Massima

In virtù di un consolidato mutamento giurisprudenziale, la dichiarazione giudiziale di nullità del trasferimento di ramo d’azienda ai sensi dell’articolo 2112 c.c. ripristina la pienezza del vincolo giuridico tra il lavoratore e il datore di lavoro originario. L’obbligazione di quest’ultimo al versamento delle retribuzioni, anche in caso di sua persistente mancata effettiva reintegrazione del dipendente, assume natura contrattuale retributiva e non meramente risarcitoria.

Supporto alla lettura

TRASFERIMENTO D’AZIENDA E DIRITTI DEI LAVORATORI

L’art. 2112 c.c. dispone che, nel caso di cessione dell’intera azienda, o di un suo ramo autonomo, i relativi rapporti di lavoro vengano trasferiti automaticamente e senza soluzione di continuità all’imprenditore acquirente, con il mantenimento delle condizioni economiche e normative godute dal lavoratore presso il precedente datore di lavoro. Si tratta di una norma di estrema garanzia per il lavoratore che, conseguentemente, non può essere licenziato per il semplice fatto che l’azienda cui è addetto è stata ceduta, né vedere modificate le condizioni del rapporto.

La Legge 183/2010 ha introdotto per la prima volta dei termini di decadenza per l’impugnazione della cessione del contratto avvenuta a seguito di un trasferimento d’azienda (art. 2112 c.c.):

  • entro 60 giorni dalla data del trasferimento d’azienda, il lavoratore deve impugnare in via stragiudiziale la cessione del contratto, mediante racc. a.r. o posta elettronica certificata, comunicando al datore di lavoro cedente di essere a sua disposizione, allo scopo di costituirlo in mora;
  • impugnata tempestivamente la cessione del contratto, il lavoratore ha 180 giorni per depositare il ricorso in tribunale;
  • in alternativa, il lavoratore può entro 60 giorni dall’impugnazione stragiudiziale, comunicare al datore la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato;
  • in questo secondo caso, se la richiesta di conciliazione o arbitrato viene rifiutata oppure non si raggiunge l’accordo, il lavoratore ha 60 giorni per depositare il ricorso in tribunale

Ambito oggettivo di applicazione

PROCESSO

Con ricorso proposto, ex art. 633 e ss. cpc, (…) ha ottenuto dal Tribunale di Milano il decreto ingiuntivo RG n. 2722/2024 del 17 novembre 2024.

Contro il decreto ingiuntivo suddetto, ha proposto opposizione la (…), con ricorso depositato in cancelleria il 30.12.24.

Nell’atto introduttivo del presente giudizio, ha esposto che (…), in passato dipendente della medesima, avrebbe visto il proprio rapporto di lavoro trasferito alla (…) ex articolo 2112 c.c., in data 1 gennaio 2016, ma tale passaggio sarebbe stato dichiarato nullo con la sentenza del 27 giugno 2019 n. 3686 del Giudice del Lavoro del Tribunale di Roma, che avrebbe ritenuto che l’operazione traslativa non sarebbe stata riconducibile alla fattispecie normativa menzionata, con pronuncia confermata dalla Corte di Appello di Roma n. 1478/2021.

La (…) avrebbe anche proposto ricorso avverso detta ultima sentenza, con ordinanza del 12 aprile 2023 n. 20727 della Suprema Corte che avrebbe dichiarato estinto il giudizio con passaggio in giudicato, dunque, delle precedenti decisioni.

Secondo la tesi dell’opponente, in ogni caso, dal 1 gennaio 2016, la (…) avrebbe adibito il dipendente ad attività afferenti all’esecuzione del contratto di appalto di servizi resi fino al 31 agosto 2021 a favore di (…) e, dal 1 settembre 2021, resi a favore di (…).

In particolare, poi, sarebbe avvenuto che la opponente avrebbe avviato una procedura di consultazione sindacale ex art. 47 della legge n. 428/90, nel maggio 2021, che si sarebbe conclusa con accordo sindacale stipulato il 21 giugno 2021 e che avrebbe
garantito a tutti i lavoratori interessati dalla scissione garanzie e diritti amplissimi.

