solo in questo caso, ipotizzando un ordinamento che consentisse la trasferibilità del rapporto di filiazione dalla madre gestante a quella surrogata in assenza di una valutazione di interessi (esistenza di un rapporto di coniugio e di una famiglia, paternità biologica del marito, assenza di parentela biologica tra gestante e nato) che si potrebbe opporre l’ordine pubblico internazionale in virtù della natura delittuosa della condotta di falso di cui all’atto di nascita. Nel caso del reato previsto dall’art 12, co. 6, L 40/04 cit., non si ha una alterazione di stato quando la coppia si rivolga a una gestante utilizzando il gamete di un’altra donna o di un altro uomo e la madre surrogante non eserciti il suo diritto e possa rinunziare al legame di filiazione. Quanto alle tecniche seguite dai genitori del minore per la nascita del figlio deve richiamarsi la recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 162 del 9.4.2014), che ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 4, comma 3, nella parte in cui stabilisce per la coppia il divieto al ricorso alla fecondazione assistita di tipo eterologo, qualora sia diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assoluta e irreversibile e dell’art. 9 commi 1 e 3, limitatamente al richiamo al divieto di cui all’art 4 comma 3 e 12 comma 1, norme che vietano la fecondazione eterologa.

La Consulta ha chiarito che la scelta di diventare genitori e formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli articoli 2, 3 e 31 Cost.: il divieto dedotto, qualora applicato a coppie sterili o infertili, comprime irragionevolmente questi diritti ed incide sul diritto alla salute fisica e psichica, stabilito dall’art. 32 Cost., vietando irragionevolmente il ricorso ad una pratica terapeutica validata dalla comunità scientifica internazionale. La sentenza n. 162/2014 della Corte Costituzionale, nell’indicare l’incostituzionalità della norma che aveva impedito all’imputata di ricorrere in Italia alla fecondazione eterologa, ha smentito le argomentazioni dirette a sostenere l’ipotetica necessità di attribuire la qualifica di madre alla donna che ha partorito il bambino, piuttosto che alla madre sociale, per asserite ragioni di ordine pubblico.

La gestazione per altri e le tecniche di fecondazione eterologa (praticate correntemente all’estero e, come richiamato dalla stessa sentenza costituzionale, applicate in Italia da 75 centri medici prima che la legge n. 40/2004 ne introducesse il divieto assoluto) sono infatti riconosciute dal nostro ordinamento, nei termini specificati dalla Consulta: è quindi riconosciuta legalmente, significativa dell’esercizio di un diritto e conforme all’ordine pubblico, con efficacia ex tunc, la relazione genitoriale che ne discende.

Cercando di tirare le fila di questo ragionamento, può affermarsi che la trascrizione dei certificati di nascita dei bambini nati con la fecondazione eterologa non è in contrasto con l’ordine pubblico ideale – internazionale, poichè nel nostro ordinamento (come integrato dai principi fondamenti CEDU) il principio guida è quello della responsabilità procreativa finalizzato a proteggere il valore della tutela della prole, principio che è assicurato sia dalla procreazione naturale, che da quella medicalmente assistita ove sorretta dal consenso del padre sociale.

Pertanto, l’ingresso della norma straniera, ovvero dei suoi effetti, non mette in crisi uno dei principi cardine dell’ordinamento, ben potendo coesistere ed armonizzarsi il divieto di ricorrere a tecniche di fecondazione eterologa in Italia con il riconoscimento del rapporto di filiazione tra il padre sociale ed il nato a seguito di fecondazione eterologa in altro stato, anche perchè questo e solo questo è l’effetto prodotto e non certo la legittimazione tout court della fecondazione eterologa.

Per completezza considerato che l’Ordine Pubblico esprime la sintesi dei valori costituzionali e di quelli condivisi con la comunità internazionale, occorre rammentare la legislazione degli altri paesi europei: a parte la legislazione tedesca, che consente solo la fecondazione omologa di coppie coniugate ed in vita, la legislazione norvegese consente la fecondazione eterologa, così come la legge francese, quella svedese e quella austriaca, che la estendono alle coppie conviventi; infine, il legislatore spagnolo permette la fecondazione sia omologa che eterologa avendo come destinataria la donna e non la coppia e pertanto estendendola anche post mortem.

Pur nella varietà delle soluzioni adottate, appare, allora, evidente che la soluzione della fecondazione eterologa non possa essere considerata come del tutto estranea alla cultura giuridica europea.

In conclusione, la mancata trascrizione dell’atto di nascita o la parziale trascrizione dell’atto di nascita, limiterebbe e comprimerebbe il diritto all’identità del minore ed il suo status di figlio nello Stato Italiano: oltre alla lesione dell’identità del minore, privato della possibilità di riconoscersi come “figlio” di uno dei genitori che da tempo ha assunto questo ruolo su di lui, lo stesso si troverebbe nella impossibilità di essere validamente rappresentato da un esercente la responsabilità genitoriale, in relazione a problematiche scolastiche, sanitarie, ricreative e parimenti grave sarebbe il pregiudizio per il rapporto successorio (e dunque anche sotto il profilo patrimoniale) con la madre italiana.

Poiché l’ordinamento italiano non può che prendere atto dello status di madre, ne segue il rigetto dell’istanza di correzione dell’atto di nascita trascritto in Italia con riferimento al nominativo della madre “sociale” di Pi. Fe. Co. Se. Ji..

Le spese anticipate dalla Procura (anche le spese di consulenza già liquidate con separato decreto) restano a suo carico.

P.Q.M.
RIGETTA l’istanza della procura della repubblica presso il Tribunale di Pisa.Nulla per le spese.

Così deciso in Pisa il 22.07.2016

Depositata in cancelleria il 22/07/2016.

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