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Corte di Appello di Potenza, 02/03/2023, n. 100

Massima

L’abuso del processo, quale deviazione sanzionabile dello strumento giudiziario, tradisce l’interesse pubblico alla corretta amministrazione della giustizia, ostacolando la ragionevole durata del processo e alimentando inutilmente il contenzioso.

Supporto alla lettura

RESPONSABILITA’ AGGRAVATA

L’art. 96 c.p.c sanziona quel comportamento illecito della parte, poi risultata soccombente nel giudizio, che dia luogo alla c.d. “lite temeraria“, cioè quel comportamento della parte che nonostante sia consapevole dell’infondatezza della sua domanda o eccezione (mala fede), la propone ugualmente, costringendo la controparte a partecipare ad un processo immotivato.

Inoltre, viene sanzionata la mancanza di quel minimo di diligenza richiesta per l’acquisizione di tale consapevolezza (colpa grave).

La legge configura in tale comportamento una responsabilità aggravata, ossia una responsabilità che si aggrava in quanto, essendo fondata su un illecito, comporta l’obbligo di risarcire tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un processo privo di fondamento alcuno.

Si tratta di un istituto posto a tutela dell’interesse di una delle parti a non subire pregiudizi a seguito dell’azione o resistenza dolosa o colposa dell’altra parte.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con sentenza n.1351/2016 emessa il 3.10.2016 e pubblicata il 12.10.2016 il Tribunale di Matera in composizione monocratica, decidendo sull’azione revocatoria ordinaria promossa da (omissis) nei confronti di (omissis), (omissis) e (omissis), accoglieva la domanda attrice e dichiarava privi di effetti nei confronti di (omissis) gli atti pubblici di compravendita di beni immobili stipulati il 23.2.2012 da (omissis) e (omissis), in qualità di venditori,e da (omissis), in veste di acquirente, e trascritti presso la Conservatoria dei RR.II. di Matcra il 27.3.2012 ai numeri 2592/2134 e 2593/2135, condannando in solido i convenuti al pagamento delle spese processuali.

Con atto di citazione notificato il 5.12.2016 i sigg. (omissis) e (omissis) proponevano appello avverso la suindicata sentenza contestando la sussistenza dell’evenlus damni e della scientia damni. Pertanto, convenivano dinanzi alla Corte di Appello di Potenza i sigg. (omissis) e (omissis) affinché, in riforma dell’impugnata sentenza, fosse rigettata la domanda avanzata in primo grado da (omissis), con vittoria di spese di lite riferite al doppio grado di giudizio.

Con comparsa depositata in data 20.9.2017 si costituiva nel giudizio di impugnazione il sig. (omissis) il quale, in via preliminare, eccepiva l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c. e per ragionevole probabilità di non essere accolto ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. e, nel merito, contestava la fondatezza dei motivi articolati a sostegno del gravame, concludendo per il rigetto dello stesso e per la conferma della sentenza impugnata, con vittoria di spese di lite.

Non si costituiva in giudizio l’appellato (omissis).

Con comparsa depositata 1’8.4.2019 il sig. (omissis) rinnovava la propria costituzione in giudizio con il patrocinio di un nuovo difensore in sostituzione di quello originariamente nominato, che la parte aveva nelle more revocato.

All’udienza del 18.10.2022, celebratasi mediante lo scambio ed il deposito, con modalità telematiche, di note scritte, ai sensi degli artt.83 co.7 lett. h) del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 e 221 del D.L. n. 34 del 2020, come modificato dalla legge di conversione n.77/2020 e succ. mod., precisate a cura delle parti costituite le rispettive conclusioni con note scritte depositate in data 28 settembre e 11 ottobre 2022, la causa veniva assegnata in decisione con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

Motivi della decisione

In via preliminare, va dichiarata la contumacia dell’appellato (omissis), nei cui confronti il contraddittorio è stato instaurato e che non ha inteso costituirsi nel giudizio di impugnazione.

