RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con decreto del 12.9.22, Ch.Pr. era tratto a giudizio per rispondere dei reati a lui sopra ascritti.
Il Pr. dapprima era collocato agli arresti domiciliari, poi aggravati nella misura carceraria, infine in data 20.2.23 sostituita con l’obbligo di dimora ed il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione.
Nel corso dell’udienza del 15.11.22 era dichiarato aperto il dibattimento ed ammesse le prove come richieste. Nel corso dell’udienza del 13.12.2022 era sentito il teste Fr.Tr.
Le udienze del 24.01.2023 e del 07.02.2013 erano differite per l’assenza del testimone citato. Nel corso dell’udienza del 14.2.23 era sentita Ro.Mo.
L’udienza del 02.05.2023 era differita. Nel frattempo, il processo era assegnato al sottoscritto giudice. Nel corso dell’udienza dell’11.9.2023 si procedeva alla rinnovazione degli atti ma non comparivano i testi della difesa.
Nel corso dell’odierna udienza era sentito l’imputato, quindi compariva citata come testimone Si.Co., madre dell’imputato, che però si avvaleva della facoltà di non rispondere, infine era sentita Le.Te.
Quindi, le parti concludevano come sopra riportato.
La teste Mo. ha premesso di avere avuto una relazione sentimentale con il Pr. dal maggio 2021 al febbraio marzo 2022, periodo nel quale i due convissero. La relazione era burrascosa perché l’imputato assumeva sostanze stupefacenti ed in particolare crack e cocaina mentre la donna aveva una figlia di sette anni che non voleva assistesse al consumo di dette sostanza. Per questo aveva chiesto più volte al Pr. di lasciare l’abitazione, ricevendone il rifiuto; anzi lui la picchiava ogni qual volta gli chiedeva di andare via. Gli episodi di percosse furono numerosi ma due volte furono più gravi.In occasione del secondo, decise di denunciarlo. I maltrattamenti consistevano in spinte e schiaffi ma, non avendo mai riportato lesioni, non si era mai recata al Pronto Soccorso. La donna si era anche sfogato con la Si., madre dell’imputato. La convivenza cessò nel marzo 2022 ma il Pr. Continuò a tormentare la Mo.: una volta, alle ore 3 di notte, entrò in casa dalla finestra; la donna si spaventò ma, chiacchierando e prendendolo “con le buone”, lo indusse ad andare via alle ore 6 del mattino; il giorno dopo, però il Pr. tornò, come se si fosse illuso di potere riprendere la relazione, ma la donna gli spiegò che erano “solo amici” e lui andò via molto innervosito. Dopo la cessazione della convivenza, il Pr. le inviò moltissimi messaggi telefonici, dei quali non ha prova perché l’otto maggio l’imputato le ruppe il telefono. I messaggi erano ingiuriosi e minacciosi, del tenore: “sei una puttana, sei una troia, non vali niente, ti massacro”. La sera del 7 maggio l’imputato le inviò messaggi con minacce ed offese. L’8 maggio l’imputato la vide rientrare in casa con la figli e la bloccò; poi riuscì a tornare in casa e, mentre era al telefono, seduta sul divano, sentì un rumore e si accorse che Pr. aveva sfondato la porta di casa a calci ed era entrato; la raggiunse, le strappò il telefono di mano e lo scaraventò a terra, fracassandolo (per questo, la teste non ha potuto mostrare i messaggi ricevuti). Poi la buttò a terra, la prese per i capelli e cominciò a colpirla, alla presenza della figlia, con calci e pugni. Sopraggiunse la mamma dell’imputato, che abitava nelle vicinanze e poi le forze dell’ordine allertate dai vicini.
In quell’occasione, la donna si recò al Pronto Soccorso, come documentato dal referto del 9 maggio (ore 00:51) acquisito in atti. In sede di controesame, la donna ha ammesso che i litigi, durante la convivenza, erano dovuti anche alla sua gelosia ed a questioni economiche; ha anche riconosciuto che, cessata la convivenza, era infastidita che il Pr. frequentasse altre donne e che l’aveva, a volte, contattato ma solo per chiedergli di andare a riprendere i suoi effetti personali, che aveva lasciato in casa. Ha poi aggiunto che era sempre stata intimorita del Pr., anche per l’abuso che faceva di sostanze stupefacenti ma che aveva capito che la situazione era diventata insostenibile quando era entrato, nottetempo, dalla finestra. Il racconto della donna ha trovato una seria conferma nella deposizione di Fr.Tr., che aveva svolto le indagini successive alla querela della Mo.
