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Corte di Appello di Trento, 23/03/2018, n. 73

Massima

In tema di sentenza penale pronunciata a seguito di ammissione al rito abbreviato, l’erroneo riferimento nella motivazione a un diverso rito (quale il patteggiamento), in contrasto con il dispositivo che correttamente indica il rito abbreviato, non determina la nullità del provvedimento. Tale vizio formale si risolve con la prevalenza del dispositivo sulla motivazione. La Corte d’Appello, in ogni caso, è legittimata a colmare eventuali carenze motivazionali della sentenza di primo grado, senza necessità di dichiararne la nullità e rinviare gli atti.

Supporto alla lettura

RITO ABBREVIATO

Il sistema processuale penale italiano è un sistema di stampo accusatorio: esso impone che all’accertamento della responsabilità dell’imputato si pervenga con il massimo delle garanzie e nel rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova. Le garanzie comportano una maggiore complessità delle forme e un allungamento dei tempi del processo, ma soprattutto del dibattimento, nel quale le prove dichiarative devono essere assunte con il metodo dell’esame incrociato. Quindi si è posta l’esigenza di prevedere procedure alternative, finalizzate a semplificare i meccanismi processuali e a consentire forme di definizione anticipata rispetto al procedimento ordinario. Il giudizio abbreviato costituisce la rinuncia dell’imputato alle garanzie del dibattimento, decidendo lo stesso di essere giudicato sullo stato degli atti d’indagine ricevendo in compenso per tale rinuncia una riduzione sull’eventuale pena finale di 1/3. Il giudizio abbreviato è stato introdotto nel codice di rito del 1988 agli artt. 438-443 c.p.p., sulla base dell’art. 2 n. 53 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81. I presupposti di accesso al rito erano tre: la richiesta dell’imputato, il consenso del pubblico ministero e la valutazione del giudice per le indagini preliminari circa la possibilità di definire il processo “allo stato degli atti”. Intervenne la l. 479/1999(c.d. legge “Carotti), per ottemperare ai moniti della Corte costituzionale, riscrivendo i presupposti di accesso al rito abbreviato con l’eliminazione dei requisiti del consenso del pubblico ministero e della valutazione preliminare del giudice sulla definibilità del processo allo stato degli atti, al fine di rendere la nuova disciplina più semplice e più “attrattiva” della precedente. Quindi, venuti meno questi due requisiti, conditio sine qua non del giudizio abbreviato resta la richiesta dell’imputato. La novella del 1999 ha introdotto due diverse modalità di accesso al rito abbreviato: l’imputato può scegliere se formulare una richiesta “semplice”, ex art. 438 comma 1 c.p.p., oppure, “condizionata”, subordinando la richiesta stessa ad un’integrazione probatoria, ex art. 438 comma 5 c.p.p. La l. 103/2017, nota nel gergo come “riforma Orlando”, ha previsto l’opportunità per l’imputato di presentare istanze subordinate di rito abbreviato «allo stato degli atti» (c.d. semplice o secco) e financo di patteggiamento, nel caso in cui la richiesta (principale) di giudizio abbreviato condizionato non sia accolta. Le finalità del legislatore, nell’introduzione di tale previsione, appaiono chiaramente deflattive, riconoscendo alla difesa una valida alternativa al rigetto dell’istanza di cui al co. 5, prodromica ad impedire che il processo prosegua nelle forme del rito ordinario. Con la Legge 12 aprile 2019, n. 33, ha introdotto il co. 1bis nell’art. 442 c.p.p. che, nell’esclusivo caso in cui si proceda per i delitti per cui è prevista la pena dell’ergastolo, esclude l’applicazione del rito abbreviato, la cui richiesta determina la dichiarazione di inammissibilità del giudice dell’udienza preliminare.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 424 del 26 settembre 2016 il Tribunale di Trento ha dichiarato (omissis) colpevole del reato di cui all’art. 612 co. 2 c.p. in relazione all’art. 339 c.p., per avere lo stesso, in data 2 giugno 2015, minacciato (omissis) brandendo un coltello e cercando di scagliarsi contro di lui.

Il primo Giudice ha condannato l’imputato alla pena, sospesa, di mesi due di reclusione.

Il Tribunale ha accolto la richiesta di rito abbreviato, già formulata in sede di opposizione a decreto penale, all’udienza del 20.9.2016 con deposito del dispositivo e motivazione riservata in giorni 60, ritenendo provata la penale responsabilità dell’imputato sulla base delle evidenze probatorie presenti in atti, con specifico riferimento alla CNR e allegati.

Avverso la suddetta sentenza ha proposto appello l’imputato, per i seguenti motivi.

1) Con il primo motivo l’imputato lamenta l’abnormità della sentenza e/o difetto assoluto di motivazione. La difesa dell’appellante osserva che nel corso del giudizio era stata formulata richiesta, poi accolta, di giudizio abbreviato e non già di applicazione della pena su richiesta di parte come erroneamente ritenuto dal giudice di prime cure. Pertanto la pronuncia impugnata risulterebbe, secondo la prospettazione dell’imputato, del tutto priva di un idoneo apparato motivazionale, poiché all’interno del dispositivo fa riferimento ad un accertamento di penale responsabilità a seguito di rito abbreviato, mentre in sede di motivazione il primo giudicante si è speso esclusivamente per la valutazione di congruità del patteggiamento.