Il 1 settembre 2021 avrebbe, quindi, acquisito efficacia la scissione di (…) ed avrebbe cominciato ad operare sul mercato la società (…) in cui sarebbe confluito l’intero compendio scisso precedentemente in seno alla opponente.

Nello specifico sarebbe stato trasferito in tale operazione alla cessionaria il ramo d’azienda denominato Managed Infrastructure Services (“MIS”), in precedenza operante in seno alla divisione GTS-Global Technology Services di Co”, e costituito da tutti i beni, i contratti, le attività, le passività, gli oneri, i rapporti di lavoro afferenti alle attività di fornitura di servizi infrastrutturali.

Il ramo c.d. MIS includerebbe l’intera Divisione (Global Technology con (…)) di, con la sola eccezione dei settori di attività c.d..

Sarebbe, inoltre, subentrata nella titolarità dei rapporti di lavoro con impiegati, quadri e dirigenti afferenti al compendio scisso, ivi inclusi quelli in precedenza ricostituiti ope iudicis in capo a (…) per effetto della declaratoria di non conformità all’art. 2112 c.c. della cessione del ramo d’azienda SDC a suo tempo effettuata da questa a (…) e tra questi vi sarebbe anche quello della parte opposta, con perciò carenza di legittimazione passiva della opponente dopo il 31.8.21.

La parte, infatti, ha rilevato che, con la propria azione monitoria, (…) avrebbe chiesto il pagamento di una somma corrispondente alle retribuzioni che avrebbe dovuto percepire per i mesi da settembre 2023 a settembre 2024, con rapporto che
dovrebbe ritenersi già trasferito alla (…)

Ad ogni modo, il decreto citato dovrebbe essere revocato, in quanto la (…) a far data dal 1 gennaio 2016, avrebbe sempre versato al dipendente la retribuzione dovuta, dovendosi così far applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, con operatività del meccanismo del c.d. aliunde perceptum.

Nel caso, peraltro, non dovrebbe non dimenticarsi il disposto dell’art. 27, comma 2, d. lgs. n. 276/03, espressione del principio generale del primo comma dell’art. 1180 c.c. e del terzo comma dell’art. 2036 c.c., ossia dell’adempimento del terzo con effetti liberatori, potendosi anche configurare un’ipotesi di tal fatta in quella del dipendente distaccato dalla (…) alla (…) (…) tra le quali, peraltro, vi sarebbe un rapporto d’appalto.

Le sentenze della Corte di cassazione del 2019, inoltre, avrebbero determinato l’introduzione di un meccanismo di c.d. astreinte, senza, tuttavia, mantenere il potere discrezionale del giudice previsto dall’articolo 614 bis c.p.c., peraltro non applicabile nell’ambito del diritto del lavoro.

Ad ogni modo, la opponente ha argomentato l’inefficacia, della messa in mora formulata in quanto, secondo l’impostazione della opponente, (…) non avrebbe potuto validamente adempiere alle prestazioni contemporaneamente a favore della cedente e della cessionaria, rimanendo anche vincolato dai doveri di fedeltà nei confronti della prima, ex articolo 2105 c.c..

In più, ha evidenziato come, in via cautelativa, avrebbe invitato (…) a riprendere il rapporto di lavoro con la stessa dal 1 ottobre 2024.

Pertanto, per tutti questi motivi, ha domandato la revoca del decreto ingiuntivo opposto. Con vittoria di spese di lite.

Costituendosi ritualmente in giudizio, con articolata memoria difensiva, (…) ha contestato la fondatezza delle domande, chiedendone il rigetto. Con vittoria di spese.

Al riguardo, ha, in primo luogo, sostenuto come sarebbe stata del tutto valida la costituzione in mora della opponente e come si dovrebbe sostenere la legittimazione passiva della stessa, che non avrebbe dimostrato alcun mutamento di titolarità del
rapporto di lavoro a favore della (…).

La parte opposta, peraltro, non avrebbe mai fatto parte del ramo d’azienda MIS e non avrebbe mai chiesto di essere inserita nello stesso.

