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Tribunale di Ivrea, 07/01/2019, n. 6

Massima

In tema di indennizzo per nullità matrimoniale ai sensi dell’art. 129 bis c.c., la domanda di risarcimento del danno deve essere respinta qualora non sussistano congiuntamente i presupposti di legge.

Supporto alla lettura

CAUSE DI INVALIDITA’ DEL MATRIMONIO CIVILE

L’invalidità del matrimonio civile consegue al mancato rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge, tale difetto comporta la dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio da parte dell’autorità giudiziaria.

Disciplinate dagli artt. 117-129 bis c.c., si dividono in cause di nullità cause di annullabilità.

Il matrimonio è nullo quando manca un requisito essenziale. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e si verifica nel caso di:

  • matrimonio tra persone già coniugate (bigamia);
  • matrimonio tra parenti in linea diretta o tra fratelli e sorelle;
  • matrimonio contratto tra persone una delle quali è stata condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra.

L’annullabilità si verifica quando il matrimonio è valido ma presenta vizi che ne permettono l’annullamento su richiesta di una delle parti, le cause principali sono:

  • incapacità del coniuge al momento del matrimonio (art. 120 c.c.):
    • minore età senza autorizzazione;
    • interdizione per infermità mentale.
  • errore sull’identità o sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c.):
    • es. se un coniuge ignora che l’altro sia sterile o abbia commesso reati gravi;
  • matrimonio contratto per timore (art. 122 c.c.):
    • se un coniuge si sposa per una minaccia grave.

L’azione per far dichiarare nullo o annullabile un matrimonio viene presentata dinanzi al tribunale ordinario; quella di nullità assoluta può essere promossa da chiunque abbia interesse, senza limiti di tempo; quella di annullabilità deve essere promossa entro un termine specifico (generalmente 1 anno dalla scoperta del vizio). Se il tribunale accoglie la domanda, il matrimonio viene dichiarato nullo con efficacia retroattiva (ex tunc), come se non fosse mai stato celebrato.

Le principali conseguenze della dichiarazione di invalidità del matrimonio sono:

  • perdita della qualità di coniuge (riacquisto della libertà di stato);
  • cessazione degli obblighi coniugali (i coniugi cessano di avere diritti e doveri reciproci);
  • effetti sui figli: i figli nati da un matrimonio nullo conservano lo stato di figli legittimi (art. 128 c.c.);
  • perdita dei benefici economici (cessazione dei diritti ereditari, cessazione della eventuale comunione coniugale, nullità delle donazioni fatte nell’ambito del matrimonio);
  • perdita del rapporto di affinità con i parenti dell’ex coniuge.

Il matrimonio celebrato in chiesa e poi trascritto nei registri civili, secondo le regole del matrimonio concordatario, può essere dichiarato nullo per mancanza dei presupposti previsti dal diritto canonico per la validità del sacramento matrimoniale. L’invalidità del matrimonio concordatario si definisce come nullità dello stesso, infatti il Tribunale ecclesiastico non “annulla” il matrimonio ma si limita a verificare l’eventuale nullità del matrimonio sin dall’origine. L’accertamento della nullità è effettuata dal Tribunale Ecclesiastico, competente in base alle regole del diritto canonico.

Ambito oggettivo di applicazione

MOTIVI DELLA DECISIONE

All’odierno giudizio è applicabile l’art. 58, comma II, legge 18 giugno 2009 n. 69 e, per l’effetto, la stesura della sentenza segue l’art. 132 c.p.c. come modificato dall’art. 45, comma 17, della legge 69/09, con omissione dello “svolgimento del processo” (salvo richiamarlo dove necessario o opportuno per una migliore comprensione della ratio decidendi).

(omissis) ha introdotto il presente contenzioso al fine di sentir condannare l’ex coniuge (omissis) al risarcimento del danno ex art. 129 bis c.p.c.

A sostegno della domanda l’attore ha rappresentato di aver contratto matrimonio concordatario con la convenuta in data 25.09.2010 e di essersi separato di fatto dalla moglie nel 2012, richiedendo al Tribunale di Torino la separazione personale, pronunciata con sentenza depositata il giorno 08.01.2015.