Non è valutabile in questa sede l’eccezione di inammissibilità dell’appello per ragionevole probabilità di non essere accolto ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., come formulata da (omissis) con la comparsa di costituzione depositata il 20.9.2017. Invero, come reso manifesto dal combinato disposto degli artt.348 ter co.l e 350 c.p.c., la declaratoria di inammissibilità dell’appello per insussistenza di una ragionevole probabilità che il gravame sia accolto è provvedimento che la Corte può assumere alla prima udienza di trattazione sulla base di una valutazione discrezionale. Superata la fase della prima udienza di trattazione senza che la Corte abbia assunto l’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 ter c.p.c., è preclusa nel prosieguo del giudizio di impugnazione e, a maggior ragione, nella fase decisoria l’applicazione delle norme processuali di cui agli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.

Maggiore consistenza palesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c.

L’atto introduttivo del presente giudizio di impugnazione si compone di 25 pagine, di cui le prime due pagine riepilogano sommariamente lo svolgimento del processo in primo grado e le successive sette contengono la riproduzione pressoché integrale della motivazione della sentenza fatta oggetto di gravame, riproduzione che risulta ripetuta inspiegabilmente ancora una volta nelle pagine da 10 a 15. Successivamente, dalla fine di pagina 15 a tutta la pagina 19, senza soluzione di continuità, vi è una elencazione generica ed astratta – in quanto tale sganciata del tutto dalle circostanze di fatto qualificanti la fattispecie dedotta in giudizio e dalle ragioni della decisione impugnata – di massime e stralci di pronunce della giurisprudenza di legittimità a cui non fanno seguito considerazioni coerenti con le argomentazioni spese dal primo giudice nella sentenza appellata.

Finalmente, alla pagina 20 fanno la loro comparsa alcune apparenti censure alla decisione del Tribunale di Matera, strutturate, in verità, in modo alquanto approssimativo e trascurato, seguite – alla fine di pagina 20 e nella successiva pagina – dalla riproduzione integrale delle conclusioni rassegnate dal C.t.u. nella relazione peritale scritta depositata in primo grado (riproduzione integrale delle conclusiom rassegnate dal C.t.u. che impegna già l’intera pagina 2 dell’atto di appello).

Quindi, nelle pagine 22, 23 e, in parte, 24 risultano esattamente ricopiati i contenuti delle precedenti pagine 20 e 21, ivi compresa – ancora una volta (la terza, per la precisione) – la riproduzione integrale delle conclusioni rassegnate dal C.t.u. nella relazione peritale scritta depositata in primo grado.

Dopo la evocazione di una massima giurisprudenziale in tema di scientia damni ed un fugace riepilogo – connotato da diversi errori di battitura – di argomenti già spesi alla pagina 20, si approda alle conclusioni che impegnano la pagina 25.

Tale tecnica di redazione dell’atto di appello va stigmatizzata.

Il presente giudizio di impugnazione è stato promosso con atto di citazione notificato il 5.12.2016 e, quindi, nel vigore dell’art.342 co.l c.p.c. nella formulazione scaturita dall’art.54 co.l, lett. 0a), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. La norma processuale evocata dispone che “La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

Pertanto, alla stregua dell’art. 342 c.p.c., la citazione introduttiva del giudizio di appello deve contenere una indicazione sommaria delle parti del provvedimento impugnato che si aspira a vedere modificate e delle circostanze di fatto da cui derivi la violazione di legge, precisandone la rilevanza ai fini della decisione. 1 anto vale a significare che la parte impugnante sia tenuta, da un lato, ad individuare in mamera chiara e definita i singoli profili della decisione del primo giudice di cui intenda far valere l’erroneità e, dall’altro, ad enunciare esplicitamente e argomentare i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.

Il tutto nel rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza dell’atto introduttivo del giudizio (v. Cass.civ.sez.5, ordinanza 21 marzo 2019 n.8009), principi che, a rigore, vanno osservati anche dalla parte convenuta nel giudizio di impugnazione in sede di redazione della comparsa contemplante l’impugnazione incidentale.

La norma processuale, pertanto, esclude che nell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione debba operarsi la pedissequa riproduzione integrale dei contenuti della motivazione della sentenza fatta oggetto di gravame e delle conclusioni rassegnate dal C.t.u. nella relazione peritale scritta depositata in primo grado. A maggior ragione deve ritenersi preclusa la ripetizione più volte, nel corpo dell’atto di appello, della riproduzione integrale dei contenuti dei menzionati atti.