Costui si era recato nel luogo ove era successo il fatto ed aveva individuato la presenza di un impianto di videosorveglianza, al servizio di un bed e breakfast, proprio nei pressi dell’ingresso dell’abitazione della donna. Visionarono il filmato e videro la Mo. tornare a casa insieme alla figlia, attorno alle ore 23:27 del 8 maggio; poi giungere l’imputato, attorno alle ore 23.50; quindi, alle ore 00.01 sopraggiungere Si.Co., madre dell’imputato. Videro altresì numerose persone guardare verso la casa della Mo. attirate probabilmente dalle urla che provenivano dall’interno. Nell’annotazione di servizio redatta per l’occasione sono state anche allegate 11 immagini che sono i “frame” più significativi del filmato. In seguito, alle domande del giudice, il teste ha spiegato che alle ore 00.02 si vedeva l’imputato, particolarmente agitato, uscire dall’abitazione della Mo.; poi, alle ore 00.03, tentare di farvi rientro, ostacolato dalla madre che lo tirava a sé con forza; alle ore 00.03 accorrere anche altre persone; alle ore 00.04 l’imputato cercare nuovamente di entrare, riuscendo a divincolarsi dalla presa delle persone che lo trattenevano; alle ore 00:005 uscire di nuovo dall’abitazione; alle ore 00:28 sopraggiungere il persone sanitario del 118.
Il teste ha anche riferito in ordine agli accertamenti svolti sui tabulati telefonici della Mo., dai quali risultavano contatti telefonici fra lei e l’imputato.
La prova della responsabilità dell’imputato discende sostanzialmente dalle parole della Mo.
A tale proposito, si ribadisce il consolidato orientamento della giurisprudenza secondo il quale la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Cass. sez. 5 n. 12920 del 13/02/2020 dep. 24/04/2020). Ed ancora, in tema di valutazione della prova, le dichiarazioni della persona offesa, specie se costituitasi parte civile, non sono assistite da alcuna presunzione di credibilità, con la conseguenza che il giudice deve procedere anche d’ufficio ad una rigorosa e penetrante verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca del racconto accusatorio, che deve essere confrontato con tutti gli altri elementi processuali, non potendo gravare sull’imputato l’onere di provare la falsità della deposizione (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 40849 del 18/07/2012 dep. 17/10/2012). Nel caso di specie la Mo. ha reso, dapprima in sede di querela e poi in sede di esame dibattimentale, una deposizione chiara, coerente, immune da tentennamenti o contraddizioni in sede di controesame. Non ha sottaciuto elementi astrattamente favorevoli all’imputato (come le circostanze che i litigi – durante la convivenza – era dovuti anche alla sua gelosia e che – dopo la cessazione della convivenza – ella continuava ad essere gelosa dell’imputato ed a cercarlo) e dunque non può essere sospettata di avere reso una deposizione aprioristicamente in danno del prevenuto. Inoltre, la donna non si è costituita parte civile, circostanza che esclude possa avere un qualche interesse economico alla condanna del prevenuto, ed addirittura per due volte, citata come testimone, non è comparsa, dimostrando così un disinteresse alla condanna dell’imputato. Proprio dal suo palese disinteresse rispetto all’esito del processo discende la maggiore attendibilità della testimone. Le sue parole poi hanno trovato conferma:
– nel referto del Pronto Soccorso del 9 maggio, che conferma l’aggressione subita fra l’8 ed il 9 maggio;
– nelle immagini dell’impianto di videosorveglianza, che confermano che la notte dell’8 maggio l’imputato fece irruzione nella sua casa.
Del resto, l’imputato non ha reso una spiegazione dei fatti che possa smentire le parole della parte civile o ridimensionarne la natura antigiuridica.
Cosi accertati i fatti, sussistono tutti i reati.
In particolare, sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia, nella frazione del racconto coincidente con il periodo in cui la persona offesa e l’imputato convissero.
La condotta di maltrattamento punita dall’art. 572 c.p. va intesa come un qualsiasi comportamento diretto a provocare nella vittima una sofferenza fisica o morale, con effetti di prostrazione e di avvilimento. Va sottolineato che lo stato di sofferenza e di umiliazione della vittima non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori, ben potendo derivare anche da un clima generalmente instaurato dall’autore del reato, in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi, a prescindere dall’entità numerica degli stessi (Cass. pen. sent. n. 8592 del 2009). Più precisamente, si è chiarito che “il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, ingiurie, lesioni e minacce privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali il reato in esame può essere integrato sia mediante la commissione di condotte costituenti autonome ipotesi delittuose, come tipicamente avviene nel caso in cui la persona offesa subisca lesioni personali, ma anche a seguito di condotte genericamente vessatorie, purchè queste siano in grado di realizzare quello stato di umiliazione ed abituale prostrazione della vittima che tipicamente contraddistingue la nozione stessa di maltrattamenti in famiglia. In tal senso, è stato ribadito anche recentemente che il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che di per sé non costituiscono reato, posto che il termine maltrattare non evoca la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art. 572 c.p.” (Cass. pen. sent. n. 29190/2021).