2) Con il secondo motivo di impugnazione l’appellante censura l’erroneità della valutazione delle evidenze probatorie, in particolare con riferimento all’insussistenza della prova degli elementi costitutivi del reato di minaccia aggravata. Viene evidenziata la contraddittorietà della ricostruzione dei fatti di cui alla querela del (omissis) rispetto alle annotazioni di (omissis), nonché relativamente alla versione dei fatti offerta dalle sommarie informazioni rilasciate dal (omissis), unico soggetto sentito dagli agenti di p.g. Quest’ultimo, infatti, aveva riferito circostanze del tutto differenti rispetto a quanto affermato dal (omissis), come la presenza di due persone che sarebbero intervenute per dividere i due litiganti. Tale descrizione contrasterebbe manifestamente con quella data dal (omissis), posto che egli aveva affermato che nessuno aveva tentato di fermare l'(omissis). Pertanto non sussisterebbero elementi sufficienti per ritenere provato né l’elemento oggettivo né l’elemento soggettivo del reato.

In accoglimento dei motivi di impugnazione, l’appellante conclude in principalità per la declaratoria di nullità della pronuncia gravata e l’adozione dei provvedimenti conseguenti; in subordine per l’assoluzione con la formula ritenuta di giustizia ovvero il contenimento della pena inflitta entro il minimo edittale.

Motivi della decisione

1) La Corte rileva che nel caso di specie, nel dispositivo, il primo Giudice ha correttamente fatto riferimento all’ammissione al rito abbreviato di cui all’udienza sopraindicata, mentre nella motivazione ha erroneamente (verosimilmente con il “copia e incolla”) fatto riferimento ad una richiesta di patteggiamento, non sussistente.

Tale contrasto tra dispositivo e motivazione non comporta l’abnormità della sentenza e/o il difetto assoluto di motivazione come dedotto dalla difesa.

La giurisprudenza della SC ha più volte evidenziato che il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo (ex multis Cass. 7980/2017).

Sotto diverso profilo, la Corte osserva che la motivazione della suddetta sentenza riporta, seppure in maniera riassuntiva, gli elementi probatori posti a base della decisione, costituiti dalla CNR in atti e degli allegati alla stessa.

La mancanza di motivazione, addirittura quella assoluta, peraltro non ricorrente in questo caso, “non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall’art. 604 c.p.p., per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante” (Cass. 58094/2017).

2) Quanto alla dedotta erroneità della valutazione delle evidenze probatorie, in particolare con riferimento all’insussistenza della prova degli elementi costitutivi del reato di minaccia aggravata, la Corte osserva.

Nella denuncia-querela, (omissis) ha dichiarato che il giorno 2 giugno 2015, dopo un precedente litigio, avvenuto il 15 maggio, l’odierno imputato si introduceva nell’abitazione della p.o., presso la quale era stato ospite, utilizzando una copia della chiave di ingresso.

In tale occasione, nella quale erano presenti altre due persone, (omissis) minacciava (omissis) con un coltello. I dissidi, come dichiarato dalla p.o. ai CC intervenuti su richiesta della stessa (CNR in atti), erano dovuti al fatto che (omissis) “non partecipava più alle spese ed era solito ubriacarsi” e aveva già in precedenza minacciato il coinquilino con una lametta da barba presso il vicino supermercato.

Queste circostanze venivano confermate ai CC da (omissis), anch’egli domiciliato presso lo stesso appartamento in via (omissis).

Non si ravvisa alcuna contraddizione tra la suddetta denuncia querela e quanto dichiarato da (omissis), posto che anche nella suddetta querela (omissis) aveva precisato che al fatto del 2 giugno erano state presenti due persone.

(omissis) ha dichiarato che (omissis) entrò in casa mentre era presente, oltre a (omissis), un ragazzo senegalese di nome (omissis) (già menzionato da (omissis) nella denuncia-querela e ivi scritto BBKR) e che entrambi fermarono (omissis), armato di un coltello, e lo convinsero ad andarsene.

Non contraddizioni quindi, ma semmai precisazioni da parte del teste oculare della dinamica degli eventi già descritti, non risultando che (omissis) abbia detto espressamente che nessuno avesse fermato l’imputato mentre lo minacciava con il coltello.

Del resto non si rileva alcun accanimento della p.o. nei confronti dell’imputato, posto che la stessa ha spontaneamente dichiarato, in seguito, ai Carabinieri (vedi foglio (…)) che l’imputato dopo i fatti del giugno non lo aveva più importunato “ed è venuto ben due volte per scusarsi per il suo comportamento tenuto nei miei riguardi. Di ciò sono molto contento e soddisfatto”.

La pena inflitta appare congrua e semmai mite, in relazione alla gravità del fatto e alla intensità del dolo dimostrata dall’ingresso dell’imputato in casa con il coltello,utilizzando un doppione della chiave che avrebbe già dovuto riconsegnare al coinquilino titolare della locazione.

P.Q.M.

Visto l’art. 599 c.p.p.,

conferma la sentenza impugnata e condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali.

Fissa termine di giorni 60 per il deposito della motivazione.

Così deciso in Trento, il 28 febbraio 2018.

Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2018.

Allegati

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