Orbene, nel codice di procedura civile una espressa prescrizione di chiarezza e sinteticità dell’atto di appello è stata introdotta esclusivamente con la recentissima riforma di cui al D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che ha riformulato l’art.342 co.l c.p.c. prevedendo che l’appello per ciascuno dei motivi deve indicare, a pena di inammissibilità, “in modo chiaro, sintetico e specifico” quanto riportato ai punti 1), 2) e 3) della stessa norma.

Tuttavia, all’evidenza la disposizione dell’art. 342 c.p.c. nella sua ultima ne (applicabile a decorrere da marzo 2023) non è operante in riferimento alla presente controversia.

Prima della novella legislativa appena evocata una espressa prescrizione di sinteticità era posta solo con riferimento agli atti del giudice (nei riferimenti alla “concisa” esposizione ed alla “succinta” motivazione contenuti negli art. 132 e 134 c.p.c e art. 118 disp. att. c.p.c.), mentre per gli atti di parte (per le cui modalità redazionali le uniche prescrizioni espresse sono quelle dettate dall’art. 46 disp. att. c.p.c., concernenti profili meramente estrinseci) operava il principio della libertà delle forme, fissato in via residuale dall’art. 121 c.p.c.

Il principio di sinteticità degli atti processuali (tanto del giudice quanto delle parti) era stato, tuttavia, già introdotto nell’ordinamento processuale con l’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo, approvato con il D.Lgs. n. 104 del 2010, alla cui stregua, “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”.

Tale disposizione esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, in quanto funzionale a garantire, per un verso, il principio di ragionevole durata del processo, costituzionalizzato con la modifica dell’art. 111 Cost., e, per altro verso, il principio di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice. La smodata sovrabbondanza espositiva degli atti di parte, infatti, non soltanto grava l’amministrazione della giustizia e le controparti processuali di oneri superflui, ma, lungi dall’illuminare i temi del decidere, avvolge gli stessi in una cortina che ne confonde i contorni e ne impedisce la chiara intelligenza, risolvendosi, in definitiva, in un impedimento al pieno e proficuo svolgimento del contraddittorio processuale (cfr. Cass, n.L. n. 1199 del 2012, nella cui motivazione si legge che l’eccessiva ampiezza degli scritti difensivi, pur non ponendo un problema di formale violazione delle prescrizioni dettate dalle norme processuali, “concorre ad allontanare l’obiettivo di un processo celere, che esige da parte di tutti atti sintetici, redatti con stile asciutto e sobrio”; nonchè Cass, n.9488/14, nella cui motivazione si fa espresso riferimento all’inderogabile dovere di solidarietà che responsabilizza il giudice e le parti alla luce dei principi del giusto processo ispirato al canone della ragionevole durata).

Prima della novella legislativa dell’ottobre 2022, tuttavia, il principio di sinteticità degli atti di appello non era assistito da una specifica sanzione processuale, cosicché l’incontinenza espositiva – pur quando assumeva caratteri di manifesta eccessività – non poteva determinare, di per sé stessa, l’inammissibilità dell impugnazione.

Pertanto, tale sanzione non può applicarsi per gli appelli già proposti c pendenti alla data di entrata in vigore dell’art.342 co.l c.p.c. nella formulazione introdotta dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

Per gli appelli in discorso, infatti, nel nostro ordinamento manca una esplicita sanzione normativa della prolissità e oscurità degli atti di parte. Non può, quindi, ritenersi praticabile, in assenza di una previsione normativa espressa, la sanzione della inammissibilità per l’irragionevole estensione dell’atto di impugnazione.

La violazione del principio di sinteticità, tuttavia, se per gli appelli già proposti e pendenti non determina di per sé stessa l’inammissibilità dell’impugnazione, espone al rischio di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse al provvedimento gravato e, quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni, queste sì assistite da una sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 342 c.p.c. nella precedente formulazione.

Ad ogni modo, le ragioni del gravame, svolte soltanto alla pagina 20 dell’atto di appello per quanto in precedenza precisato, non si prestano ad attaccare il nucleo essenziale della decisione adottata dal Tribunale di Matera.

