(omissis)
osserva in fatto:
con ricorso ai sensi dell’art. 38 D. Lgs. n. 198/2006 depositato in data 22.3.2018 (omissis) conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Bari, in funzione di Giudice del Lavoro, la (omissis) in persona del legale rappr. p.t., e invocava l’accoglimento delle seguenti conclusioni: ““Voglia il Tribunale adito, per i motivi esposti, disattesa ogni contraria istanza, argomentazione e richiesta: 1) Dichiarare discriminatorio il criterio selettivo di cui alla disposizione n. 55/2006, nella parte in cui prevede, quale requisito per l’assunzione, la statura minima di 1,60 mt., senza distinguere tra il sesso dei concorrenti. 2) Per l’effetto dichiarare illegittima l’esclusione della ricorrente per “deficit staturale” e dichiarare il diritto della ricorrente ad essere assunta alle dipendenze della (omissis) per essere adibita a mansioni di Capo Treno/ Capo ServizioTreno. 3) Per l’effetto ancora, ordinare quindi alla convenuta l’immediata assunzione a tempo indeterminato della ricorrente e la sua adibizione alle mansioni Capo Treno/Capo Servizi Treno. 4) Condannare, altresì, la società convenuta al pagamento del risarcimento del danno patrimoniale in favore della ricorrente nella misura pari a tutte le mensilità di retribuzione dovute a far data dalla esclusione sino a quella dell’effettiva assunzione, ovvero nella misura maggiore o minore ritenuta di giustizia. 5) Condannare, infine, la società convenuta al pagamento del risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. in favore della ricorrente, commisurato alle retribuzioni per il periodo intercorrente tra l’esclusione e la assunzione, ovvero in quella misura maggiore o minore ritenuta di giustizia che il Tribunale riterrà dovuta in applicazione di differenti criteri di calcolo, quand’anche a determinarsi in via equitativa. 6) Con vittoria di spese e competenze del presente giudizio, da distrarsi in favore del sottoscritto procuratore che se ne dichiara anticipatario.”.
Con memoria ritualmente depositata la (omissis) in persona del legale rappr. p.t. (d’ora innanzi, per brevità, anche società), si costituiva in giudizio, eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione passiva della società, l’inammissibilità del ricorso ex art. 38 d.lgs. n. 198/2006, e argomentando, nel merito, in ordine alla legittimità dell’operato datoriale; invocava, pertanto, il rigetto della domanda, con vittoria di spese di lite.
osserva in diritto:
Con riferimento all’eccezione preliminare di difetto di legittimazione passiva sollevata della resistente, il Giudicante osserva che la società deduce come la sua condotta costituisca adempimento di una regola eteroimposta, per cui le doglianze della ricorrente avverso la pretesa discriminazione avrebbero dovuto dirigersi non verso di essa, bensì contro l’(omissis) e/o verso il Gestore della infrastruttura ferroviaria nazionale (v. pag. 7 della memoria di costituzione e argomentazioni esplicitate nelle note autorizzate).
Tale impostazione non può essere condivisa.
Invero, come può agevolmente evincersi dalla lettura complessiva del ricorso, l’oggetto principale della domanda è costituito dalla richiesta di affermazione del diritto della ricorrente ad essere assunta a tempo indeterminato da (omissis) con mansioni di capotreno/capo servizio treno. Rispetto a tale domanda, dunque, la postulata natura discriminatoria del criterio selettivo adottato dalla società in merito all’altezza minima dei concorrenti rappresenta un mero accertamento incidentale. Essa è infatti l’antecedente logico sul quale si basa la presunta condotta illegittima della società, perché è dalla natura discriminatoria del criterio “eteroimposto” (per usare la stessa terminologia adoperata dalla resistente) che discende la connotazione oggettivamente discriminatoria anche del comportamento tenuto dall’azienda, che non ha assunto la ricorrente proprio perché ella non raggiungeva la statura prescritta. Il ricorso è stato pertanto correttamente proposto nei riguardi del soggetto dal quale la ricorrente pretende di ottenere il “bene della vita” cui aspira, ossia – come detto – l’assunzione a tempo indeterminato. La società e non già l’(omissis) oppure il Gestore della infrastruttura ferroviaria nazionale è quindi il soggetto munito di legitimatio ad causam. Si tratta infatti del soggetto che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, è in linea astratta individuabile come il destinatario degli effetti della pronuncia richiesta (sulla nozione di legitimatio ad causam e sulla distinzione tra detta nozione e quella di titolarità del rapporto controverso v. per tutte Cass. 6160/00 e, più di recente, Cass. sez. un. 2951/16).
