FATTO
Con l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data 3 novembre 2015 e depositato il successivo 1 dicembre 2015, il ricorrente chiede:
– l’accertamento dell’“illegittimità” del comportamento posto in essere dall’Arma dei Carabinieri nei confronti del predetto, identificato in “attività di mobbing”, e, quindi, del suo diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti;
– la conseguente condanna del Ministero della Difesa a corrispondere, a titolo di risarcimento dei danni, la somma di € 919.986,00 o la diversa maggiore o minore somma che risulterà di giustizia, con condanna, altresì, della già indicata Amministrazione alla pubblicazione della sentenza.
In particolare, il ricorrente afferma di aver subito “numerose vessazioni e ed ingiustizie… con continuità nel corso di oltre venti anni” – e, dunque, anche a seguito della “messa in congedo avvenuta il 12.02.2002 – che hanno determinato “-OMISSIS-”, indicati negli episodi e nei comportamenti di seguito – in sintesi – riportati:
– dopo circa tre anni di servizio prestato presso diverse stazioni dei Carabinieri, nel settembre 1993 iniziava il primo anno della -OMISSIS-ma solo dopo 4 mesi di corso – e, precisamente, in data 21 gennaio 1994 – gli veniva ordinato di recarsi in infermeria ove il Dirigente del servizio sanitario, <<senza alcuna motivazione, gli prescriveva 15 giorni di convalescenza per presunta “-OMISSIS-”>>;
– al suo rientro, ossia in data-OMISSIS-, lo stesso Dirigente gli “ordinava l’immediato ricovero … presso l’Ospedale militare di Roma, per poi essere subito dimesso con dieci giorni di licenza straordinaria per infermità”;
– a seguito di ulteriori visite e “altrettanto immotivate licenze per malattia… sempre con diagnosi molto generiche”, indicate in “un preteso -OMISSIS-”, “mai accompagnate da prescrizioni terapeutiche”, le quali lo costringevano, peraltro, a rivolgersi a proprie spese a strutture sanitarie pubbliche e private, sfociate in certificazioni attestanti “l’assenza di qualsiasi patologia di natura neurologica e/o psichiatrica”, in data 28.03.1994 la Scuola Sottufficiali predisponeva proposta di esonero per “-OMISSIS-” e, nel contempo, per superamento del “limite massimo di assenze dal corso”, mentre il successivo 14.4.1994 procedeva ad adottare un provvedimento di espulsione del predetto dal corso “per inidoneità in attitudine militare”, il quale – in esito alla proposizione di pronta impugnativa – veniva sospeso dal TAR con ordinanza n. 2379/94;
– in virtù di tale ordinanza, “solo a seguito di apposito intimo” veniva riammesso al -OMISSIS-”, da cui era stato estromesso;
– dato conto che i su indicati eventi inducevano il proprio padre, già sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri, a presentare “una denuncia querela alla Procura Militare di Roma” in data 27 giugno 1994, al suo rientro dalla degenza post operatoria, determinata da un intervento in via d’urgenza per “-OMISSIS-”, in data 3 ottobre 1994 veniva giudicato non idoneo per ulteriori 180 gg. “-OMISSIS-…”, giudizio questo che – in quanto non accettato – comportava il successivo invio presso la Commissione Medica di 2° istanza che mutava il periodo di inidoneità in soli 40 gg.;
– al rientro dai 40 gg., l’Ospedale Militare gli prescriveva ulteriori 180 gg. “-OMISSIS-”;
– attesa la mancata accettazione anche di tale giudizio, veniva sottoposto a un nuovo esame dalla Commissione Medica di 2° istanza, la quale lo riconosceva “SI’ IDONEO al servizio militare incondizionato”;
– riammesso al Corso e ricevuta, ancora, una nota con cui, in data 8.6.1995, l’Amministrazione gli comunicava che, entro un tempo strettissimo, avrebbe dovuto sostenere altri quattro esami, prontamente impugnata dinanzi al TAR, con accoglimento dell’istanza cautelare (ordinanza n. 235/96), ottemperata “in maniera” differente da quella dovuta, in data 8.8.1995 otteneva la qualifica di Carabiniere in S.P.E.;
– inviato nel maggio 1996 al -OMISSIS-, veniva assegnato a servizi di competenza dei carabinieri ausiliari;
– con nota inviata al Comando acquirente, il Capo del I Reparto chiedeva di “….. far seguire adeguatamente l’interessato al fine di accertare tempestivamente l’insorgenza dei presupposti per il suo allontanamento definitivo dall’Arma”;
– subito un incidente d’auto in servizio in data 31 luglio 1997, di cui veniva, peraltro, riconosciuta “la dipendenza da causa di servizio” (cfr. parere C.M.O. del 19 gennaio 1999 – doc. n. 29 allegato al ricorso), chiedeva – al rientro in servizio – di essere posto in “forza assente” ma tale istanza veniva respinta, in modo da inibirgli il trasferimento ad altro Comando, “più volte richiesto”;
– a seguito del rientro in servizio, in data 31 gennaio 2018 “veniva denunciato” con il capo d’imputazione di “simulazione d’infermità aggr. Art. 159 47 n. 2 CPMP” e il successivo 7 aprile 2018 gli veniva irrogata la sanzione disciplinare di tre giorni di consegna per aver ottenuto una “sostituzione di servizio” da “superiore non gerarchicamente diretto”;