1.0 Hanno, innanzitutto, sostenuto gli appellanti che “a fronte di un credito dell’importo di Euro 30.000,00 circa vantato dall’odierno attore, la cui sentenza e oggetto di appello ed in contestazione, è stato provato tramite le produzioni documentali di parte convenuta che i convenuti pur dopo la cessione dei terreni contestata rimane titolare di altri patrimoni, cespiti, questi, tutti comunque idonei a garantire il pieno soddisfacimento delle ragioni dell’attore” (v. pag.20 dell’atto di impugnazione).

Il motivo di gravame, come articolato, è inammissibile in quanto non attinge, confutandola, la motivazione resa dal primo giudice sullo specifico profilo e non ha contenuti specifici che valgano a contrastare le risultanze processuali valorizzate a mento della decisione impugnata.

Invero, il Tribunale di Matera ha ampiamente spiegato, facendo espresso richiamo al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, che ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria non è necessaria la sussistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, essendo sufficiente una ragione di credito, anche eventuale, nozione nella quale deve farsi rientrare anche il credito litigioso, cioè in contestazione, con la conseguenza che “non è ostativa alla proponibilità della domanda revocatoria la pendenza tra le stesse parti di altro giudizio avente ad oggetto l’accertamento del credito a tutela del quale si è esperita l’actio pauliana (cfr. Cass.civ.Sez.Un., 18 maggio 2004 n.9440).

Nessuna valida ed argomentata critica all’evocato passaggio della motivazione resa dal Tribunale di Matera è stata operata nell’atto di impugnazione.

Sempre nel corpo della sentenza fatta oggetto di gravame il primo giudice, in sede di verifica del carattere oggettivamente lesivo degli atti dispositivi interessati dall’azione revocatoria, ha messo in risalto che i sigg. (omissis) e (omissis) non “risultano aver dato idonea dimostrazione, non avendo neppure supportato le proprie difese con specifiche ed adeguate allegazioni argomentative al riguardo, della idoneità e sufficienza delle residue garanzie patrimoniali a consentire la soddisfazione delle ragioni di credito vantate dall’attore e già riconosciute in primo grado” (v. pag.3 della sentenza).

Tanto vale a significare che i convenuti in primo grado non abbiano né allegato, né dimostrato la sussistenza nel loro patrimonio di altri beni di significativa consistenza – diversi ed ulteriori rispetto a quelli oggetto dei due atti pubblici di compravendita interessati dall’azione revocatoria – che potessero garantire il pieno soddisfacimento delle ragioni creditorie del (omissis).

Ne consegue che nell’atto di impugnazione fosse onere degli appellanti specificare quali fossero siffatti ulteriori beni di significativa consistenza presenti nel loro patrimonio e quali fossero i documenti prodotti in primo grado dagli stessi appellanti a riscontro della sussistenza dei beni medesimi. A tale onere di specificazione gli appellanti si sono del tutto sottratti, pretendendo di fondare il motivo di impugnazione su mere asserzioni e generiche espressioni (“è stato provato tramite le produzioni do- cumentali – quali sono? – di parte convenuta che i convenuti pur dopo la cessione dei terreni contestata rimane titolare di altri patrimoni, cespiti – quali sono? – questi, tutti comunque idonei a garantire il pieno soddisfacimento delle ragioni dell ‘attore”), prive di ogni valenza argomentativa e dimostrativa.

Né può pretendersi che la Corte si faccia carico di effettuare, all’interno del materiale documentale raccolto in primo grado, la ricerca dei non meglio precisati documenti e “patrimoni” e “cespiti” evocati nell’atto di gravame e di dare in tal modo consistenza concreta al motivo di impugnazione come formulato. Invero, una siffatta attività da parte della Corte obbligherebbe il giudice ad quem ad un’opera di relazione e di supposizione che la legge processuale non gli affida: anzi, una simile ricostruzione, da parte del giudice, delle censure della parte appellante si tradurrebbe in una sostanziale opera di specificazione del motivo di impugnazione sul quale lo stesso giudice è chiamato a pronunciarsi con conseguente inevitabile violazione dei principi del contraddittorio, giacché, per l’inevitabile soggettività dei criteri che a tal fine il giudice dell’appello impiegherebbe, l’altra parte sarebbe posta nell’incertezza della censura dalla quale difendersi, potendo accertare solo dalla lettura della sentenza – e dunque a posteriori – il motivo specifico sul quale, secondo la ricostruzione operata dal giudice del gravame, era stata chiamata a contraddire.