Venendo ora all’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 38 del d.lgs. n. 198 del 2006 per difetto di un “comportamento” avente natura discriminatoria, si rileva che secondo la società, la nozione di “comportamento” cui si riferisce l’art. 38 cit. appare sintomatica della necessità che l’azione datoriale sia connotata da discrezionalità, sicché è ammessa tutela solo quando la condotta risulti arbitraria e determini in concreto un’ingiustificata differenziazione in peius della donna rispetto all’uomo. Nel caso di specie, invece, il diniego all’assunzione opposto alla ricorrente sarebbe – sempre secondo la prospettazione della società – il frutto non già di un comportamento, bensì di un doveroso adeguamento di (omissis) a norme regolamentari adottate da soggetti che, in diversi tempi, sono stati preposti ad attività legate alla verifica e sicurezza della circolazione (v. pag. 8- 9 e ss. della memoria di costituzione e argomentazioni esplicitate nelle note autorizzate).
La tesi non convince.
Infatti, le discriminazioni contro cui è ammessa tutela ai sensi dell’art. 38 del d.lgs. n. 198 del 2006 sono quelle descritte dall’art. 25 dello stesso d.lgs. Esso definisce come “discriminazione diretta” «qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in esse-re un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole di-scriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga», puntualizzando che si ha “discriminazione indiretta” «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri metto-no o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che ri-guardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, pur-ché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari». Il legislatore ha dunque accolto una nozione amplissima di discriminazione. In essa difatti ricadono non soltanto meri comportamenti materiali, ma anche disposizioni (termine dall’accezione assai lata idoneo a ricomprendere ogni previsione di carattere generale applicabile ad una serie indefinita di casi) ovvero altre situazioni (quali mere prassi o patti) che prescindono del tutto dal margine di discrezionalità con cui agisce il soggetto che pone in essere la discriminazione stessa. Giustamente in dottrina si è rimarcato come le due nozioni di discriminazione cui si è fatto cenno (ossia quella diretta e quella indiretta) sia connotate dal loro carattere oggettivo, ossia dal fatto che il pregiudizio arrecato prescinde dall’elemento dell’intenzionalità.
Risulta quindi del tutto arbitrario sostenere – come invece pretende di fare la società – che, siccome nella specie (omissis) non ha fatto altro che adeguarsi doverosamente a disposizioni impartite da altri, la denunziata discriminazione non sarebbe configurabile ad imis e, pertanto, il ricorso volto a rimuoverla sarebbe inammissibile.
Venendo ora al merito della controversia, il Giudicante osserva che l’oggetto di causa si incentra sulla questione relativa alla possibile natura discriminatoria delle clausole di bandi di concorso che stabiliscono requisiti minimi di altezza è stata in più occasioni vagliata dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Ebbene, in materia, vale rammentare che, con sentenza n. 163 del 1993, la Corte costituzionale ha affermato il principio secondo cui «la previsione di un’altezza minima identica per gli uomini e per le donne – quale requisito fisico – per l’accesso ad un pubblico concorso, viola il principio di eguaglianza, vuoi in quanto presuppone erroneamente l’insussistenza della considerevole diversità di statura mediamente riscontrabile tra gli uomini e le donne, vuoi in quanto comporta una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, che risultano in concreto svantaggiate in misura proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in relazione a differenze antropomorfiche statisticamente riscontra-bili e obiettivamente dipendenti dal sesso». La vicenda da cui era scaturita la rimessione della questione di legittimità aveva ad oggetto l’accesso al posto di addetto al servizio antincendi della Provincia di Trento, per il quale era stata individuata dall’art. 4 della l.p. n. 3 del 1980 un’altezza di m. 1,65. Nella menzionata pronuncia la Consulta ha osservato che, fermo restando che per tali mansioni non è irragionevole richiedere una certa “prestanza fisica”, «nel condizionare la partecipa-zione al concorso pubblico … al possesso del requisito fisico di una determinata statura minima, identica per gli uomini e per le donne, il legislatore provinciale ha individuato come destinataria del precetto normativo conte-stato una generalità di cittadini, senza distinguere all’interno della categoria le persone di sesso femminile da quelle di sesso maschile. Tale classificazione risponde evidentemente a una valutazione legislativa che è basata su un presupposto di fatto erroneo, vale a dire l’insussistenza di una statura fisica mediamente differenziata tra