– nel maggio 1998 l’Amministrazione lo riconvocava a visita medica, a cui non si presentava, sicché la stessa Amministrazione presentava denuncia al Tribunale Militare per “disobbedienza”, sfociata dapprima nella sentenza di condanna n. 200/2003, confermata in appello con sentenza n. 70/2004, poi annullata dalla Corte di Cassazione senza rinvio “perché il fatto non sussiste” con sentenza n. 10927/2005;
– in data 23 maggio 2001 veniva, ancora, denunciato per “-OMISSIS-” e condannato con sentenza n. 133/03 del Tribunale Militare di La Spezia, poi riformata dalla Corte d’Appello Militare con sentenza n. 23/05 “perché il fatto non costituisce reato” (atteso che l’assenza dal servizio era ascrivibile all’ “infermità per causa di servizio”);
– a queste vicende seguivano “un decreto di perquisizione e sequestro” emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo il 31.10.2002 in ordine al “-OMISSIS-” per la mancata consegna dell’equipaggiamento e del tesserino, con successivo sequestro di quest’ultimi ma anche dissequestro degli stessi in pari data (2 novembre 2002) e archiviazione del procedimento penale, e ulteriori denunce per “disobbedienza aggravata” e per il -OMISSIS-, afferente la mancata riconsegna del “documento e dell’equipaggiamento militare”;
– specificamente, in relazione al periodo dal 1998 al 2002 veniva assegnato a servizi “non compatibili con il suo grado” (quale l’“autolavaggio a mano”), richiamato dai riposi e dalle licenze “senza giustificato motivo”, con diversificazione della Compagnia di appartenenza, gli era negato per ben tre volte il “trasferimento” ad altra sede nonché l’avanzamento nel 2000 “al grado superiore” in “quanto imputato per delitto non colposo”;
– precisata la risonanza di tali vicende anche all’esterno e le ricadute negative sulla sua famiglia, in data 12 febbraio 2002 l’Amministrazione adottava provvedimento di collocamento in congedo a causa del mancato riacquisto dell’idoneità fisica al termine dell’aspettativa massima fruibile (730 gg.), prontamente gravata dinanzi al TAR Toscana, il quale emetteva la sentenza n. 1708 del 2014 di improcedibilità per “sopravvenuta carenza di interesse”, “oggi impugnata innanzi al Consiglio di Stato”;
– nonostante la palese illegittimità del provvedimento de quo, l’Amministrazione lo confermava con provvedimento del 10.4.2002, con diniego “di fatto”, tra l’altro, del transito nei ruoli civili;
– anche pratiche semplici come quelle pensionistiche incontravano “impedimenti, mancanze od inefficienze”.
Tutto ciò rappresentato, il ricorrente – precisata la giurisdizione dell’autorità adita, in ragione, tra l’altro, della sentenza del Tribunale del Lavoro n. 2803 del 2011 di declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice adito – ribadisce la “sussistenza di una condotta illegittima, persecutoria e vessatoria posta in essere dall’Amministrazione” e, pertanto, afferma “la sussistenza dell’elemento materiale del mobbing”, comprovata, tra l’altro, dal rilievo che “i procedimenti penali sono stati avviati a seguito di denunce di” suoi “superiori” e “le condanne, non definitive, si sono basate sulle testimoniane dei superiori e dei colleghi dello stesso”, evidenzia “l’esistenza dell’elemento soggettivo”, richiamando – a tali fini – la nota n. 278317/M-3-3 del Capo del 1° Reparto in cui si “richiede ai Comandi della Scuola sottufficiali di Firenze, della Regione Carabinieri Calabria ed all’Ispettorato Scuole Carabinieri di Roma” “… di far seguire adeguatamente l’interessato al fine di accertare tempestivamente l’insorgenza dei presupposti per il suo allontanamento definitivo dall’Arma” e dichiarazioni rese in epoca successiva al 2002, e, ancora, elenca relazioni medico – legali e consulenze tecniche per comprovare i danni riportati a causa delle sofferenze subite per i comportamenti posti in essere dal Comando Generale dell’Arma, quantificati nella somma di € 919.986,00.
In conclusione, il ricorrente chiede a questo Tribunale di:
– accertare l’illegittimità del comportamento posto in essere dall’Arma dei Carabinieri;
– accertare la lesione temporanea e permanente alla sua integrità psico-fisica, riconducibili alle vessazioni e pressioni psicologiche subite;
– condannare il Ministero della Difesa al risarcimento dei danni subiti mediante il richiamo di differenti prescrizioni del codice civile nonché alla pubblicazione della sentenza “su un quotidiano a tiratura nazionale”;
previo espletamento di un’adeguata attività istruttoria, ricomprendente la disposizione di una CTU e l’ammissione di prove testimoniali.
Con atto depositato in data 28 gennaio 2016 si è costituito il Ministero della Difesa.
In data 30 ottobre 2019 il ricorrente ha prodotto documenti.
Il successivo 31 ottobre 2019 anche il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ha depositato documenti.
In data 12 novembre 2019 il ricorrente ha depositato una memoria, tesa essenzialmente a ribadire le gravi vessazioni subite e, conseguentemente, a riaffermare la fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata.