2.0 Inoltre, gli appellanti hanno contestato che nella fattispecie in esame possa trovare spazio applicativo l’indirizzo giurisprudenziale (Cass. 21.6.1999 n.6248) a tenore del quale l’effettuazione con un unico atto dell’alienazione di diversi cespiti patrimoniali comporta in re ipsa l’esistenza e la consapevolezza del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori.

Ad avviso degli appellanti, l’esposto principio di diritto non opererebbe nel caso di specie per due ordini di motivi:

a) perché esso riguarda la valutazione dell’elemento soggettivo dell’azione ex art.2901 c.c. e “non può comunque giustificare l’accoglimento della richiesta di inefficacia indipendentemente da ogni valutazione circa gli effetti concreti dell ‘atto sulla residua garanzia” (v. pag.20 dell’atto di appello);

b) perché “l’atto di trasferimento al figlio non ha ad oggetto effettivamente diversi beni immobili quanto un unico fondo composto da più mappali limitrofi tutti siti nella medesima area sicché appare sicuramente improprio parlare di più beni ceduti e fare riferimento al sopra citato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte” (v. pag.20 dell’atto di appello).

Anche l’illustrato motivo di impugnazione palesa insuperabili profili di inammissibilità.

Nel corpo della sentenza impugnata il Tribunale di Matera non ha evocato e fatto applicazione della pronuncia resa da Cass. 21.6.1999 n.6248, come lasciato intendere dagli appellanti. Ha, invece, richiamato un principio di diritto enunciato da Cass.civ.sez.I, 8 luglio 1998 n.6676, che così recita: “Nel caso in cui un debitore disponga del suo patrimonio mediante la vendita contestuale di una pluralità di beni, 1’esistenza e la consapevolezza, sua e del terzo acquirente, del pregiudizio patrimoniale (art. 2901 nn. 1 e 2 cod. civ.) che tali atti arrecano alle ragioni del creditore, ai fini dell’esercizio da parte di quest’ultimo dell’azione pauliana, sono “in re ipsa””.

Tuttavia, contrariamente a quanto lamentato dagli appellanti, tale principio di diritto è stato applicato dal primo giudice proprio in funzione della valutazione dell’elemento soggettivo dell’azione ex art.2901 c.c., vale a dire del c.d. consilium fraudis, non già in funzione della valutazione dell’elemento oggettivo, cioè del c.d. eventus damni.

Peraltro, proprio in sede di riscontro della sussistenza dell’elemento oggettivo dell’azione ex art.2901 c.c., il primo giudice ha operato una valutazione della concreta incidenza degli atti dispositivi oggetto di revocatoria sul patrimonio dei sigg. (omissis) e (omissis) onde riscontrare 1’esistenza di un pregiudizio alla garanzia patrimoniale generica che assiste il credito vantato da (omissis).

Avverso gli esiti di siffatta valutazione gli appellanti non hanno articolato nessuna specifica argomentazione a confutazione, limitandosi, come evidenziato, a mere asserzioni ed evocazioni astratte e generiche di principi di matrice giurisprudenziale senza curare di formulare puntuali e stringenti censure alla motivazione resa sul punto dal Tribunale di Matera.

Neppure ha pregio il richiamo generico alle conclusioni rassegnate dal C.t.u. nella relazione peritale scritta depositata in primo grado, richiamo operato attraverso la mera riproduzione integrale delle conclusioni medesime, senza nessun tentativo di trarre da esse elementi di valutazione ed argomentazioni utili quanto meno ad ingenerare dubbi sulla effettiva concreta incidenza sul patrimonio dei sigg. (omissis) e (omissis) degli atti dispositivi oggetto di revocatoria.

Quanto all’assunto che tali atti dispositivi abbiano avuto ad oggetto non già una pluralità di beni, ma “un unico fondo composto da più mappali limitrofi tutti siti nella medesima area “, esso appare privo di rilevanza e neppure fondato.