L’attore, inoltre, ha dedotto di aver richiesto al Tribunale Ecclesiastico Regionale Piemontese di pronunciare la nullità del matrimonio canonico per grave difetto di discrezione di giudizio e/o incapacità di assumere gli oneri coniugali da parte della convenuta e che tale domanda è stata accolta dal Tribunale Ecclesiastico con sentenza definitiva depositata il 4.5.2015, confermata dal Tribunale Ecclesiastico Lombardo con decreto 24.9.2015.

(omissis), dunque, allegando come la nullità del matrimonio sia imputabile alla condotta della convenuta, affetta da disturbo delirante di gelosia, ha invocato l’accoglimento delle conclusioni richiamate in epigrafe.

Si è costituita in giudizio (omissis) contestando le avverse domande, chiedendone il rigetto.

All’udienza del 24.01.2018 il Giudice, dopo aver sentito in interrogatorio libero le parti ed aver sollecitato una definizione conciliativa della controversia, ha formulato ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. la seguente proposta conciliativa: ” pagamento da parte della convenuta in favore dell’attore della somma omnicomprensiva di Euro 6.000,00; reciproca restituzione dei beni indicati nella missive richiamate nel verbale di udienza; con spese di lite compensate e rinuncia agli atti del giudizio ed alle reciproche azioni formulate”; (omissis) ha dichiarato di accettare la proposta, mentre l’attore ha insistito nella domanda formulata rappresentando come la somma non fosse satisfattiva del danno subito.

Respinte le istanze istruttorie, la causa, istruita mediante acquisizione documentale, è stata trattenuta in decisione all’udienza indicata in epigrafe con i termini di cui all’art 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusivi.

Preliminarmente deve essere confermata l’ordinanza del 28.06.2018 con la quale sono state respinte le istanze istruttorie formulate dalle parti, con particolare riguardo alla richiesta di ammissione delle prove orali, per le ragioni di seguito esplicitate.

Sempre in via preliminare deve essere dichiarata cessata la materia del contendere con riguardo alla domanda spiegata dall’attore volta a ottenere la restituzione di “una serie di effetti personali e beni rimasti nella casa coniugale”, atteso che le parti nel corso del giudizio (cfr. verbale di udienza del 24.01.2018; dichiarazione parte convenuta del 06.02.2018), anche all’esito della proposta conciliativa e di scambio epistolare tra i legali, hanno dichiarato di aderire alle reciproche richieste di restituzione dei beni personali. A ciò si aggiunga come la domanda, risulti formulata in termini generici sia rispetto alla causa petendi azionata, non essendo in alcun modo indicato il titolo in forza del quale si chiede la restituzione, sia con riferimento alla esatta individuazione dei beni i quali non sono richiamati nell’atto introduttivo, laddove si fa esclusivo riferimento ad un mero elenco esterno. Del resto proprio in ragione della adesione alla proposta nei termini indicati, la domanda non è stata ulteriormente coltivata nel corso delle memorie istruttorie.

Venendo al merito, la domanda di parte attrice è infondata e deve essere respinta.

Giova prendere le mosse dall’esame dell’art. 129 bis c.c., rubricato “responsabilità del coniuge in mala fede e del terzo”, il quale dispone che “il coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio è tenuto a corrispondere all’altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto”.

Per l’applicazione della norma, che secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente introduce una ipotesi speciale di responsabilità civile e di danno c.d. “punitivo”, è richiesta la sussistenza dei seguenti presupposti: a) la malafede del coniuge; b) l’imputabilità della causa di nullità del matrimonio al coniuge in malafede; c) la buona fede dell’altro coniuge; d). la sussistenza di una causa di nullità del matrimonio.

