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T.A.R. Milano (Lombardia) sez. III, 01/08/2019, n. 1808

Massima

La configurabilità della condotta lesiva qualificabile come mobbing lavorativo richiede l’accertamento di una pluralità di presupposti costitutivi, tra cui: a) la reiterazione e complessiva offensività di comportamenti a contenuto vessatorio, i quali, pur se astrattamente leciti, risultano connotati da sistematicità e intenzionalità lesiva nei confronti del dipendente; b) l’effettiva lesione della salute psico-fisica del lavoratore; c) la sussistenza di un nesso causale tra la condotta datoriale o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del dipendente; d) la presenza dell’elemento soggettivo, inteso come intenzionalità persecutoria e discriminatoria da parte del soggetto agente.

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

MOBBING

Per “mobbing” si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima. ome chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.

Nell’ordinamento italiano non esiste una norma di legge specificamente dedicata al fenomeno del mobbing. A livello di legge ordinaria, viene in rilievo l’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che, secondo le particolarità dell’attività svolta, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro; la L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il cui art. 15, in particolare, sancisce la nullità di patti o atti diretti a realizzare forme di discriminazione sul luogo di lavoro; il D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), i cui artt. 25 e seguenti sono specificamente dedicati al contrasto delle discriminazioni nei luoghi di lavoro; il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro), il cui art. 28 impone di considerare tra i rischi per la salute dei lavoratori anche quelli derivanti da condizioni di stress lavoro-correlato. Non esiste nella legislazione vigente uno specifico reato di mobbing.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTO e DIRITTO

I) Con l’atto introduttivo del giudizio la ricorrente, all’epoca dei fatti finanziere scelto della Guardia di Finanza, in forza dal 19 maggio 2008 al Comando Provinciale di Lodi, ha chiesto la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno per mobbing.

A tal fine ha esposto di aver subito numerose e ripetute vessazioni, che le avrebbero procurato un grave stato patologico di tipo ansioso e psicosomatico, digravità tale da menomarne gravemente l’attitudine al lavoro. Di seguito schematicamente i fatti che connoterebbero la fattispecie mobbizzante:

– essendo stata assegnata dal 19 maggio 2008 al Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Lodi, non avrebbe avuto a disposizione un bagno per donne, approntato solo un anno dopo, e comunque usato anche come deposito degli attrezzi per la pulizia e spesso inutilizzabile a seguito di allagamenti;

– in data 18 novembre 2008 è stata trasferita alla Compagnia di Lodi, ove, stante la grave situazione familiare (avendo un figlio portatore di handicap grave), si è trovata a dover richiedere l’esonero dai turni continuativi articolati sulle 24 ore, fino al compimento dei tre anni del figlio minore. A seguito della richiesta è stata trasferita alla squadra Comando sino a febbraio 2010 quale scrivano;

– in data 9 novembre 2009 essendo assente per malattia ha ricevuto una visita fiscale domiciliare e successivamente, a brevissima distanza, ne ha ricevuto un’altra;

– in data 13 novembre 2009 le sono state notificate tre note di biasimo, che l’interessata ha impugnato con ricorsi gerarchici, rigettati dal Comandante della Compagnia, ma accolti invece dal Comandante Provinciale, successivamente interessato;

– a febbraio 2010 è stata nuovamente trasferita allo schedario. Subito dopo, avendo il figlio compiuto i tre anni di età, è stata spostata alla squadra piantoni;

– in data 4 luglio 2011 le è stata negata la fruizione della licenza estiva;

– soprattutto in prossimità delle festività natalizie 2011, la ricorrente è stata costretta a due turni giornalieri consecutivi o meno articolati secondo l’orario 08.00/14.00 e 20.00/08.00 oppure 14.00/08.00, non usufruendo di alcun giorno di licenza;

– in relazione al cumulo del prolungamento del congedo parentale e della fruizione dei tre giorni di permesso previsto dalla L. 104/1992, la ricorrente ha presentato ricorso gerarchico, che è stato respinto;

– nonostante avesse smesso di guidare, a causa di un evento traumatico, circostanza della quale i superiori erano a conoscenza, nel febbraio 2012 è stata assegnata al Nucleo Mobile. Nonostante le rimostranze, non sarebbe stata cambiata l’assegnazione. In tale occasione è stato promosso un primo procedimento penale militare a suo carico per disobbedienza aggravata (artt. 173 e 47 n. 2 c.p,m,p.) presso il Tribunale Militare di Verona, e un secondo presso il Tribunale Ordinario di Lodi per i reati di cui all’art. 368 c.p. (calunnia) e art. 328 c.p. (omissioni di atti d’ufficio). Quest’ultimo è stato archiviato e in relazione a quello militare la ricorrente è stata poi assolta;