In medesima data anche il Ministero della Difesa ha prodotto una memoria, connotata – in sintesi – dal seguente contenuto:
– in relazione alla partecipazione al corso “allievi sottufficiali”, il ricorrente ha proposto ben 4 (quattro) ricorsi al TAR e, segnatamente:
a) il ricorso n. 11352/94, concernente la “dispensa dall’ulteriore frequenza” dal 46° corso, disposta con provvedimento del 14 aprile 1994, accolto in fase cautelare con l’ordinanza del 29.9.1994;
b) il ricorso n. 13927/95, inerente l’ammissione al 47° corso (adottata in esecuzione dell’ordinanza TAR) e il provvedimento con cui era stato respinto all’esame di “Diritto e tecnica della circolazione stradale”, accolto – del pari – in fase cautelare con l’ordinanza del 22.1.1996, in esito alla quale l’Amministrazione adottava un provvedimento con cui statuiva la sottoposizione del ricorrente a tale esame entro la prima decade del mese di aprile 1996;
c) il ricorso n. 6817/1996, volto all’annullamento del provvedimento di cui sopra, attinente la sottoposizione a tale esame, respinto dal TAR del Lazio con sentenza n. 10845/2013;
d) il ricorso n. 8869/96, proposto per l’annullamento del provvedimento già impugnato con il ricorso n. 6817/1996 e, ancora, della determinazione con cui il ricorrente è stato ritenuto non idoneo al su indicato esame, con rigetto dell’istanza cautelare da parte non solo del TAR ma anche del Consiglio di Stato, respinto con la sentenza n. 10845/2013, già indicata;
– dimesso dal servizio con provvedimento del 10 aprile 2002, il ricorrente impugnava il provvedimento de quo con ricorso straordinario al Capo dello Stato, respinto con decreto del Presidente della Repubblica del 26 novembre 2003, sulla base del parere del Consiglio di Stato n. 830/2003. In relazione a tale decisione proponeva nel 2012 un nuovo ricorso straordinario al Capo dello Stato per chiederne la “revocazione”, dichiarato “irricevibile” con decreto del 25 novembre 2013, sulla base del parere del Consiglio di Stato del 27 gennaio 2013;
– già con atto di citazione notificato in data 11 febbraio 2010 il ricorrente aveva promosso azione per mobbing, sfociata nella sentenza del Tribunale di Roma n. 2803 del 16 febbraio 2013, di dichiarazione di difetto di giurisdizione del giudice adito;
– tutto ciò detto, va rilevato che:
a) ove configurato come atto di riassunzione della causa già incardinata innanzi al giudice del lavoro, la riassunzione non può che essere dichiarata “tardiva” per inosservanza del termine di cui all’art. 50 c.p.c.;
b) ove considerato come ricorso autonomo, “la pretesa sarebbe da respingere in quanto prescritta”;
c) la domanda proposta è, poi, improcedibile, atteso che il giudizio instaurato nel 1994 per l’annullamento del provvedimento di dispensa dalla frequenza del corso è ancora “in attesa della decisione del Consiglio di Stato sull’appello dell’Amministrazione” (ricorso n. 7932/2012);
d) in subordine, la domanda è infondata “nel merito”, atteso che è sufficiente la disamina delle numerose azioni proposte dal ricorrente (indicate in ben 5 ricorsi al TAR del Lazio, un ricorso al TAR Toscana, un giudizio civile e 2 ricorsi straordinari al Capo dello Stato) per affermare “che è stato il medesimo sig. -OMISSIS-, con la sua condotta, a rendere impossibile lo svolgimento di un sereno rapporto di servizio”. In ogni caso, l’Amministrazione – come già dettagliatamente illustrato nella “relazione informativa fornita … in relazione alla identica pretesa avanzata dinnanzi al Tribunale di Roma” – non ha mai assunto un comportamento mobbizzante a danno del ricorrente.
Con “memoria di replica” depositata il successivo 21 novembre 2019, il Ministero della Difesa – dopo avere ampiamente riprodotto parti della decisione del Consiglio di Stato n. 4471 dell’1 luglio 2019, in materia di mobbing – ha nuovamente affermato che il comportamento dallo stesso tenuto “non può essere ritenuto vessatorio e persecutorio nei confronti del sig. -OMISSIS-”, come, tra l’altro, comprovato dalla circostanza che l’adozione di numerosi provvedimenti dell’Amministrazione è ascrivibile proprio alla condotta del ricorrente (rectius: il mancato superamento dell’esame di “Diritto e tecnica della circolazione stradale”, la domanda dallo stesso presentata nel 1996 di esonero da corso “per motivazioni di carattere personale e gravi motivi familiari”, il trasferimento in Toscana “a domanda”, il collocamento in congedo per assenza dal servizio riconosciuto, tra l’altro, pienamente legittimo).
In data 22 novembre 2019 anche il ricorrente ha prodotto una “memoria di replica”, con cui ha affermato l’autonomia del presente giudizio rispetto a quello precedentemente instaurato dinnanzi al giudice ordinario, con conseguente irrilevanza del termine previsto per la riassunzione, ha replicato all’eccezione di prescrizione adducendo che si tratta di illecito permanente protrattosi fino al 2015 e, comunque, affermando l’effetto interruttivo dell’atto di citazione in precedenza notificato, ha sostenuto la carenza di connessione tra il presente giudizio e quello afferente la dispensa dal corso, e, ancora, ha ribadito la fondatezza della pretesa avanzata, rilevando – in particolare e, comunque, a differenza di quanto sostenuto dall’Amministrazione – che la necessità del predetto di adire l’autorità giudiziaria costituisce un ulteriore elemento a supporto del perdurante comportamento vessatorio dal predetto subito.
All’udienza pubblica del 13 dicembre 2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare, il Collegio ravvisa la necessità di esaminare le eccezioni sollevate dall’Amministrazione resistente.
Tali eccezioni sono fondate ai sensi e nei limiti di seguito indicati.