uomo e donna, ovvero è fondata su una valutazione altrettanto erronea, concernente la supposta irrilevanza, ai fini del trattamento giuridico (uniforme) previsto, della differenza di statura fi-sica ipoteticamente ritenuta come sussistente nella realtà naturale. Nel primo caso, la violazione del principio di eguaglianza, stabilito dall’art. 3, primo comma, della Costituzione, è indubitabile, per aver il legislatore classificato una categoria di persone in relazione a caratteristiche fisiche non rispondenti all’ordine naturale, avuto presente che il fine obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di selezionare l’accesso al posto di lavoro sulla base di criteri attinenti alla statura fisica. Non meno evidente è la violazione dello stesso principio costituzionale nel secondo caso: in quest’ultima ipotesi, infatti, l’aver previsto un requisito fisico identico per l’uno e per l’altro sesso sul presupposto della irrilevanza, ai fini dell’accesso al posto di lavoro, della diversità di statura fisica tra l’uomo e la donna – mediamente consistente, come risulta da rilevazioni antropometriche, in una differenza considerevole a sfavore delle persone di sesso femminile – comporta la produzione sistematica di effetti concreti proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso femminile, proprio in ragione del loro sesso. In altri termini, l’adozione di un trattamento giuridico uniforme – cioè la previsione di un requisito fisico per l’accesso al posto di lavoro, che è identico per gli uomini e per le donne, – è causa di una “discriminazione indiretta” a sfavore delle persone di sesso femminile, poiché svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in considerazione di una differenza fisica statisticamente riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso» (cfr. punto 5 della motivazione).
Facendo proprie tali affermazioni di principio la Corte di Cassazione ha a sua volta statuito che, qualora in una norma secondaria sia prevista una statura minima identica per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza perché presuppone erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne e comporta una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, il giudice è tenuto ad apprezzarne incidentalmente la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni (v. Cass. 23562/07, con la quale è stata cassata con rinvio la decisione della corte territoriale che si era limitata a ritenere, ai fini dell’assunzione alla (omissis) il requisito dell’altezza minima di m. 1,55 – previsto nel d.m. n. 88 del 1999, identico per uomini e donne – una garanzia sia per l’incolumità del personale in servizio sia per la sicurezza degli utenti, senza accertare a quali mansioni l’attrice potesse adeguata-mente attendere nonostante l’altezza fisica inferiore rispetto a quella richiesta). In linea con tale affermazione di carattere generale la Corte ha confermato la sentenza di merito con cui era stato accertato che, dalla disamina dei compiti in cui si concretizza la qualifica di “addetto di stazione” in base al c.c.n.l. di categoria, non erano ravvisabili ragioni che giustificassero la necessità di un’altezza minima, sotto il profilo della sicurezza dell’utenza e degli agenti addetti al servizio di trasporto (v. Cass. 234/12, relativa peraltro alla stessa vicenda scrutinata da Cass. 23562/07).
In una fattispecie analoga a quella in esame, la Suprema Corte ha ribadito che, qualora in una norma secondaria sia prevista una statura mini-ma in relazione alle mansioni da espletare, il giudice ordinario può apprezzarne incidentalmente la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni. In applicazione del ribadito principio la Corte ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva escluso, per le mansioni di “capo servizio treno”, la necessità di rispettare l’altezza minima di m. 1,60 richiesta dal d.m. 18 settembre 1986, dichiarando il diritto all’assunzione di una vincitrice di concorso, esclusa unicamente per la statura inferiore rispetto a quella richiesta (v. Cass. 25734/13; in senso conforme v. anche la più recente Cass. 26866/17, con la quale è stata confermata la decisione di merito con cui era stata accolta la domanda di parte attrice volta ad ottenere l’affermazione del suo diritto all’assunzione con mansioni di “operatore di stazione”, previo riconoscimento – e quindi disapplicazione – della natura indirettamente discriminatoria delle disposizioni che prevedevano un limite staturale).
In applicazione dei menzionati principi occorre dunque verificare se, in concreto, il limite di statura richiesto dal bando per l’assunzione sulla scorta delle disposizioni vigenti in materia sia funzionale rispetto alle mansioni cui sarebbe addetta la ricorrente qualora fosse assunta e, in particolare, se quest’ultima sarebbe in grado di svolgere, ed eventualmente con quali limiti, i compiti rientranti nella qualifica di pertinenza.