– in data 22 giugno 2012 il Comando Provinciale di Lodi ha comunicato, ex art. 347 c.p.p., alla Procura di Lodi a carico della ricorrente la notizia di reato (n. 32604 R.G.N.R.) relativa all’art. 615-ter comma 2 c.p. (Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico), in quanto la dipendente avrebbe effettuato due accessi abusivi alle banche dati dell’Anagrafe Tributaria per scopi non rispondenti ad esigenze operative di servizio. In data 15 gennaio 2013 il GIP del Tribunale di Milano ha disposto l’archiviazione del procedimento, condividendo la richiesta in tal senso del Pubblico Ministero;

– in concomitanza con il predetto procedimento, a fine giugno, la ricorrente è stata sottoposta a procedimento disciplinare per cui le sono stati inflitti 2 giorni diconsegna di rigore; il provvedimento è stato annullato a seguito di ricorso gerarchico promosso dall’interessata.

I fatti sopra descritti avrebbero determinato nella dipendente stress, ansia e depressione, certificata da medici specialistici, portando verso una condizione di”pressione continua”.

La ricorrente ha riferito di aver proposto, in relazione a tale stato patologico, richiesta per il riconoscimento delle dipendenza da causa di servizio.

Con il ricorso indicato in epigrafe, notificato in data 14-17 settembre 2013 e depositato il successivo 1° ottobre 2013, ha chiesto il risarcimento del danno, ritenendo sussistente la fattispecie del mobbing.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze, resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto.

Con ricorso per motivi aggiunti non impugnatorio depositato in data 11 giugno 2015 la ricorrente ha rappresentato che era è stata riconosciuta la dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata, con liquidazione della pensione privilegiata. Tale circostanza, a suo dire, ridonderebbe sulla fondatezza della domanda risarcitoria per mobbing, in quanto determinerebbe l’accertamento della connessione tra il danno e la prestazione lavorativa.

La ricorrente è stata successivamente collocata in congedo assoluto a decorrere dal 29 dicembre 2014, rinunciando al transito nei ruoli civili del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In vista della trattazione nel merito le parti hanno depositato scritti difensivi, insistendo nelle proprie conclusioni.

In particolare la ricorrente ha dedotto il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo dalla stessa adito, poiché il riconoscimento della causa di servizioavrebbe acclarato un diritto soggettivo che si sarebbe tramutato in una pensione di privilegio vitalizia, con la conseguenza che la cognizione anche sul risarcimento per danno non patrimoniale spetterebbe alla Corte dei Conti.

Indi all’udienza del 13 giugno 2019 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione.

II) In via preliminare va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla controversia di cui è causa.

A margine del rilievo della non pertinenza delle pronunce giurisprudenziali citate dalla ricorrente a sostegno della propria deduzione in ordine al difetto digiurisdizione del giudice amministrativo, e non volendo il Collegio soffermarsi sulla violazione del canone di buona fede processuale, concretatasi nel caso dispecie con il venire contra factum proprium, avendo la ricorrente adito sua sponte il giudice amministrativo, va rilevato che nessun dubbio sussiste in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di controversia attinente al pubblico impiego di personale non contrattualizzato, ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 133 comma 1 lett. i) c.p.a. e all’art. 3 del D.lgs. 165/2001. In tale ipotesi la giurisdizione si estende anche alla cognizione delle azioni inerenti il risarcimento del danno derivante dal cosiddetto mobbing a condizione che l’azione proposta possa qualificarsi in termini di responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di garanzia imposto dall’art. 2087 c.c. (Cons. Stato Sez. VI, 20-06-2012, n. 3584) nel caso di comportamenti vessatori adottati nell’esercizio del potere di supremazia gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro (Consiglio di Stato, sez. IV, 26/11/2015, n. 5371) e da ricondurre specificamente al rapporto di servizio.

Ora, secondo la prospettazione della ricorrente le condotte dell’Amministrazione che avrebbero determinato il danno asseritamente subito sarebbero proprio riconducibili al rapporto di servizio.

Va comunque in proposito precisato che nessuna rilevanza può avere ai fini del riparto di giurisdizione la vicenda (distinta) riguardante l’accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata, che, come si dirà meglio in seguito, neppure rileva sotto il profilo di merito della presente controversia.

Le questioni riguardanti la pensione privilegiata, di cui la ricorrente ha interessato la competente sezione regionale della Corte dei Conti, hanno natura nettamente differente dalla domanda avanzata con il ricorso introduttivo.

Deve dunque affermarsi la giurisdizione di questo Tribunale.

III) Venendo al merito della controversia, come appena rilevato, va innanzi tutto osservato che non può trarsi alcun elemento di fondatezza della domanda risarcitoria avanzata nella presente sede dall’avvenuto accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata alla ricorrente.

Come condivisibilmente argomentato dalla difesa dell’Amministrazione non può esserci un’automatica trasposizione sul piano della responsabilità datoriale dell’accertata inidoneità al servizio attivo.