1.1. Come esposto nella narrativa che procede, il Ministero della Difesa eccepisce l’improcedibilità del ricorso in ragione della mancata riassunzione dinanzi al giudice amministrativo del giudizio, inizialmente instaurato dinanzi al giudice ordinario, entro il termine di legge di cui all’art. 50 c.p.c..
Tale eccezione è immeritevole di positivo riscontro, atteso che – come, tra l’altro, espressamente dichiarato dalla parte ricorrente – il ricorso in trattazione si presenta e, pertanto, deve essere correttamente inteso come un atto introduttivo di un nuovo giudizio, autonomo e disancorato dal giudizio di cui sopra.
1.2. Stante l’esito dell’eccezione di cui sopra, chiara si profila la rilevanza che assume l’eccezione di prescrizione, sollevata dall’Amministrazione resistente.
Al riguardo, è doveroso constatare che, nelle conclusioni riportate nell’atto introduttivo del presente giudizio, il ricorrente formula una pluralità di domande di condanna del Ministero della Difesa al risarcimento dei danni subiti, differenti tra loro in quanto basate sul richiamo di una pluralità di previsioni normative, idonee a configurare ipotesi di responsabilità sia contrattuali che extracontrattuali.
Ciò detto, è da ritenere che, in relazione alle domande azionate dal ricorrente ex artt. 2043 e 2049 c.c., l’eccezione di prescrizione sia meritevole di positivo riscontro.
Per quanto attiene alla c.d. responsabilità extracontrattuale, il termine di prescrizione è, infatti, pari a 5 anni. Volendo, pertanto, anche riconoscere effetto interruttivo “istantaneo” della prescrizione alla notificazione dell’atto di citazione dinanzi al Tribunale civile (risalente – secondo quanto indicato dal ricorrente – al 21 dicembre 2009), è da rilevare che, nel caso in trattazione, alla data di proposizione del presente ricorso (ossia, al 3 novembre 2015) tale termine era indubbiamente maturato. Per completezza, è da aggiungere che – in verità – il ricorrente afferma che l’illecito di cui si sarebbe resa colpevole l’Amministrazione, di natura non istantanea, “si protrae ben oltre la data della forzosa messa in congedo del predetto”, risalente al 10 aprile 2002, “concretizzandosi in una serie di condotte vessatorie e persecutorie che si sono continuativamente protratte fino al 2015” (cfr. pagg. 2 e 3 della memoria di replica), dando conto – in relazione al periodo ricompreso tra il 2010 e il 2015 – di eventi essenzialmente afferenti la posizione assicurativa INPS e, segnatamente, dell’avvenuta risoluzione di pratiche amministrative proprio nel corso degli anni in discussione. Ciò detto, il Collegio – soprassedendo in ordine alla disamina di profili afferenti la giurisdizione, anche in ragione del contenuti della sentenza del Tribunale Civile di cui sopra – non solo rileva che la domanda di risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale, ove riferita – appunto – al periodo in questione, risulta connotata da genericità ma osserva, ancora, che le vicende a tali fini rappresentate rivestono una valenza positiva per il ricorrente, sicché non è dato comprendere il “danno” alle stesse effettivamente riconducibile (identificabile – al più – con un eventuale “ritardo” nel provvedere, non propriamente identificabile con il periodo di cui si discute, coinvolgente, tra l’altro, Amministrazioni diverse dal Ministero della Difesa).
Ciò detto, permane da valutare l’eccezione di prescrizione in relazione alla domande di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale del Ministero della Difesa.
Ai fini del decidere, opportuno ricordare che, nella descrizione della propria “vicenda personale”, il ricorrente denuncia ripetutamente di essere stato destinatario di “provvedimenti ritorsivi” nonché di essere stato vittima di continue “-OMISSIS-” e, in generale, di “comportamenti della P.A. di appartenenza, tutti preordinati ad un unico disegno ed intento volto ad indurlo dapprima a rinunciare alla carriera militare e poi, risultati vani tali tentativi, ad espellerlo dall’Arma”, pervenendo ad affermare che “la condotta tenuta dall’Arma dei Carabinieri (superiori gerarchici e colleghi) nei” suoi confronti “configura la fattispecie del mobbing ed in questa sede si intende chiedere il ristoro di tutti i danni subiti dal ricorrente” (cfr. pag. 23 dell’atto introduttivo del giudizio).
Ciò detto, preme precisare che:
– in linea con la giurisprudenza in materia, il “mobbing consiste in una serie sistematica e ripetuta nel tempo di azioni vessatorie, prevaricatorie ed oggettivamente marginalizzanti tenute dal datore di lavoro o dai suoi rappresentanti” (cfr., tra le altre, C.d.S., 14 gennaio 2019, n. 302), essenzialmente riconducibili all’intrinseca situazione di soggezione in cui versa il dipendente e, dunque, strettamente connesse all’immedesimazione organica di esso nella struttura lavorativa in cui opera;
– in altre parole, “integra il mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente in una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’articolo 2087 del codice civile – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (morale, psicologica o fisica)” (C.d.S., Sez. IV, 1 luglio 2019, n. 4471);
– in ragione di quanto riportato, il “danno da mobbing” riveste, dunque, un’inequivoca “natura contrattuale, sicchè “il termine prescrizionale è certamente quello decennale di cui all’articolo 2946 del codice civile” (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. IV, 1 luglio 2019, n. 4471, già cit.).