A tale scopo si può fare riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, elaborata dal Dott. (omissis) disposta in altro giudizio (n.r.g. 8/2016) analogo al presente promosso da (omissis) alta 156 cm. (ovverosia la medesima altezza che (omissis) attribuisce alla odierna ricorrente cfr. pag. 2 del verbale di udienza del 19/06/2018), alta invero 158 cm. Ebbene, le emergenze peritali innanzi riportate possono essere utilizzate nel presente procedimento per ragioni di economia processuale, non essendo necessario disporre autonoma CTU, trattandosi di controversie gemelle aventi ad oggetto mansioni e parametri di statura analoghi. L’utilizzabilità di tale atto, peraltro, è pacifica, atteso che il giudice, per la formazione del proprio convincimento, è libero di utilizzare anche le prove raccolte in un diverso processo svoltosi tra le stesse o (addirittura) tra altre parti, una volta che la relativa documentazione sia stata esibita dalla parte interessata secondo le regole dell’allegazione (v. tra le tante Cass. n. 422/1989).
Ebbene, il dott. (omissis) specialista in medicina del lavoro, dopo aver raccolto i dati clinici e antropometrici della ricorrente nel sopra indicato giudizio e aver fatto eseguire alla parte alcune prove funzionali su due tipologie di treno ed aver dettagliatamente esaminato le mansioni appartenenti alla qualifica di Capo Treno/Capo Servizi Treno prevista dal c.c.n.l. di settore – è giunto alle seguenti conclusioni: «Sulla scorta delle considerazioni effettuate, si può motivatamente affermare che la statura della sig.ra (omissis) pari a cm 156 in assenza di calzature, consente di svolgere tutte le operazioni rientranti nel profilo professionale di (omissis) così come descritte nel c.c.n.l. di riferimento ad eccezione dell’apertura del rubinetto di isolamento pneumatico della porta di salita di treni a breve percorrenza. Si segnala che tale compito è svolto sporadicamente, a treno fermo e può essere ausiliato agevolmente mediante un piccolo rialzo di pochi gradini, motivo per cui il rischio di ricadute rilevanti sulla sicurezza dei viaggiatori e del treno può motivatamente ritenersi basso».
Ora, a fronte di tali granitiche conclusioni, la società nel presente giudizio afferma che “… È stato provato documentalmente che vi sono alcune mansioni tipiche del profilo di Capo Treno/Capo servizio Treno le quali o non possono essere affatto eseguite, o non possono essere tecnicamente eseguite in condizioni di sicurezza da parte di colui (uomo o donna) che abbia una statura inferiore a quella di cui si discute. Circostanza questa che, tra l’altro, è stata confermata dalla CTU depositata da controparte. Nella stessa, infatti, viene ad esempio riconosciuto che per “l’apertura del rubinetto di isolamento pneumatico della porta di salita di treni a breve percorrenza” un soggetto con altezza inferiore a 160 cm ha necessita di un ausilio (“rialzo”) e che, benché “basse”, ciò potrebbe comportare il rischio di ricadute sulla sicurezza dei viaggiatori. ….” (cfr. pag. 2, penultimo capoverso, seconda parte, Note (omissis) datate 24/09/2018).
Le avverse asserzioni sono destituite di fondamento.
In primo luogo è bene sottolineare che, nel presente giudizio, la società non ha dimostrato né provato alcun elemento sulla base del quale poter affermare che un (omissis) di statura inferiore a cm. 160 (nel nostro caso della statura di cm. 158) non possa svolgere le mansioni tipiche del proprio profilo professionale. Il mero richiamo alle misure antropometriche del personale di accompagnamento treni (cfr. doc. 14 resistente) si rivela irrilevante data la natura massimamente generica ed indicativa del documento in questione, che come tale non è utilizzabile quale fonte di prova.
In secondo luogo, le argomentazioni della società risultano nettamente smentite dalle risultanze peritali acquisite agli atti. Invero, il dott. (omissis), con valutazione accurata ed esaustiva, ha affermato che: “… Da quanto esposto se ne deduce che la statura della sig.ra … consente di svolgere tutte le operazioni rientranti nel profilo professionale di Capo Treno / Capo Servizi Treno così come descritte nel c.c.n.l. di riferimento, fatta eccezione per l’apertura del rubinetto di isolamento pneumatico della porta di salita treni a breve percorrenza. Considerata la concreta impossibilità di attendere allo stesso compito da parte di lavoratori con medesimi rapporti corporei e di altezza inferiore a cm 180, si ritiene che l’impedimento possa considerarsi del tutto marginale rispetto alle mansioni svolte dal profilo professionale di Capo Treno / Capo Servizio Treno, sia perché di sporadico accadimento, ma anche perché ausiliabile mediante un piccolo rialzo di pochi gradini (la manovra si svolge a treno fermo con scarso impatto sulla sicurezza del treno)”.