Per di più, non sarebbe concepibile che questa apprenda di essere stata assegnata al ramo di azienda oggetto di trasferimento da (…) a (…) in assenza non solo della ricostituzione della concreta funzionalità del rapporto di lavoro con la prima, quale presupposto logico-giuridico fondamentale per la perimetrazione dei soggetti interessati dalla vicenda successoria, ma anche di qualsiasi comunicazione (da parte sia dell’opponente che della pretesa cessionaria) di trasferimento ex art. 2112 c.c.

Nel momento in cui tale operazione avveniva.

Pertanto, ha domandato il rigetto del ricorso in opposizione.

All’udienza di discussione è stata tentata inutilmente la conciliazione. Quindi, non essendo necessaria alcuna ulteriore istruttoria, la causa è stata oralmente discussa e decisa come da dispositivo pubblicamente letto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Preliminarmente, deve essere affermata la legittimazione passiva della opponente anche dopo il 31.8.21 in quanto la parte opposta ha individuato una relazione che sussisterebbe tra i due contendenti per il fatto che (…) non sarebbe mai stato inserito nel ramo d’azienda MIS ceduto alla (…) e non sarebbe stato mai riammesso al lavoro, nonostante l’ordine giudiziario in questo senso, fino al 1 ottobre 2024.

2) In particolare, poi, quanto al merito, risulta che la parte opposta non è stata reintegrata in servizio fino all’1 ottobre 2024 presso la opponente, nonostante la menzionata sentenza la sentenza del 27 giugno 2019 n. 3686 del Tribunale di Roma confermata dalla Corte di Appello di Roma n. 1478/2021 che hanno dichiarato la prosecuzione del rapporto di lavoro tra le parti e l’illegittimità della cessione alla (…)

Da ciò consegue che, evidentemente, se il lavoratore non è mai stato riammesso in servizio fino al 1 ottobre 2024 non poteva far parte nel complesso organizzato che è stato descritto come ramo d’azienda MIS trasferito, per scissione, alla (…) dal 1 settembre 2021.

Si deve, infatti, ricordare che un ramo d’azienda è costituito da un insieme di elementi materiali e immateriali e deve poter essere riscontrabile nella sua concretezza.

E’, del resto, principio giurisprudenziale quello per cui il relativo accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione “in fatto” della maggior parte del personale da parte della nuova impresa (cfr., ad es., Cass. Sentenza n. 9361 del 28/04/2014; sentenza n. 6452 del 17/03/2009).
Sicché, presuppone, quanto al personale, una verifica circa l’inserimento concreto e effettivo dei dipendenti trasferiti nel ramo d’azienda ceduto e che possano così transitare presso la cessionaria.

Perciò, poiché è pacifico in causa che (…) non è stato reintegrato in servizio dall’opponente fino al 1 ottobre 2024, ne deriva come non sia mai stato inserito “in fatto” nel ramo d’azienda MIS oggetto di cessione, tramite scissione, alla (…) dal 1 settembre 2021.

Allo stato, si può, dunque, accertare che sussiste ancora un rapporto di lavoro tra la (…) e (…), non essendo costui mai stato richiamato in servizio dalla medesima fino alla data dell’1 ottobre 2024 e non potendo, quindi, rientrare tra il personale inserito nel ramo d’azienda ceduto.

4) Da ciò consegue che la opponente è tenuta a versare alla parte opposta le retribuzioni richieste con il decreto ingiuntivo per i mesi da settembre 2023 a settembre 2024, sussistendo ancora il rapporto di lavoro tra le stesse parti a quella data.

Infatti, per quanto il lavoratore abbia continuato ad operare anche in detto periodo per la (…) fino al licenziamento del 30 giugno 2024 (doc. 14 ric.) ricevendo la relativa retribuzione, è noto il mutamento giurisprudenziale avviato con la pronuncia della Corte costituzionale n. 29 del febbraio 2019 e dalla Corte di cassazione n. 17784/19, che ha configurato l’obbligazione in capo al cedente inadempiente rispetto all’obbligo di ripristino del rapporto in termini retributivi, superando, per converso, il diverso orientamento della Suprema Corte, secondo cui “in caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall’ammontare del risarcimento” (Cass. 25 giugno 2018, n. 16694; In senso analogo Cass. 30 maggio 2019 n. 14797, Cass. 9 settembre 2014 n. 18955, Cass. 30 maggio 2016 n. 11095, Cass. 26 giugno 2014 n. 14542, Cass. 17 luglio 2008 n. 19740).