Preso atto che l’inquadramento teorico del mobbing non può prescindere dall’esistenza e, anzi, necessariamente presuppone un rapporto di impiego e/o lavoro, il Collegio è ragionevolmente indotto a ritenere che – cessato il rapporto di impiego e/o di lavoro – possano anche essere assunte dall’orma “ex” datore di lavoro iniziative che, secondo l’interessato, costituiscono espressione di un intento persecutorio ma, in ogni caso, si tratterà di iniziative inidonee a concretizzare un’ipotesi di “mobbing”, poiché avulse dal rapporto de quo, precisando, ancora, che non vale a condurre ad una diversa conclusione l’eventuale definizione in epoca successiva di giudizi in precedenza instaurati per reagire a provvedimenti dell’Amministrazione ritenuti espressione dell’intento persecutorio alla stessa addebitato nella veste di datore di lavoro, atteso che tali provvedimenti sono ben meritevoli di essere configurati in termini di “elementi di fatto da cui trarre la concreta dimostrazione del mobbing”, validi o, comunque, sufficienti – in quanto tali – a porre l’interessato nella piena condizione di “agire a prescindere dalla definizione” dei giudizi de quibus (cfr. C.d.S., n. 302/2019, già cit.).
Sulla base dei rilievi di cui sopra, il dies a quo per l’attivazione dell’azione proposta dal ricorrente e, quindi, per il decorso del termine prescrizionale deve essere, pertanto, individuato – al più tardi – nel giorno in cui è venuto meno il rapporto di impiego tra quest’ultimo e l’Amministrazione resistente, ossia nel 10 aprile 2002 (data di adozione del provvedimento con cui il ricorrente è stato dichiarato dal Ministero della Difesa “cessato dal servizio per non aver riacquistato l’idoneità fisica al termine del periodo massimo di aspettativa” e, dunque, è stato “collocato in congedo nella categoria della riserva” – cfr., in termini, C.d.S., Sez. IV, n. 302/2019, già cit.).
Prendendo in considerazione tale data e attribuendo, ancora, rilevanza alla notificazione già nel 2009 – e, quindi, entro dieci anni dalla data in trattazione – di un atto di citazione parimenti volto – previo accertamento dell’illiceità del comportamento datoriale e dei colleghi reiterato nel tempo “consistito in attività di mobbing” – alla condanna dell’Amministrazione “al risarcimento dei danni da mobbing”, in veste di atto interruttivo “istantaneo” della prescrizione (non avendo il ricorrente proceduto – come evidenziato anche dall’Amministrazione – alla riassunzione del giudizio ex art. 50 c.p.c. – cfr. Corte di Cass., 18 novembre 2016, n. 23503), l’eccezione di prescrizione si palesa infondata.
Come ricordato dal ricorrente, la giurisprudenza attribuisce – in verità – rilevanza anche al momento della “percepibilità e riconoscibilità del danno nonché della sua correlabilità causale ai fatti di servizio” (cfr., tra le altre, C.d.S., n. 4471 del 2019).
Il Collegio ritiene – comunque – di poter soprassedere in ordine ad indagini afferenti a tali elementi (seppure svariati documenti prodotti agli atti dal ricorrente si prestino a ricondurre la percepibilità de qua ad una data anteriore al 10 aprile 2002), in quanto l’azione proposta è immeritevole di positivo riscontro.
In conclusione:
– l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Amministrazione resistente va accolta in relazione alle domande di risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale, ai sensi e nei termini in precedenza indicati;
– l’eccezione di prescrizione sollevata dalla su indicata Amministrazione in ordine alla domanda di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale va respinta.
1.3. Per quanto attiene, in ultimo, all’eccezione di improcedibilità formulata dall’Amministrazione in ragione della mancata definizione del giudizio instaurato per l’annullamento del provvedimento di dispensa dal “corso”, adottato dall’Amministrazione nel 1994, è da rilevare che quanto in precedenza riportato conduce – di per sé – a ritenere la stessa non condivisibile.
Come già affermato, l’eventuale adozione di provvedimenti ritenuti espressione di “intento persecutorio” costituiscono “elementi di fatto da cui trarre la concreta dimostrazione del mobbing”, validi o, comunque, sufficienti – in quanto tali – a porre l’interessato nella piena condizione di “agire a prescindere dalla definizione” dei giudizi de quibus, con il connesso onere di attivarsi nel rispetto dei termini di legge (fatta salva – in ogni caso – la facoltà, a seguito dell’instaurazione del giudizio volto all’accertamento del “mobbing”, di “sostenere l’esigenza di un accertamento incidentale della natura vessatoria” di tali provvedimenti, ovvero di chiedere la sospensione del giudizio in attesa della definizione di quelli impugnatori” – C.d.S., Sez. IV, n. 302/2019, già cit.).
Da ciò necessariamente consegue che la definizione o meno di giudizi instaurati per reagire a provvedimenti di tale genere si rivela priva di giuridica rilevanza.
2. Così definite le eccezioni sollevate dall’Amministrazione resistente, la disamina “nel merito” della domanda di risarcimento del danno per “mobbing”, formulata dal ricorrente, conduce a ritenere la stessa – come preannunciato – infondata.