Invero, con l’atto pubblico di compravendita per notaio (omissis) del (…), rep.(…), risultano trasferiti al sig. (omissis): 1) diritti di proprietà esclusiva su una abitazione al piano terra sita in (omissis), alla Via N. n.77; 2) diritti di proprietà pari a 1/2 su una piccola abitazione al piano terra sita in Grottole, con ingresso dalla Via (omissis), ma riportata in catasto al Rione Europa n.42.

Con l’ulteriore atto pubblico di compravendita per notaio (omissis) del (…), rep.(…), risultano trasferiti al sig. (omissis).: 1) diritti di proprietà esclusiva su un terreno agricolo in agro di ., alla contrada M., della superficie complessiva di ha. 33.25.43, riportato in catasto al fol.(…), p.lle nn.(…),(…),(…),(…), (…) e (…); 2) diritti di proprietà esclusiva su un terreno agricolo in agro di Grottole, alla contrada Piano del Monaco, della superficie complessiva di ha. 33.86.97, riportato in catasto al fol.(…), p.lle nn.(…), (…), (…), (…), (…),(…), (…), (…), (…), (…), (…), (…) e (…).

È evidente che il trasferimento di diritti di proprietà abbia riguardato sia due distinte ed autonome unità abitative che ulteriori due diversi ed estesi appezzamenti di terreno, sicché può a ragione configurarsi la vendita contestuale di una pluralità di beni e, quindi, applicarsi il suindicato principio di diritto enunciato dalla giurisprudenza di legittimità.

3.0 In ultimo, gli appellanti hanno contestato la ricorrenza in capo ad essi della consapevolezza di diminuire la consistenza della garanzia patrimoniale attraverso i due anzidetti atti di disposizione. Ciò sulla base delle seguenti considerazioni: “Al momento della stipula gli appellanti avevano in proprietà altri consistenti beni idonei a coprire il credito allo stato vantato. Diversamente opinando, il soggetto di un processo civile non potrebbe mai disporre delle proprietà perché il presunto creditore potrebbe contestare tutto il patrimonio dello stesso. Infatti il Tribunale non si è minimamente posto il problema se il valore degli atti fosse enormemente superiore al credito azionato, ma supinamente, dietro una valutazione sommaria della questione, ha posto sotto il vincolo l’intero bene, così rendendolo inefficace nei confronti delle parti. Questo si chiama abuso del diritto” (v. pag.24 dell’atto di impugnazione).

Il motivo di gravame, come articolato, è inammissibile.

Pur a volere ritenere superabili le oggettive difficoltà di comprendere l’esatto contenuto delle argomentazioni difensive attesi i numerosi errori di battitura (non riportati nel passaggio sopra riprodotto) e la infelice formulazione dei concetti, appare chiaro come l’impugnazione sia affidata a mere affermazioni apodittiche sprovviste dei necessari elementi specifici a corredo e riscontro.

Innanzitutto, ribadito che il Tribunale di Matera ha operato una motivazione completa sotto tutti i profili qualificanti la fattispecie sottoposta al suo scrutinio, si palesa del tutto inconsistente la anodina affermazione che “al momento della stipula gli appellanti avevano in proprietà altri consistenti beni idonei a coprire il credito allo stato vantato”.

Il primo giudice ha ampiamente argomentato sul presupposto dell’azione revocatoria rappresentato dal c.d. eventus damni, cioè dal fatto che l’atto di disposizione del trimonio del debitore abbia pregiudicato le ragioni del creditore.

Giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che tale pregiudizio comprenda sia il danno attuale, sia il danno potenziale, e che per la sua sussistenza non sia necessario un danno effettivo, ma sia sufficiente un pericolo di danno, derivante, ad esempio, da una minore aggredibilità dei beni del debitore o da maggiore incertezza o difficoltà nell’esazione coattiva del credito. In particolare, è stato rilevato che non è necessaria la sussistenza di una diminuzione quantitativa dei beni (il cui valore oggettivo può restare anche immutato), ma è sufficiente che si produca un mutamento qualitativo il quale comporti, ad esempio, una maggiore occultabilità dei medesimi, come nel caso di sostituzione di beni immobili con beni mobili.