La giurisprudenza ha affermato che per l’applicabilità dell’art. 129 bis c.c. sono necessari, con riguardo al coniuge obbligato, la mala fede – intesa come conoscenza della causa invalidante – e l’imputabilità, allo stesso coniuge, della causa da cui deriva l’invalidità del vincolo. La mala fede non può essere apprezzata esclusivamente in senso soggettivo (conoscenza della causa di invalidità del matrimonio), ma anche nell’accezione oggettiva (comportamento contrario ai doveri di lealtà e correttezza). Deve essere accertata, dunque, non solo la riferibilità oggettiva della causa d’invalidità al coniuge e la sua consapevolezza certa o probabile di essa, ma anche la circostanza che egli abbia posto in essere un comportamento, commissivo od omissivo, contrario al generale dovere di correttezza, il quale abbia contribuito alla celebrazione del matrimonio nullo (cfr. Cass., 18.4.2013, n. 9484; Cass. 2864/1984; Cass. 1826/1980). Del pari, in tema di nullità di matrimonio, l’art. 129 bis c.c., sebbene formulato lessicalmente in modo diverso dall’art. 139 cod. civ. (che commina una sanzione penale al coniuge che, conoscendo prima della celebrazione una causa di nullità, l’abbia lasciata ignorare all’altro), comprende, nella sua portata più ampia, anche l’ipotesi disciplinata da quest’ultima norma. Pertanto, per l’affermazione della responsabilità in questione e, prima ancora, della imputabilità richiesta, non è sufficiente la pura e semplice riferibilità oggettiva della causa di invalidità, e neppure la consapevolezza di essa, occorrendo, invece, oltre alla consapevolezza di quei fatti che vengono definiti invalidanti, anche quella della loro attitudine invalidante, mentre la prova di tale consapevolezza e del comportamento omissivo o commissivo del responsabile, incombe secondo le regole generali, su chi afferma l’esistenza di tale imputabilità (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 4953 del 27/04/1993). Il fondamento della responsabilità prevista dal primo comma dell’art. 129 bis c.c. a carico del soggetto passivo del rapporto risiede nel fatto che egli, al momento della celebrazione del matrimonio, sia stato consapevole dell’esistenza della causa che ne ha determinato la nullità, ovvero nel fatto che il soggetto cui è imputabile (riferibile) tale causa di nullità sia stato in malafede circa l’esistenza anzidetta (cfr. Cass. civ. Sez. I, 16-11-2005, n. 23073; Cass. civ. Sez. I, 13/01/1993, n. 348).

Con precipuo riguardo alla posizione del coniuge in buona fede, al fine di riconoscere l’indennità prevista dall’art. 129 bis c.c. è necessario che il medesimo ignorasse la causa di invalidità al momento della celebrazione del matrimonio. Si è, infatti, più volte affermato che la buona fede, pur presunta, sia esclusa non solo dalla effettiva conoscenza, ma pure dall’ignoranza colpevole quando il coniuge – usando l’ordinaria diligenza – avrebbe potuto avvedersi della causa di nullità. Anche ai fini della responsabilità del coniuge in malafede cui sia imputabile la nullità del matrimonio, è necessario che la situazione invalidante si risolva in un atteggiamento psichico rimasto confinato nella sfera soggettiva del responsabile e da questi non esternato in alcun modo idoneo a renderla percepibile, dall’altro coniuge, con l’uso della ordinaria diligenza (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 4649 del 19/07/1986; Cass. 4495/85; Cass. 2855/84, Cass. 2688/84; Cass. 1225/83; Cass. 5026/82;). In tal senso non è stata ritenuta incolpevole l’ignoranza della malattia mentale di un coniuge affetto da una sindrome depressiva che non poteva sfuggire ad una persona con un minimo di diligenza (T. Napoli 28.11.1986; Corte d’Appello Bari, 04/07/2001).

Riassumendo, dunque, i presupposti necessari per l’applicabilità dell’art. 129 bis c.c. (norma con funzione solidaristica ed al tempo stesso sanzionatoria) sono, con riguardo alla posizione del coniuge obbligato, la mala fede – intesa come conoscenza della causa invalidante – e l’imputabilità, allo stesso coniuge, della causa da cui deriva l’invalidità del vincolo, mentre, con riguardo alla posizione del coniuge beneficiario, è richiesta la buona fede, ovvero la mancata conoscenza e conoscibilità, con un minimo di diligenza, della causa di nullità.