Richiamato – in toto – quanto già esposto circa la natura e le peculiarità che connotano il “mobbing”, il Collegio aggiunge che:
– secondo l’orientamento della giurisprudenza in materia, da cui non si ravvisano motivi per discostarsi, “per la sussistenza del mobbing è necessario, … sotto il profilo soggettivo, il dolo del datore di lavoro, da intendersi nell’accezione di volontà di nuocere o infastidire o comunque svilire in qualsiasi modo il proprio dipendente. L’onere della prova dell’animus nocendi – anche se suscettibile di essere soddisfatto mediante presunzioni fondate sulle caratteristiche dei comportamenti tenuti dal datore di lavoro -, grava sul dipendente, pur facendosi valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale. In particolare, la ricostruzione giurisprudenziale del mobbing richiede alla vittima di provare il dolo del mobber (v. Cass. civ., sezione lavoro, sentenza 8 gennaio 2016, n. 158, secondo cui l’onere probatorio deve ritenersi assolto quando sia stata offerta la prova dell’«esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio»);
– in particolare, ai fini della configurabilità del mobbing, sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (cfr. Cass. civ., sezione lavoro, sentenze 6 agosto 2014, n. 17698 e 17 febbraio 2009, n. 3785, nonché ordinanza 10.11.2017, n. 26684)” (C.d.S., Sez. IV, n. 4471/2019).
Delineate le caratteristiche generali del mobbing, la disamina della vicenda prospettata dal ricorrente non consente di constatare la sussistenza dei requisiti sopra evidenziati.
In relazione al caso di specie, non emergono, infatti, comportamenti e/o iniziative dell’Amministrazione atti a concretizzare una “condotta vessatoria e intimidatoria”, in cui si sarebbe estrinsecato l’atteggiamento mobbilizzante del datore di lavoro.
In particolare, va osservato che:
– al di là dei giudizi instaurati dinanzi al giudice amministrativo e dall’esito degli stessi, la documentazione prodotta agli atti prova l’assunzione di iniziative da parte dell’Amministrazione sulla base di circostanze e dati oggettivi, per lo più riconducibili alla condotta assunta dal ricorrente;
– a parte la riconducibilità di tali iniziative a Reparti e/o Comandi dell’Amministrazione resistente differenti nel tempo (circostanza questa di per sé idonea ad escludere la configurabilità di particolari rapporti di disistima e/o inimicizia tra il ricorrente e un determinato e ben individuato “superiore” gerarchico), l’esame di tale documentazione mostra che:
a) i contenuti della nota più volte invocata dal ricorrente (in cui è dato leggere che “il Comando Acquirente è pregato di far seguire adeguatamente l’interessato al fine di accertare tempestivamente l’insorgenza dei presupposti per il suo allontanamento definitivo dall’Arma”), risalente – preme precisare – al lontano 1994 in quanto inerente alla comunicazione del provvedimento di “dispensa” dall’ulteriore “frequenza del 46° corso biennale allievi sottufficiali”, assunto in data 14 aprile 1994, sono ben meritevoli di essere coerentemente valutati in correlazione con gli eventi e le circostanze evidenziate nelle note della “Scuola Sottufficiali Carabinieri”, poste a presidio della stessa dispensa. Orbene, nell’ambito di tali note, atte, tra l’altro, a dare conto di del superamento del “limite massimo di assenze”, spicca sicuramente la nota in data 1° marzo 1994 (cfr. doc. n. 1 depositato dall’Amministrazione in data 31 ottobre 2019), posto che, da essa, risulta che, nel corso della frequenza del 1° anno del 46° corso biennale A.S. 1993-1995, il ricorrente – oltre ad aver “evidenziato -OMISSIS-” – ha comunicato in ben due diverse circostanze a colleghi del proprio Plotone, nominativamente menzionati (pari a n. 3, non identificabili, peraltro, con colleghi per i quali il ricorrente ha chiesto l’ammissione della prova testimoniale), “di voler -OMISSIS-”, con allegazione, peraltro, delle dichiarazioni rese da detti colleghi, debitamente sottoscritte, tanto da segnalare esigenze di tutela, tra gli altri, del ricorrente (mediante il riferimento – in particolare – allo “scopo …… di evitare che” l’Allievo “possa mettere in atto l’insano gesto già minacciato”). Per mera completezza, preme precisare che il provvedimento di dispensa di cui si discute è stato impugnato dinnanzi a questo Tribunale con il ricorso n. 11352 del 1994, il quale è stato – in ultimo – sì accolto ma precipuamente in ragione della “violazione del disposto degli artt. 8 ss. della legge n. 241/90” con la sentenza n. 4361/2012, oggetto di appello, in relazione al quale non risultano essere stati ancora adottati dal Consiglio di Stato “provvedimenti”;
b) nonostante l’accoglimento dell’istanza cautelare proposta nel giudizio instaurato con il su indicato ricorso fosse basato sul medesimo vizio “procedurale” (cfr. ord. n. 2379 del 29 settembre 1994 – all. n. 9 prodotto dall’Amministrazione), senza riporto di prescrizione alcuna in ordine a successivi adempimenti a carico dell’Amministrazione (sicchè l’affermazione, riportata a pag. 6 del ricorso, secondo cui il TAR avrebbe disposto la riammissione del ricorrente al 46° corso è priva di fondamento), in linea, peraltro, con la normativa all’epoca vigente (non essendo stato, ancora, introdotto l’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990), l’Amministrazione non ha proceduto ad una rinnovazione del procedimento, nel rispetto delle garanzie partecipative, bensì ha riammesso il ricorrente alla frequenza, con riserva, del “1° anno del 47° Corso AA.SS., in atto di svolgimento a Velletri” (cfr. doc. n. 10, depositato dall’Amministrazione);