Ed invero al fine di ritenere sussistente la fattispecie del mobbing occorrono elementi che, nel procedimento volto ad accertare la dipendenza da causa di servizio di una certa patologia, non vengono minimamente considerati, quale, in particolare, l’intento persecutorio.

Sotto tale profilo risultano del tutto irrilevanti e non pertinenti le argomentazioni sviluppate dalla difesa della ricorrente nelle 39 pagine della memoria depositata per l’udienza pubblica (e dei 209 documenti), prevalentemente incentrate sul procedimento per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio con digressioni varie sulla natura del Comitato di verifica per le cause di servizio, che, evidentemente non sono conducenti in relazione alla vicenda di cui è causa.

La giurisprudenza ha avuto modo di osservare che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” non implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (Consiglio di Stato sez. VI, 12 marzo 2015, n.1282; Cassazione civile sez. lav., 29 gennaio 2013, n.2038).

Ciò chiarito, ad avviso del Collegio il ricorso non è meritevole di accoglimento.

Va premesso, in via teorica e generale, che in relazione al mobbing, fattispecie priva di definizione normativa, sono stati elaborati dalla giurisprudenza alcuni principi, con specifica attinenza al rapporto di pubblico impiego, per delinearne gli elementi costitutivi.

Il mobbing c.d. verticale, nel rapporto di impiego pubblico, si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (T.A.R. Milano sez. III, 2 febbraio 2018, n.310; Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12 marzo 2015, n. 1282).

Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, di seguito indicati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1945; Cass. civ., sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291; id., 16 marzo 2016, n. 5230):

a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico o prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore;

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio.

La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini della concretizzazione del mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14 maggio 2015, n. 2412).

Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16 aprile 2015, n. 1945).

Sul piano processuale, la condotta che dà luogo a mobbing deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito, ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice, eventualmente, anche attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.

La ricorrenza del mobbing deve essere, dunque, esclusa tutte le volte che la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio diverosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21 settembre 2015, n. 4394).

Applicando al caso di specie le suddette coordinate ermeneutiche, ad avviso del Collegio non risultano provati gli elementi che integrano la fattispecie risarcitoria da mobbing, dovendosi rammentare che nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 284).

In particolare nel caso di specie non risulta assolto l’onere probatorio da parte della ricorrente in relazione né al profilo oggettivo della condotta illecita né a quello soggettivo.

Quanto alla condotta illecita sotto un profilo oggettivo la ricorrente si è limitata ad elencare una serie di episodi che appaiono pacificamente riconducibili alle ordinarie dinamiche, talvolta anche conflittuali, nell’ambito del rapporto di impiego. Ed invero il non gradimento da parte del dipendente delle scelte organizzative dell’Amministrazione, che incidono sulla sua posizione lavorativa, non può essere ascritto ad una ipotesi di mobbing.

In termini generali va osservato che molti degli episodi riferiti sono riconducibili a fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea profondamente la disciplina del rapporto di servizio.

Altri episodi sono invece riconducibili ad atti organizzativi assunti tenendo conto delle fisiologiche carenze di personale che affliggono tale settore del pubblico impiego.

A prescindere dal fatto che l’Amministrazione nella propria memoria fornisce una ricostruzione differente degli stessi episodi, i quali dunque risultano contestati nella loro dimensione fenomenologica, va osservato che nell’atto introduttivo del giudizio in relazione a tali episodi non è stata neppure individuata la violazione da parte dell’Amministrazione degli specifici obblighi inerenti al rapporto di impiego, essendosi limitata la ricorrente a generiche e non contestualizzate affermazioni sul mobbing, nonché a lati riferimenti giurisprudenziali sulla fattispecie.

Va in proposito ricordato che “l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore dilavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi” (Cassazione sez. lav. 29 gennaio 2013, n. 2038).

Quanto al profilo soggettivo della condotta illecita, l’individuazione dell’intento persecutorio, che deve costituire il filo conduttore dei diversi episodi ritenuti mobbizzanti, è dalla ricorrente meramente affermata ma lungi dall’essere dimostrata. Ciò anche alla luce di quanto rilevato in relazione agli episodi riferiti, che non sembrano di per sé rivelare alcun intento persecutorio o di un disegno unitario dell’Amministrazione volto alla emarginazione o alla persecuzione della dipendente.

L’intento persecutorio imputato all’Amministrazione risulta quindi frutto di personale convincimento della ricorrente, che tuttavia non risulta supportato da alcuna concreta ed idonea dimostrazione.

Il lavoratore “non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione” (Cons. Stato, sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4135; idem 12 marzo 2012, n. 1388).

In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso non è meritevole di accoglimento e deve essere rigettato.

Tenuto conto della particolare natura della controversia, sussistono eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese di giudizio tra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria diprocedere all’oscuramento delle generalità.

Allegati

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