Quindi ha concluso come segue:
“… Sulla scorta delle considerazioni effettuate, si può motivatamente affermare che la statura della sig.ra …., pari a 156 cm in assenza di calzature, consente di svolgere tutte le operazioni rientranti nel profilo professionale di Capo Treno / Capo Servizio Treno così come descritte nel c.c.n.l. di riferimento ad eccezione dell’apertura del rubinetto di isolamento pneumatico della porta di salita di treni a breve percorrenza. Si segnala che tale compito è svolto sporadicamente, a treno fermo e può essere ausiliato agevolmente mediante un piccolo rialzo di pochi gradini, motivo per cui il rischio di ricadute rilevanti sulla sicurezza dei viaggiatori e del treno può motivatamente ritenersi basso”.
Torniamo ora alla sopra riportata osservazione di parte resistente relativa al fatto che l’apertura del rubinetto di isolamento pneumatico della porta di salita di treni a breve percorrenza non può essere compiuta dalla ricorrente, il che dimostrerebbe che il limite staturale previsto non è discriminatorio, ama anzi sarebbe necessario perché – sempre secondo la tesi dell’azienda – l’operatore, indipendentemente dal sesso, deve avere un’altezza tale da consentirgli di raggiungere agevolmente ogni comando necessario per l’espletamento delle sue mansioni, rimarcando peraltro che la sicurezza ha un valore assoluto e non certamente relativo.
Ebbene, l’osservazione non persuade.
Innanzitutto, lo stesso consulente ha precisato – senza che sul punto siano state sollevate obiezioni di sorta – che, sulla scorta della distanza riscontrata, l’operazione in esame «non potrebbe espletata nemmeno da un soggetto di altezza pari a cm 160, essendo richiesta un’altezza orientativamente non inferiore a cm 180 per un soggetto con stessi rapporti corporei» (v. pag. 8 della relazione).
Questo rilievo disvela in modo lampante l’irragionevolezza – e quindi la portata oggettivamente discriminatoria – del limite staturale stabilito, posto che neppure una persona che sia in possesso dell’altezza minima richiesta potrebbe compiere l’operazione indicata dal consulente. È quindi del tutto illogico sostenere che il rispetto di tale soglia minima d’altezza sia indispensabile per garantire la sicurezza del trasporto. in secondo luogo, ragionando nel senso prospettato dalla resistente si giungerebbe a ritenere che la necessità del rispetto di tale limite sia in re ipsa, semplicemente perché imposta dalle ricordate fonti normative (in senso ampio) esterne. Accogliendo la tesi della società, cioè, il limite è da considerarsi ragionevole soltanto perché è proprio quello indicato dalle disposizioni vigenti in materia. L’oggetto dell’indagine che il giudice di meri-to è tenuto a compiere – sulla scorta dei principi interpretativi sopra menzionati – attiene, invece, proprio alla verifica della intrinseca ragionevolezza delle disposizioni dettate al riguardo da tali fonti regolamentari (v. soprattutto Cass. 25734/13, in motivazione). Nella specie, come già osservato, detto limite di 160 centimetri è privo di ragionevolezza, atteso che anche un soggetto che sia in possesso della statura minima richiesta non potrebbe compiere almeno una delle operazioni rientrante fra i compiti del capo treno (cioè, come rilevato dal c.t.u., l’apertura del rubinetto di isolamento pneumatico della porta di salita di treni a breve percorrenza).
Da quanto osservato discende che la Disposizione n. 55 del 2006, nella parte in cui impone il limite staturale di 160 cm per lo svolgimento dell’attività di Capo Treno/Capo Servizi Treno (e che risulta richiamata nel certificato di inidoneità) si palesa irragionevole, perché si tratta di un requisito non funzionale rispetto alle mansioni che il Capo Treno/Capo (omissis) è chiamato ad espletare. Essa è, pertanto, indirettamente discriminatoria, in quanto stabilisce un limite identico per uomini e donne ponendo queste ultime in situazione di svantaggio in misura maggiore rispetto agli uomini a causa di differenze antropomorfiche legate in modo oggettivo al sesso (cfr. nello stesso senso Trib. Bari n.17/2018 e C. App. Bari n. 1863/2019).