c) già con lettera in data 11 settembre 1995 il ricorrente – in qualità di “-OMISSIS-….. per la frequenza del I anno del 47° corso… 1994-1996” – dava conto del mancato superamento “degli esami di 2° sessione” e, dunque, formulava istanza per la concessione della facoltà di ripetere il “I anno del 48° corso A.S.CC. 1995-1997”, “fatte salve tutte le eccezioni che eventualmente dovessero sopravvenire da parte dell’organo giurisdizionale”;
d) ottenuto, poi, l’accoglimento della domanda cautelare proposta in sede di impugnativa del provvedimento di disposizione del superamento degli esami del 47° corso e della “determinazione con la quale il ricorrente veniva respinto all’esame per il superamento del già citato corso”, con piena salvezza della “facoltà del Ministero di risottoporlo alla materia del 2° quadrimestre che finora non ha superato” (cfr. ord. TAR Lazio n. 235 del 1996 – all. n. 17, depositato dall’Amministrazione), con provvedimento in data 21 febbraio 1996 il ricorrente era riammesso al 47° corso, con evidenza – in particolare – della necessità di sottoporre lo stesso all’esame di “Diritto e tecnica della circolazione stradale” nella prima decade del mese di aprile 1996;
e) sottoposto a tale esame in data 17 aprile 1996, il ricorrente non lo superava, come da verbale prodotto dall’Amministrazione (cfr. all. n. 22, depositato in data 31 ottobre 2019), sicché veniva disposto il ritorno del predetto al -OMISSIS-” (cfr. il successivo all. n. 23);
f) come già riferito, i su indicati provvedimenti, afferenti l’ammissione al 47° corso e la sottoposizione all’esame di cui sopra, erano oggetto di gravame dinnanzi al TAR, con accoglimento della domanda cautelare; alcuna iniziativa veniva, invece, assunta dal ricorrente avverso il provvedimento di ammissione al 48 ° corso (anche se quest’ultimo impugnava la comunicazione di inidoneità all’esame di “Diritto e tecnica della circolazione stradale” con il ricorso n. 6871 del 1996, sfociato in un’ordinanza cautelare di rigetto dell’istanza di sospensiva, confermata dal Consiglio di Stato – cfr. ord. n. 155/97 e n. 1078/98);
– ciò detto, deve certamente convenirsi in ordine al rilievo che la frequenza del corso biennale allievi sottufficiali da parte del ricorrente non è stata facile. In ogni caso, non si riscontrano dati e/o elementi validi per addebitare le difficoltà incontrate dal ricorrente a intenti persecutori e/o vessatori dell’Amministrazioni e, anzi, si ravvisano circostanze utili – per contro – a comprovare l’esistenza di “problemi” in capo a quest’ultimo, come – peraltro – confermato dall’avvenuto inoltro ad opera dello stesso di una formale istanza di esonero dal corso biennale in trattazione “per sopraggiunte motivazioni di carattere personale e gravi motivi familiari”, datata 19 aprile 1996 (cfr. all. 24 depositato dall’Amministrazione);
– in altri termini, il ricorrente insiste nell’affermare che “non era affetto da alcuna patologia di natura neurologica e/o psichiatrica” ma non vi è chi non veda come, in definitiva, la sussistenza di una tale patologia abbia influito esclusivamente sull’adozione nel lontano 1994 del provvedimento di “dispensa”, da ritenere del tutto superato in virtù della riammissione al corso disposta dall’Amministrazione, ossia di una decisione essenzialmente ascrivibile – preme precisare – ad un’autonoma iniziativa di quest’ultima (la quale avrebbe potuto – per contro – reiterare il procedimento nel pieno rispetto degli artt. 7 e ss. della legge n. 241 del 1990);
– così definita la tematica afferente il “corso biennale”, è da rilevare che, per quanto attiene al periodo successivo (connotato dal trasferimento “a domanda” del ricorrente al -OMISSIS-), il ricorrente denuncia “comportamenti squalificanti da parte dei suoi superiori”. Al riguardo, non può che rivelarsi la totale mancata produzione di elementi di prova. Premesso che il ricorrente persiste nel richiamare la nota sub “doc. 23”, allegato al ricorso, pienamente sovrapponibile al doc. n. 7, depositato dall’Amministrazione, per stessa ammissione del predetto (cfr. pag. 6 delle memorie di replica), ossia la nota di trasmissione del provvedimento di dispensa “dal corso allievi sottufficiali”, sottoscritta dal Capo del I Reparto -OMISSIS-, risalente al 1994, e, dunque, a svariati anni prima, disponente, tra l’altro, “il trasferimento del militare al -OMISSIS-”, il ricorrente riferisce eventi che – pur considerati nel loro complesso – risultano inidonei a dimostrare o, comunque, a dare conto di “comportamenti vessatori” e/o “persecutori” integratori del mobbing.
Come già affermato dal giudice amministrativo, la tipologia di mobbing di interesse nel processo dinanzi al giudice amministrativo si traduce nel demansionamento o, comunque, nell’adozione di atti e/o provvedimenti in distonia con gli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego, ipotesi queste in cui la responsabilità, anche per danno alla salute del dipendente, è – appunto – di tipo contrattuale. In altri termini, “deve ricercarsi una specifica inosservanza delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione (come codificate, in particolare, dalla legge n. 241/90). Detta violazione può ravvisarsi in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative o la cui interpretazione sia ormai pacifica, o, ancora, nella reiterazione di atti affetti anche da illegittimità formali ma che – nel loro insieme – denotino grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno alla salute del dipendente” (cfr. TAR Lazio, Sez. I quater, 31 gennaio 2008, n. 2877).