Facendo applicazione dei predetti principi al caso di specie, deve escludersi la sussistenza di entrambi i presupposti richiamati ovverosia sia la mala fede della convenuta sia la buona fede dell’attore.

Quanto a quest’ultimo requisito giova osservare come il (omissis) abbia riconosciuto dinnanzi al Tribunale Ecclesiastico, con valenza sostanzialmente confessoria, di avere avuto piena cognizione dei comportamenti della futura moglie connotati da una gelosia sostanzialmente “patologica” già prima della celebrazione delle nozze e, tuttavia, nonostante una conoscenza sostanzialmente breve che durava da non più di nove mesi, non ha inteso assumere diverse determinazioni, mantenendo ferma la determinazione di sposarla (cfr. pagina 8 della sentenza “le cose cambiarono 2/3 mesi prima della nozze, quando An. cominciò a dimostrare una forte gelosia che allora intesi come sana. Era gelosa quando in un locale pubblico mi capitava di chiedere informazioni a qualche donna che in quel locale stava lavorando oppure quando (omissis) notava che tra me e altre donne si incrociassero degli sguardi. Questo provocava delle forti litigate anche se io cercavo di convincere (omissis) delle mie rette intenzioni”;). Del pari, la madre della convenuta, (omissis), sentita dal Tribunale Ecclesiastico, ha confermato come l’attore avesse già manifestato prima della celebrazione delle nozze forti perplessità in ragione dell’eccesso di gelosia della futura moglie (cfr. pagina 9 della menzionata sentenza “E’ vero che (omissis) mi diceva della gelosia di (omissis) ed io non sapevo bene cosa consigliare. Lo invitavo a pazientare…”).

A ciò si aggiunga come per stessa ammissione dell’attore i comportamenti della moglie durante il matrimonio “continuavano ad essere eccessivi”, senza poter affermare che le forme di gelosia già emerse in precedenza abbiano assunto una diversa forma e soprattutto che le medesime non fossero già ampiamente note e percepibili. Ulteriore riscontro al riguardo si rinviene nel decreto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo d’Appello del 02.10.2015 laddove si evince che gli episodi di gelosia si fossero manifestati nella loro concreta gravità già prima delle nozze, richiamando al riguardo quello definito “clamoroso” di Milano in via Montenapoleone.

A fortiori si osservi come lo stesso (omissis) abbia ammesso dinnanzi al Tribunale Ecclesiastico di aver intrattenuto una relazione extraconiugale “in concomitanza” con la decisione di separarsi, tentando di riversare sul comportamento della controparte la causa di tale decisione (“la nostra vita intima è andata spegnendosi proprio per i comportamenti di (omissis) e le conseguenti discussioni. Non avevo più desiderio di mia moglie e questo provocava in lei nuove accuse di infedeltà nei miei confronti”). Tale comportamento violativo dei doveri coniugali è stato accertato anche in sede di giudizio di separazione personale dei coniugi dal Tribunale di Torino, il quale ha respinto la domanda di addebito esclusivamente per l’assenza di prova del nesso di causa tra la relazione extraconiugale e la crisi del matrimonio. Può affermarsi, dunque, come l’attore con il proprio comportamento abbia quanto meno contribuito ad acuire quella che è emersa essere una vera e propria patologia della moglie, accertata dal perito nominato dal Tribunale Ecclesiastico quale “disturbo delirante tipo gelosia (DSM – IV)”.