Questa disposizione va quindi disapplicata.
A riprova della bontà delle argomentazioni sinora espresse, si richiama la recente sentenza emessa Corte di Cassazione – Sez. Lavoro n° 3196/2019 depositata in data 04/02/2019, avente ad oggetto una fattispecie identica a quella sottesa all’odierno giudizio (le difese rassegnate da (omissis) in quel giudizio appaiono sovrapponibili a quelle opposte dalla società nel presente giudizio, come facilmente evincibile dalla lettura dei 4 “motivi della decisione” menzionati a pag. 2 della sentenza. Si ritiene utile riportare i passaggi motivazionali salienti di detta pronuncia che questo Giudice condivide e fa propri: “…. Essi (i primi due motivi di ricorso) sono infondati. 5.2. E ciò a parte alcuni aspetti di inammissibilità per violazione del principio di specificità prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, sotto i profili di: … E’ noto come le discriminazioni, fondate sul sesso, definite “indirette” si distinguano da quelle dirette. Ed è stato ancora recentemente ribadito (Cass. 5 aprile 2016, n. 6575) che soltanto le disposizioni, i criteri o le prassi che integrino le prime possono, in forza dell’art. 2, n. 2, secondo trattino della direttiva n. 76/207/CEE, evitare la qualifica di discriminazione, a condizione che siano “giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il (loro) conseguimento siano appropriati e necessari” (D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2), mentre una siffatta possibilità non è prevista per le disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette, al sensi dell’art. 2, n. 2, primo trattino, di tale direttiva (Corte giustizia UE 18 novembre 2010, procedimento C-356/09). Sotto il profilo probatorio, il D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40, nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità, non stabilisce poi (tanto per le discriminazioni dirette, che indirette) un’inversione dell’onere, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, …. nel caso di specie, la Corte capitolina ha ritenuto, come già il Tribunale, che il limite staturale di160 cm. prescritto, …. nella procedura di assunzione di personale con qualifica di Capo Servizio Treno, … costituisca appunto una discriminazione indiretta, ….., siccome non oggettivamente giustificato, nè comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni comportate dalla suddetta qualifica … Nella suddetta valutazione, essa ha esattamente applicato il principio di diritto, secondo cui, in tema di requisiti per l’assunzione, qualora in una norma secondaria sia prevista una statura minima identica per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza, perchè presupponga erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne e comporti una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni (Cass. 13 novembre 2007, n. 23562; in termini: Cass. 15 novembre 2013, n. 25734, con affermazione della valutazione in concreto, ai fini della disapplicazione, della funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni; Cass. 14 dicembre 2017, n. 30083)… E ciò sulla base di un apprezzamento in concreto del non avere “l’azienda”, come “avrebbe dovuto” secondo l’onere probatorio a suo carico sopra illustrato, provato “la rigorosa rispondenza del limite staturale alla funzionalità e alla sicurezza del servizio da svolgere” (così al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza), a dimostrazione di una congrua giustificazione della statura minima in riferimento alle mansioni comportate dalla qualifica. Sicchè, la Corte territoriale ha compiuto un accertamento incensurabile in sede di legittimità, di sindacato di ragionevolezza nell’individuazione e disapplicazione della norma discriminatoria indiretta, nel caso di specie rispettato ….”.
Ancora, vale citare Cass. 11 settembre – 29 ottobre 2019, n. 27729 che ha confermando la sentenza resa dalla Corte d’Appello di Roma in data 29.12.2016 nel contraddittorio fra la (omissis) e (omissis) pronuncia che aveva “disapplicato la normativa secondaria in tema di minimi staturali rilevandone la irragionevolezza avuto riguardo alla funzionalità del requisito prescritto in riferimento alle concrete mansioni di Capo Servizio Treno” e aveva “richiamato, in particolare, i principi in tema di non discriminazione e imparzialità nell’ambito del diritto pubblico e, nell’ambito del diritto privato, la necessità di conformare la condotta al criterio di correttezza e buona fede, nello specifico insussistente per la rilevata irragionevolezza della prescrizione relativa al requisito minimo statutario”; ha ritenuto tale decisione “del tutto coerente con la giurisprudenza” di legittimità “in tema di sindacato incidentale con conseguente disapplicazione della normativa secondaria ove, come nel caso di specie, ritenuta non conforme alla norma primaria ( v. per un’applicazione del principio con riferimento ai minimi staturali prescritti per l’assunzione, Cass. n. 25734 del 2013, Cass. n. 23562 del 2017)” (allo stesso modo, la Corte di Appello di Bari ha definito precedenti controversie analoghe: A) sentenza 23.9.2014 tra la (omissis) e la Dott.ssa (omissis) Consigliera di Parità della (omissis) nella qualità di rappresentante di (omissis) B) sentenza 6.5.2019 fra la s.p.a. (omissis) e (omissis).