L’interpretazione innovativa appare persuasiva e, dunque, in virtù del principio di esecutività della sentenza di primo grado, ormai peraltro passate in giudicato, occorre ritenere che correttamente nel ricorso è stata richiesta la retribuzione alla (…), senza detrazione di quanto percepito, nel medesimo periodo dalla (…) in conformità al citato indirizzo maggioritario e più recente della Corte di cassazione (cfr. anche Cass. 3.7.2019, n. 17785; conf. Cass. 3.7.2019, n. 17786; Cass.7.8.2019, n. 21158; Cass. 21.10.2019, n. 26759; Cass. 11.11.2019, n. 29091; Cass. 11.11.2019, n. 29092; Cass. 21.4.2020, n. 7977; Cass. 21.4.2020, n. 8162; Cass. 24.4.2020, n. 8163; Cass. 28.4.2020, n. 8262, Cass. 12.5.2020, n. 8800; Cass. 12.5.2020, n. 8802; Cass. 14.5.2020, n. 8950; Cass. 14.5.2020, n. 8952; Cass. 18.5.2020, n. 9093) che ha, dunque, mutato il precedente orientamento, statuendo che dalle retribuzioni spettanti al lavoratore da parte del datore (non più cedente), che abbia effettuato un trasferimento di
azienda dichiarato illegittimo e che abbia senza motivo legittimo rifiutato di ripristinare il rapporto con il lavoratore (non più ceduto) e, quindi, di ricevere le sue prestazioni, non è detraibile quanto lo stesso dipendente abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l’attività prestata in favore dell’utilizzatore (non più datore cessionario).

La persuasività di tale soluzione esegetica deriva dal fatto che, prima della pronuncia di primo grado accertativa della nullità della cessione d’azienda, sussiste ancora il fatto illecito determinato dagli atti di trasferimento del lavoratore senza il suo consenso ex articolo 1406 c.c., mentre, dopo la sentenza, è fatta chiarezza circa la nullità ex tunc di tale passaggio e così, antecedentemente alla decisione, deve essere risarcito il danno con le retribuzioni perdute, considerate quale lucro cessante, con detrazione dell’aliunde perceptum, mentre, dopo la stessa, è ristabilita la situazione legittima e la relazione giuridica può normalmente svolgersi tra le parti, essendo restaurata la lex contractus e, dunque, il versamento delle retribuzioni non deriva da un risarcimento per fatto illecito, ma costituisce semplicemente esecuzione del rapporto giuridico in essere tra le parti.

Cosicché, qualora il datore di lavoro impedisca la prestazione al dipendente e questi lo costituisca in mora, il primo non è liberato per la propria obbligazione retributiva, nonostante ormai l’impossibilità dell’esecuzione delle mansioni a proprio favore da parte del lavoratore, secondo i principi di cui agli articoli 1206 e ss. cc.

Non si tratta, dunque, di una fattispecie risarcitoria dovuta a un fatto illecito di natura contrattuale o extracontrattuale, quanto piuttosto dell’esecuzione e dell’adempimento del rapporto contrattuale di lavoro, secondo la disciplina tipica delle obbligazioni. Dovendosi, dunque, qualificare come di natura retributiva le somme dovute, nulla è detraibile a titolo di aliunde perceptum con riguardo agli emolumenti percepiti dal lavoratore dalla (…) .

Quanto finora argomentato viene, poi, ad escludere che la giurisprudenza abbia individuato una ipotesi di “astreinte”, essendo per quanto esposto evidentemente differente l’inquadramento giuridico.

Nemmeno, poi, può indurre a conclusioni differenti il richiamo alla disciplina della tutela reale in materia di licenziamento, dovendosi, allo scopo, innanzitutto, far proprie le seguenti motivazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 29/19
(che, a propria volta, ha argomentato rammentando la decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 2990 del 7 febbraio 2018) “secondo le Sezioni unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell’ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l’efficacia dei rimedi
che l’ordinamento appresta per il lavoratore.

Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione.

Nella ricostruzione delle Sezioni unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all’area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte, relative alle conseguenze dell’illegittima apposizione del termine (art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro”).

Infatti, come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, “in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva” (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto).

Da tali princìpi le Sezioni unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l’obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell’originario rapporto di lavoro.

In questa prospettiva, riveste un ruolo primario l’accertamento del giudice, che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella sua forza cogente dal protrarsi dell’inosservanza.

Al profilo processuale fa riscontro, sul versante sostanziale, la particolare pregnanza dei diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro. Tali diritti non si esauriscono nel rimedio risarcitorio, ma includono anche il diritto alla controprestazione, in consonanza con i princìpi generali del diritto delle obbligazioni, che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguono anche in quest’àmbito un’essenziale funzione di tutela”.

Si aggiunga a ciò come appaiano diverse le fattispecie paragonate, considerato come, con la tutela reale in seguito a licenziamento, il lavoratore abbia anche il beneficio – perdurante anche nell’attuale disciplina di cui al dlgs. n. 23/15 – di optare per 15 mensilità aggiuntive in luogo della reintegrazione, con protezione che, dunque, appare maggiore rispetto a quella di chi ottenga l’accertamento della nullità della cessione del ramo d’azienda e del proprio rapporto di lavoro, laddove non sussiste alcun simile “diritto di opzione”.

Tale maggior protezione per il dipendente insita nell’articolo 18 SL, da un lato, viene a giustificare, in un bilanciamento, al contempo, il trattamento deteriore della medesima fattispecie, laddove consente la detrazione dell’aliunde perceptum anche dopo la sentenza di accertamento dell’illegittimità del recesso e a fronte della mancata esecuzione dell’ordine di reintegrazione e, dall’altro, viene a far qualificare tale figura giuridica come “eccezionale e derogatoria”, nell’impostazione del nuovo orientamento in analisi.

In questo senso, potendosi concepire la ragione della differenza di trattamento delle due fattispecie, non si reputa possibile sollevare una questione di costituzionalità, in quanto appare manifestamente infondata.

La logica sopra espressa, poi, che consente di reputare persuasive le pronunce del nuovo orientamento, non permette, ugualmente, alcuna eccezione di incostituzionalità neppure sotto altri profili, risultando ognuno assorbito nella presente motivazione, ivi incluso quello ex art. 36 Cost., non essendovi motivi per dubitare che la retribuzione dei distinti rapporti in questione, in ciascuno di essi, sia conforme a tale norma.

Inoltre, non può essere ritenuta convincente neppure l’eccezione della opponente che vorrebbe l’applicazione della disciplina di cui all’articolo 1180 cc in materia di adempimento del terzo o, in alternativa, di cui all’articolo 27, comma due, del decreto legislativo n. 276/03.

Si deve, infatti, osservare come, nella specie, dopo la pronuncia di accertamento della nullità della cessione del ramo d’azienda, la cessionaria che mantenga al proprio servizio il dipendente, mai in realtà alla stessa trasferito, venga a costituire un rapporto di fatto ex articolo 2126 c.c., totalmente differente da quello di diritto con la cedente (come sopra già argomentato) e viene, perciò, a corrispondere la retribuzione per compensare la prestazione svolta a proprio favore e non ad assolvere l’obbligazione di un terzo, ossia della cedente, differente e autonoma.

Non c’è, pertanto, alcun adempimento del terzo, ossia del cessionario a favore di un rapporto obbligatorio in capo alla cedente.

Per questo, ugualmente, non sussiste neppure alcun versamento indebito ex art. 2036 cc.

Nemmeno, poi, si può ritenere assimilabile la fattispecie a un’ipotesi di distacco.

Infatti, in primo luogo tale provvedimento avrebbe implicato, innanzitutto, la riammissione della parte ricorrente negli organici della (…) e, in secondo luogo, una chiarificazione di quale fosse l’interesse concreto della stessa, di tipo lecito, che giustificasse tale scelta, disponendo l’art. 30 del dlgs. n. 276/03 che “l’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o piu’ lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.