Ciò precisato, il Collegio ritiene che i fatti descritti nel ricorso – oltre ad essere sforniti di un valido supporto probatorio – non concretizzino ipotesi “anomale” ovvero ipotesi che rivelino un’effettiva e chiara violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi sullo stesso gravanti. A parte la particolare diluizione nel tempo che caratterizza gli eventi descritti (la quale conduce ragionevolmente – come in precedenza osservato – ad escludere il persistere del medesimo ambiente di lavoro a livello di “colleghi” e di “superiori” e, dunque, la ricorrenza di vessazioni ad opera di soggetti determinati e ben individuati), non emergono anomalie e/o difficoltà che possano essere ritenute avulse dal normale regime di vita di un militare. In particolare, il richiamo dal riposo e/o dalla licenza, il diniego di trasferimento ad altra sede, l’irrogazione di una sanzione disciplinare, tra l’altro, di lieve entità, il mancato avanzamento, la destinazione a servizi comunque afferenti all’esercizio delle proprie mansioni, il mancato transito nella “forza assente” o, ancora, l’invio di comunicazioni al giudice militare, denunciate dal ricorrente, si presentano come elementi fattuali inidonei a rivelare l’insorgenza per il dipendente di un “contesto ambientale differenziato” ovvero un “disegno complessivo”, composto da una serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori, tanto più nell’ipotesi in cui – come quella in trattazione – l’assunzione delle iniziative de quibus si presenti dovuta per la corretta applicazione di prescrizioni di legge o, ancora, risulti riconducibile a eventi specifici, addebitabili al ricorrente (tenuto conto – in particolare – di quanto rappresentato dall’Amministrazione resistente e non adeguatamente confutato dal ricorrente).
Premesso che la materia è delicata, non si può, infatti, trascendere dalla ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di tutelare i lavoratori che rimangono vittime di iniziative persecutorie e la necessità di evitare una “giuridificazione” eccessiva e patologica dei rapporti umani in ambito lavorativo che comporterebbe l’attribuzione di sanzione giuridica a qualunque evento della convivenza umana nel rapporto di lavoro. Ad ogni modo, le varie impostazioni concordano sul fatto che per aversi “mobbing” ci si debba trovare di fronte ad una serie prolungata di atti volti ad “accerchiare” la vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base di un intento persecutorio sistematicamente perseguito.
Orbene, nel caso in esame tale serie prolungata di atti non è riscontrabile; per contro, appare ravvisabile un insieme di eventi e circostanze connessi ad esigenze organizzative dell’Amministrazione ma anche all’evidente necessità di quest’ultima di fare fronte adeguatamente a situazioni definibili “anomale” o, comunque, di carattere non “ordinario” (quale – ad esempio – quella afferente all’incidente stradale verificatosi in data 31 luglio 1998, causativo di modesti danni per i veicoli e “nessun danno dichiarato” nell’immediato “dal personale”, in relazione al quale il Ministero della Difesa ha, peraltro, dato conto della produzione – in epoca successiva – di ulteriori certificazioni mediche per “patologie diverse” da parte del ricorrente e, ancora, dell’impossibilità di “dar luogo a visita domiciliare” per assenza dell’interessato “al domicilio”).
In definitiva, il Collegio perviene alla conclusione che gli eventi e le circostanze descritti nel ricorso, considerati in un’ottica unitaria, non rivelano la sussistenza di comportamenti che trovano una “ratio” unificatrice nell’intento di isolare, emarginare o espellere il ricorrente dall’ambiente di lavoro, mediante una “escalation” di azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. III, sent. n. 403 dell’8 marzo 2007; TAR Lazio, Sez. III bis, sent. n. 6254 del 25 giugno 2004; Trib. Forlì, 10 marzo 2005; Trib. Milano, 23 luglio 2004; Trib. Torino, 28 gennaio 2003). Preme, ancora, precisare che, proprio in ragione della necessità del riscontro “oggettivo” della sussistenza di tali comportamenti, in sede di accertamento del mobbing non possono, peraltro, rilevare status soggettivi del dipendente. Si intende così ribadire che il mobbing non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo e, pertanto, non può essere imputato in via esclusiva ma anche prevalente all’eventuale amplificazione da parte del dipendente delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. C. Conti, Reg. Marche, Sez. G., 8 febbraio 2005, n. 106).
Come già evidenziato, nel caso di specie non ricorre una pluralità di comportamenti e azioni a carattere persecutorio, sistematicamente diretti contro il dipendente, che – seppure attribuibili a più persone – si rivelano oggettivamente interagenti tra loro nel perseguimento di un unico intento complessivo, precisando – in aggiunta – che, a favore della conclusione a cui si è pervenuti, depongono anche i continui e prolungati periodi di assenza dal lavoro del ricorrente (anche per ricoveri presso l’ospedale civile – cfr. Foglio matricolare e caratteristico), sfociati – in ultimi e, segnatamente, nel 2002 – nell’adozione del provvedimento di collocamento in congedo per il mancato riacquisito dell’idoneità fisica al termine del periodo massimo di aspettativa fruibile (ritenuto pienamente legittimo in esito alla proposizione di ricorso straordinario al Capo dello Stato), atteso che gli stessi non solo conducono ad escludere la sussistenza di un continuo contatto tra l’interessato e il datore di lavoro ma anche l’esistenza di “patologie” o, comunque, problemi psico-fisici, in relazione ai quali non risulta, tra l’altro, prodotta compiuta ed esaustiva documentazione medica.
In conclusione, la richiesta di accertamento dell’illiceità del comportamento dell’Amministrazione e di conseguente condanna di quest’ultima per “mobbing” deve essere respinta.
3. Per le ragioni illustrate, il ricorso va respinto.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate a favore del Ministero della Difesa in € 1.500,00.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, così come liquidate in motivazione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità.