Orbene, la disapplicazione della sopra citata disposizione implica innanzitutto che la ricorrente ha diritto ad essere assunta alle dipendenze di (omissis) per essere adibita a mansioni di (omissis).
Orbene, non sfugge al Giudicante che la resistente ha sostenuto che “… non è in alcun modo provato, né per la verità comprovabile, che nel caso in cui non vi fosse stata la predetta dichiarazione di non idoneità, l’attuale ricorrente sarebbe stata assunta…… il fatto che alcuni candidati ritenuti idonei siano stati successivamente assunti, non sta a significare che la ricorrente, se fosse risultata idonea sarebbe stata assunta ….” (pag. 19 ultimo rigo e seguenti memoria difensiva resistente).
Tuttavia si osserva che, a dimostrazione della circostanza per cui la lesione del diritto della ricorrente ad essere assunta non è semplicemente potenziale (trattandosi, come sostiene la resistente, di procedure di selezione di candidati idonei, e non di bando per l’immediata assunzione), bensì si era già concretamente consumata a suo danno, l’istante ha dedotto e provato che, tra gli altri, (omissis) da Molfetta, che sostenne le relative prove selettive nello stesso giorno della (omissis) (data 05/05/2017), già da mesi prima del deposito del ricorso introduttivo risultava assunto alle dipendenze di (omissis) con la qualifica di (omissis) (cfr. doc. 10, fascicolo parte ricorrente profilo pubblico del “social” Facebook).
Da tanto consegue, nei confronti della resistente, l’ordine di assunzione dell’istante con le mansioni di Capo Treno – Capo Servizi Treno.
Perché sia piena la tutela della concorrente ingiustamente estromessa, bisogna munire la stessa di un titolo giudiziario esecutabile e, quindi, idoneo a procurare l’immissione nel posto e in servizio.
Ulteriore sviluppo del medesimo discorso è che alla ricorrente devono riconoscersi, mediante pronuncia condannatoria, anche le retribuzioni previste dal CCNL di categoria dalla data della notifica del ricorso introduttivo di lite alla data di questa pronuncia, oltre alla rivalutazione monetaria, secondo l’indice (omissis) e agli ulteriori interessi legali dalla maturazione di ciascuna mensilità sino al soddisfo.
Invero, il danno economico, lamentato dalla lavoratrice con il ricorso introduttivo del presente giudizio, da un lato, è diretta conseguenza dell’inadempimento della (omissis) avente come oggetto il posto di lavoro, spettante alla (omissis) ma illegittimamente non assegnato; dall’altro, ben può essere parametrato all’importo del salario mensile non percepito per un fatto illegittimo ascrivibile alla società ferroviaria.
Quanto all’indicata decorrenza della condanna risarcitoria, si precisa che è quella della data della notifica alla soc. (omissis) del ricorso d’urgenza ex art. 38 d.lgs. 11.4.2006, n. 198 contenente una chiara offerta della prestazione lavorativa.
Con riferimento, poi al capo di domanda avente ad oggetto la condanna della società alla corresponsione del risarcimento del danno non patrimoniale, si osserva quanto segue.
In linea di principio, “il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); … (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice” (Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972).
Alla stregua di tale criterio di cernita, pur se la fattispecie dedotta in questa controversia rientra nel novero di quelle innominate sub c), la risarcibilità del danno morale promana dal divieto costituzionale di distinzioni basate sul sesso (art. 3, 1° comma, Cost.).
Tuttavia, altro è la risarcibilità del danno morale in astratto e per categorie, altro è la spettanza in concreto di un risarcimento, non potendosi ritenere che il ristoro si immedesimi con la lesione del diritto, sino a configurare un vero e proprio danno punitivo.