Ciò posto deve escludersi la sussistenza in capo al (omissis) della buona fede richiesta per il riconoscimento dell’indennizzo ex art. 129 bis c.c. atteso che il medesimo avrebbe potuto avvedersi, usando l’ordinaria diligenza, della status della futura moglie, senza che a tale fine fosse necessaria una preventiva diagnosi. In proposito giova ribadire come la Suprema Corte abbia affermato in fattispecie analoghe a quella che ci occupa che la buona fede è incompatibile con la colpevole ignoranza che si verifica ogniqualvolta chi sospetta l’esistenza di una causa d’invalidità ometta di accertarsene prima della celebrazione del matrimonio e presuppone che la situazione invalidante si risolva in un atteggiamento psicologico non esternato dal responsabile in qualsiasi modo idoneo a renderla riconoscibile all’altra parte, attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza (cfr. Cass. civ. Sez. I, 19/07/1986, n. 4649; Cass. civ. Sez. I, 6 marzo 1996, n. 1780; Cass. civ. Sez. I, 24/08/1990, n. 8703). Il requisito della buona fede dell’altro coniuge, da presumersi fino a prova contraria, si identifica nella incolpevole ignoranza della specifica circostanza per la quale, nella concreta vicenda, è stata pronunciata la nullità (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9484 del 18/04/2013; Cass. sez. I sentenza 1780 del 1996).

La domanda di parte attrice deve essere respinta anche per l’insussistenza in capo alla convenuta della mala fede richiesta dall’art. 129 bis c.c.

Come sopra ricordato il requisito della imputabilità al coniuge in malafede della causa di nullità non va intesa, formalisticamente, come riferita direttamente al vizio che determina la nullità in oggetto ma, in senso sostanziale, come riferita ai comportamenti e alle circostanze inerenti al soggetto che, quali cause remote, hanno a loro volta provocato, costituendone il presupposto, il vizio in oggetto. Per giungere all’affermazione della responsabilità occorre non solo un obbiettivo nesso eziologico bensì l’attribuibilità soggettiva che, senza identificarsi con l’elemento psicologico delle fattispecie penali previsti dagli artt. 139 c.c. e 558 c.p., giustifichi detta responsabilità quanto meno sotto il profilo della consapevolezza del fatto invalidante e dell’omesso rifiuto di contrarre matrimonio.

Il Tribunale Ecclesiastico, nel pronunciare la nullità del matrimonio, ha integralmente recepito gli approdi cui è giunto il perito nominato, dott.ssa (omissis), la quale ha accertato come la convenuta sia affetta da “una alterazione di personalità ascrivibile a un disturbo delirante tipo di gelosia (DSM IV), concludendo che la medesima proprio a causa del predetto disturbo fosse incapace di assumere gli obblighi essenziali delle nozze.

Alla medesime conclusioni è giunto anche il Tribunale Civile di Torino il quale, nel motivare il rigetto della domanda di addebito formulata dal (omissis), ha osservato come non fosse “possibile affermare che la crisi debba essere imputata ad un comportamento colpevole della ricorrente essendo risultato provato che l’atteggiamento di gelosia citato è dovuto ad una patologia psichica da cui la stessa parte risulta essere affetta”.

Del medesimo tenore si appalesano le conclusioni cui giunge il Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo d’Appello il quale, nel confermare la decisione resa dal Tribunale di prime cure, ha ritenuto che la condotta della convenuta sfugge al controllo della volontà proprio in ragione della patologia di cui la suddetta è affetta.

Tutte le decisioni richiamate, dunque, concordano nell’escludere che la (omissis) fosse, al momento della celebrazione del matrimonio, consapevole dell’esistenza della causa che ne avrebbe determinato la nullità, di talchè deve escludersi che la convenuta, proprio a cagione dalla patologia riconosciuta, abbia posto in essere volontariamente un comportamento, commissivo od omissivo, contrario al generale dovere di correttezza, il quale abbia contribuito alla celebrazione del matrimonio nullo.