2. In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore (…)”

Inoltre, ha chiarito la Suprema Corte che “la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all’assunzione del lavoratore e l’effettivo beneficiario della prestazione (fattispecie cosiddetta di distacco o di comando), in forza del principio generale che si desume dall’art. 2127 cod. civ. e dalla legge n. 1369 del 1960 – che esclude che un imprenditore possa inserire a tutti gli effetti un proprio dipendente nella organizzazione di altro imprenditore senza che il secondo assuma la veste di datore di lavoro -, è consentita soltanto a condizione che continui ad operare, sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante, sì che il distacco realizzi uno specifico interesse imprenditoriale che consenta di qualificare il distacco medesimo quale atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso” (cfr. Cass. Sentenza n. 11363 del 17/06/2004; Sentenza n. 16165 del 18/08/2004; Sentenza n. 7743 del 07/06/2000).

Perciò, occorre osservare, da un lato, come non risulti formalizzato un atto di riammissione negli organici della menzionata società per il periodo di causa e nemmeno, parimenti, un successivo provvedimento di distacco e, dall’altro, come nel ricorso della (…), ma nemmeno in nessun altro atto separato, sia stato chiarito quale fosse l’interesse di tipo concreto di quest’ultima alla dislocazione del dipendente presso la (…) dopo la sentenza di nullità dell’operazione ex articolo 2112 c.c..

Anche l’esistenza di un negozio di appalto tra le due società, del resto, non viene a chiarire tale interesse, in quanto, nella fattispecie, l’appaltatore gestisce autonomamente, con propri mezzi e organizzazione, secondo i principi propri della materia, il contratto affidato e, dunque, non si comprende quale interesse potesse avere la (…) ad integrare con la parte opposta gli organici della (…) in un momento in cui, peraltro, si era accertato che non aveva affatto ceduto il ramo d’azienda.

Nessun altro interesse di tipo concreto risulta dalla memoria e, pertanto, non si può ritenere esistente una fattispecie di distacco.

Si aggiunga, ancora, come alcuna assimilabilità appare esservi tra il caso in questione e la fattispecie per interposizione fittizia di manodopera che giustifica l’applicazione dell’articolo 27, comma due, del decreto legislativo n. 276/03.

Infatti, non si può non rilevare come, in quest’ultima ipotesi, vi sia un solo rapporto di lavoro da imputarsi all’utilizzatore e non vi sia alcuna relazione giuridica, nemmeno di diritto, con il somministrante illecito e come tale figura possa, dunque, essere stata legittimamente qualificata, per i versamenti del somministrante, come adempimento del terzo e come estensione dell’articolo 1180 cc.

Viceversa, quella per cui è causa, come già argomentato, prevede due distinti rapporti di lavoro (quello di diritto con il cedente e quello di fatto con il cessionario) e ciascun datore deve far fronte alle proprie obbligazioni, non potendo trovare applicazione alcuna il meccanismo previsto dall’art. 27, comma 2, cit..

Da ultimo, si precisi come non appaiono esservi dubbi circa la legittimità della costituzione in mora del 26.11.19 della (…) (di cui al doc. 4 della fase monitoria).

Pertanto, ogni somma per il periodo dal settembre 2023 al settembre 2024 risulta dovuta dovendosi confermare il decreto ingiuntivo opposto.

Quanto alle spese di lite, sono regolate, come da dispositivo, secondo il principio della soccombenza, tenendo conto del valore, della natura e della durata della causa.

P.Q.M.

1. Respinge il ricorso in opposizione al decreto ingiuntivo RG n. 2722/2024 del 17 novembre 2024 emesso dal Tribunale di Milano – Sezione Lavoro, che conferma.

2. Condanna la opponente a rimborsare alla parte opposta le spese di lite, che si liquidano complessivamente in Euro 3500, oltre il 15% per spese forfettarie e oltre IVA e CPA e contributo unificato, se versato e dovuto, con distrazione a favore del procuratore antistatario.

Fissa il termine di 60 giorni per il deposito della sentenza. Così deciso in Milano 1 luglio 2025.

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2025.

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