Bisogna che consti anche un effettivo pregiudizio in termini di sofferenza personale e/o di disagio sociale, con il corollario che l’onere di allegare tale componente necessaria e di provarla incombe alla parte istante.
Secondo una classificazione accreditata, il danno morale deriva da una sofferenza interiore, intesa, in particolare, come dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione.
E’, pertanto, ostativa all’accoglimento della domanda della (omissis) la circostanza che parte attrice nulla di significativo ha dedotto e ha fatto risultare al riguardo.
Per di più, la specifica vicenda litigiosa, in quanto connotata da una forma di discriminazione – come si è detto – soltanto oggettiva, non presenta apprezzabili aspetti di offensività individuale.
In altre parole, l’esclusione della ricorrente dalla gara concorsuale è (risultata) giuridicamente illegittima, ma è stata il frutto dell’applicazione, da parte della soc. (omissis), di una disciplina generale, la cui rimozione nella specie è l’approdo di un articolato iter di interpretazione giuridica e di un complesso e dedicato accertamento in fatto.
In ciò non si ravvisa la componente ingiuriosa, che può indurre patimento personale e può condurre al ristoro di un pregiudizio morale (così anche C. App. Bari n. 1863/2019 cit.).
In conclusione, accertata la natura discriminatoria del criterio selettivo che pone, quale requisito per l’assunzione alle dipendenze di (omissis) con qualifica di (omissis) la statura minima di 160 cm senza distinguere tra il sesso dei concorrenti, va dichiarata illegittima l’esclusione della ricorrente per deficit strutturale e va quindi dichiarato il diritto dell’istante ad essere assunta dall’opposta per essere adibita a mansioni di (omissis) e, per l’effetto, va ordinato alla (omissis) di immettere la (omissis) in servizio.
La società, inoltre, va condannata a pagare alla (omissis) le retribuzioni previste dal CCNL di categoria dalla data della notifica del ricorso introduttivo di lite alla data di questa pronuncia, oltre alla rivalutazione monetaria, secondo l’indice (omissis) e agli ulteriori interessi legali dalla maturazione di ciascuna mensilità sino al soddisfo; la domanda attorea va rigettata nel resto.
Le predette considerazioni sono dirimenti ed assorbono ulteriori questioni in fatto o in diritto eventualmente contestate tra le parti.
La liquidazione delle spese, affidata al dispositivo che segue, è effettuata sulla scorta dei parametri di cui al d.m. 10 marzo 2014, n. 55. Per la determinazione del compenso si ha riguardo ai valori medi previsti dalle tabelle allegate al d.m. 55/2014 in relazione alla tipologia di causa (procedimento in materia di lavoro), al valore della controversia (indeterminabile) ed alle fasi in cui si è articolata l’attività difensiva espletata nel presente giudizio (e quindi senza fase istruttoria). Va inoltre liquidata una somma pari al 15% del compenso totale per la prestazione a titolo di rimborso spese forfetarie (art. 2 d.m. 55/14).
Tali sono i motivi della presente decisione.
P.Q.M.
pronunciando sulla domanda proposta con ricorso ai sensi dell’art. 38 del d.lgs. n. 198 del 2006 depositato in data 22.3.2018, da (omissis) nei confronti di (omissis), in persona del legale rappr. p.t., così provvede:
accertata la natura discriminatoria del criterio selettivo che pone, quale requisito per l’assunzione alle dipendenze di (omissis) con qualifica di Capo Treno/Capo Servizi Treno, la statura minima di 160 cm senza distinguere tra il sesso dei concorrenti, dichiara illegittima l’esclusione della ricorrente per deficit strutturale e dichiara il suo diritto ad essere assunta alle dipendenze della opposta per essere adibita a mansioni di Capo Treno/Capo Servizi Treno;
ordina alla (omissis) di immettere la (omissis) in servizio;
condanna la società a pagare alla (omissis) le retribuzioni previste dal CCNL di categoria dalla data della notifica del ricorso introduttivo di lite alla data di questa pronuncia, oltre alla rivalutazione monetaria, secondo l’indice Istat, e agli ulteriori interessi legali dalla maturazione di ciascuna mensilità sino al soddisfo;
rigetta nel resto la domanda;
condanna la resistente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla ricorrente, che liquida in € 5.000,00, oltre rimborso forfetario per spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con distrazione in favore dell’ avv. (omissis).
Si Comunichi.
Bari, 26.1.2021