L’indennità prevista dall’art. 129 bis c.c., che assume sia natura risarcitoria (cfr. sul punto Cass. 1990 n. 8703) sia un carattere marcatamente sanzionatorio, in quanto spettante anche in difetto di prova del danno sofferto, deve necessariamente presupporre la sussistenza di un comportamento imputabile quanto meno sotto il profilo della colpa al coniuge, non potendo essere riconosciuta a fronte di una mera correlazione di tipo eziologico. A tali conclusioni è giunta la giurisprudenza di legittimità laddove ha affermato che ai fini del riconoscimento della relativa indennità, deve essere accertata non solo la riferibilità oggettiva della causa d’invalidità al coniuge e la sua consapevolezza certa o probabile di essa, ma anche la circostanza che egli abbia posto in essere un comportamento, commissivo od omissivo, contrario al generale dovere di correttezza, il quale abbia contribuito alla celebrazione del matrimonio nullo (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9484 del 18/04/2013). In altri termini, il giudizio di responsabilità si traduce in una valutazione sulla conformità ai doveri di lealtà e correttezza della condotta del coniuge (e, dunque, sulla sussistenza o meno della mala fede in capo allo stesso in termini sia soggettivi che oggettivi), nonchè sull’incidenza causale di tale condotta rispetto alla celebrazione del matrimonio invalido. Peraltro, al fine di individuare la nozione di “imputabilità” sottintesa dalla norma, è stato rilevato in dottrina come occorra considerare quale causa (di nullità) imputabile non già quella, di significato formale, in cui si concretizza il vizio che determina la nullità appunto del matrimonio, bensì quella, di significato sostanziale, che è all’origine del vizio medesimo o che è il presupposto di questo, benchè non direttamente rilevante agli effetti dell’annullamento dello stesso matrimonio, dal momento che, se si accogliesse il punto di vista formale, considerando causa della nullità (come nella specie) l’errore del coniuge sulle qualità personali dell’altro coniuge, la norma contenuta nel primo comma del già citato art. 129 bis c.c. dovrebbe essere intesa nel senso di escludere ogni possibilità di tutela nei riguardi del soggetto che può trovarsi nelle condizioni di fatto per poter invocare in proprio favore gli effetti della buona fede, ovvero il coniuge vittima dell’errore, così restringendo l’ambito di applicazione della disposizione in parola fino ad escludere le ipotesi di nullità del matrimonio per errore appunto (cfr. in termini Cass. sentenza 16.11.2005, n. 23073).

Nel caso di specie, se è certamente vero che la patologia accertata dal Tribunale Ecclesiastico non ha determinato l’incapacità d’intendere e volere della convenuta al momento della celebrazione del matrimonio, è altrettanto vero che, come già condivisibilmente osservato dal Tribunale di Torino in sede di giudizio di separazione, la disfunzione ha inciso fortemente sulla capacità di autodeterminarsi della donna, trovandoci al cospetto di “una condotta che sfugge al controllo della volontà” (cfr. Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo d’Appello 02.10.2015). Ciò posto, risultano insussistenti nel caso di specie entrambe le condizioni più sopra individuate: la mala fede o conoscenza, al momento della celebrazione delle nozze, della causa determinante la nullità (elemento soggettivo) e l’imputabilità, da intendersi come riferibilità al soggetto della condotta o della situazione che costituisce la causa ultima, sostanziale, determinante la nullità del matrimonio (elemento oggettivo).

Le spese di lite del presente giudizio devono essere poste, in ragione del principio della soccombenza, a carico dell’attore anche in ragione dell’ingiustificato rifiuto espresso alla proposta conciliativa, e sono liquidate, in applicazione dei parametri di cui al D.M. n. 55/2014, così come aggiornati dal D.M. 37/2018, tenuto conto della natura delle questioni trattate, dell’assenza di istruttoria orale e dello scaglione relativo al valore della domanda (Euro 1.500,00 per la fase di studio, in Euro 1.100,00 per la fase introduttiva, Euro 1.200,00 per la fase istruttoria ed Euro 1.500,00 per la fase decisoria, oltre al rimborso forfettario delle spese generali, oneri previdenziali e fiscali).

P.Q.M.

Il Tribunale di Ivrea in composizione monocratica, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pronunciando sulla causa civile recante n. 2371/2017 R.G., così provvede:respinge la domanda di risarcimento del danno ex art. 129 bis c.c. spiegata da (omissis) nei confronti di (omissis);

condanna (omissis) al pagamento delle spese di lite che si liquidano in Euro 5.300,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario nella misura del 15%, C.A. ed IVA come per legge.

Così deciso in Ivrea, il 7 gennaio 2019

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