Trattandosi di un reato abituale, la rilevanza penale della condotta presuppone la sua reiterazione nel tempo, in misura tale da determinare un regime di vita improntato alla sofferenza e alla subordinazione, pur non essendo affatto necessaria la quotidianità della condotta. In particolare, il requisito dell’abitualità di cui all’art. 572 c.p. richiede “il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato arco temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e accordo con il soggetto passivo”, (cfr. Cass. pen., sent. n. 6724 del 2017).
Orbene, l’imputato, alla luce della deposizione della Mo., sicuramente credibile, durante la convivenza durata circa un anno, l’ha sottoposta ad una pluralità di minacce ed ingiurie (quando lei voleva lasciarlo), percosse (in due occasioni stimate “gravi” dalla persona offesa) imponendole la prosecuzione della convivenza ed anche che tollerasse l’uso di sostanza stupefacenti. Si tratta di una miriade di episodi tali da generare un clima di paura, sopraffazione fisica e prostrazione morale che è proprio la condotta penalmente sanzionata a mente della succitata consolidata giurisprudenza. In tale senso, non rileva, quale scusante, la circostanza che a volte i litigi nascessero dalla gelosia della donna ma rileva invece il tenore e l’intensità del litigio e soprattutto che la donna era tanto soggiogata dal non riuscire “a fare andare via di casa” l’uomo. Lo stato di dipendenza da sostanze stupefacenti, lungi da rappresentare una scriminante, al più potrebbe configurare l’aggravante dell’art. 94 c.p.
Alla luce del costante orientamento della Corte di Cassazione, è certo che la condotta del Pr., nella frazione seguente la cessazione della convivenza, integri il reato di cui all’art. 612 bis. c.p.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, “integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis cod. pen. anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale” (Cfr. Cass. pen., sez. V, 3.419.7.2018, n. 33842).
Inoltre, è pacifico che integri la condotta del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di “sms” con messaggi amorosi, ingiuriosi e minatori, veicolati anche a mezzo di plurime telefonate (Cass. pen., sez. V, 9.11.2018-29.3.2019, n. 13800).
Nel caso in esame, dunque, i plurimi messaggi inviati alla persona offesa, l’irruzione notte tempo nella sua casa,) l’aggressione notturna in casa integrano senza dubbio la condotta contestata. Del resto, il filmato della notte fra il 7 e l’8 maggio (nel racconto che ne ha fatto il carabiniere che lo ha visionato) dimostra la insistenza con la quale il Pr. cercava di fare rientro nell’abitazione della Mo., nonostante fosse trattenuto dalla madre e dai passanti.
Sussiste, quale conseguenza della condotta dell’agente, anche l’evento naturalistico richiesto in via alternativa dal legislatore, rappresentato, nel caso di specie, sia dall’aver cagionato nella vittima un perdurante stato di ansia e di paura (riferito in dibattimento dalla Mo. almeno a partire dal momento in cui, di notte, il Pr. si introdusse nella sua abitazione entrando dalla finestra e vi si rimase fino al mattino dopo) sia dall’aver ingenerato nella stessa un fondato timore per la propria incolumità. Sussiste, infine, il reato di lesioni personali consumato fra l’8 ed il 9 maggio e documentato, oltre che dal racconto della Mo., dal referto medico in atti.
Non sono stati allegati elementi per riconoscere le circostanze attenuanti generiche, anzi i precedenti penali censiti precludono il riconoscimento di qualsiasi beneficio.
Tuttavia la condotta processuale consente di non operare l’aumento per la contestata recidiva.
Letti i parametri di cui all’art. 133 c.p., ritenuto che la non eccessiva gravità dei fatti consente di determinare la pene nel minimo edittale, appare congrua la pena di cui al dispositivo (anni 3 di reclusione per il reato sub A, aumentato di mesi 4 di reclusione per il reato sub B e di ulteriori mesi 2 di reclusione per il reato sub C).
All’affermazione di colpevolezza segue l’applicazione della pena accessoria imposta dalla sanzione pecuniaria e la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara Cr.Pr. colpevole dei reati a lui ascritti, uniti dal vincolo della continuazione, e lo condanna alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali e custodiali.
Dichiara Cr.Pr. interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
Così deciso in Bari il 13 novembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2023.