In altri termini, sono revocabili non solo quegli atti che abbiano diminuito il patrimonio del debitore al di sotto della soglia della piena capienza, ma anche quelli che ne abbiano alterato le componenti al punto da ingenerare il rischio che il creditore debba intraprendere un’esecuzione forzata più incerta o difficoltosa.

Posto che il C.t.u. ha stimato in Euro 33.712,00 il valore delle unità immobiliari oggetto dell’atto pubblico di compravendita per notaio P. del 23.3.2012, rep.(…), ed in Euro 247.317,30 il valore dei terreni oggetto dell’atto pubblico di compravendita per notaio (omissis) del 23.3.2012, rep.(…), non può dubitarsi che i predetti atti di disposizione, per la loro rilevanza in relazione all’entità del credito vantato dal (omissis) (pari ad Euro 33.667,19 oltre interessi e rivalutazione nonché i.v.a.), risultino idonei ad intaccare la capacità patrimoniale dei debitori, (omissis) e (omissis).

Pertanto, gravava su questi ultimi, onde ottenere il rigetto della domanda revocatoria, l’onere di dimostrare che il loro patrimonio residuo fosse sufficiente e solido, tale comunque da fronteggiare qualsiasi esecuzione o aggressione e soddisfare le ragioni del loro creditore. Eppure i sigg. (omissis) e (omissis) non hanno assolto a tale onere probatorio, come sottolineato dal giudice di prime cure nella sentenza impugnata e già in precedenza messo in evidenza.

Nell’atto di impugnazione gli appellanti hanno ritenuto di contrastare sul punto la decisione del primo giudice sulla base della mera affermazione che “al momento della stipula gli appellanti avevano in proprietà altri consistenti beni idonei a coprire il credito allo stato vantato”, senza specificare quali fossero siffatti ulteriori consistenti beni presenti nel loro patrimonio e quali fossero i documenti prodotti in primo grado a riscontro della sussistenza dei beni medesimi.

Del tutto inconsistente è, poi, l’opinione che “il soggetto di un processo civile non potrebbe mai disporre delle proprietà perché il presunto creditore potrebbe contestare tutto il patrimonio dello stesso”. L’azione revocatoria ex art.2901 c.c. è esercitarle ed accoglibile esclusivamente ove ricorrano i presupposti previsti dalla legge, trattandosi di uno strumento diretto alla tutela del creditore, a cui è fornita la facoltà, ricorrendo determinate condizioni, di domandare la declaratoria di inefficacia, in proprio favore, degli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore abbia generato pregiudizio alle sue ragioni creditorie. In tale ottica, “il soggetto di un processo civile” ben può disporre dei beni di sua proprietà purchè non pregiudichi in tal modo le ragioni del creditore, rendendo il suo patrimonio incapiente rispetto all’entità del credito o alterandone le componenti al punto da ingenerare il pericolo che l’esecuzione forzata, che il creditore eventualmente volesse intraprendere, possa avere esito negativo o anche insufficiente.

Infine, gratuite ed infondate si rivelano le accuse rivolte al Tribunale di Matera di non essersi minimamente posto il problema se il valore degli atti fosse enormemente superiore al credito azionato, ma supinamente, dietro una valutazione sommaria della questione, ha posto sotto il vincolo l’intero bene, così rendendolo inefficace nei confronti delle parti. Addirittura gli appellanti hanno adombrato in tale condotta ascritta al Tribunale gli estremi di un abuso del diritto.

Premesso che la difesa degli appellanti nella frettolosa e raffazzonata redazione del motivo di impugnazione ha erroneamente parlato di “valore degli atti” volendo similmente intendere “valore dei beni residui”, va ribadito che la valutazione di cui è stata lamentata la omissione è stata, invece, operata dal primo giudice anche alla stregua degli esiti della disposta consulenza tecnica d’ufficio. Per converso, è mancata del tutto nell’atto di gravame la puntuale articolazione dei motivi per i quali detta valutazione debba considerarsi sommaria e, in quanto tale, non conforme al dettato normativo.

Neppure gli appellanti hanno chiarito a cosa intendessero riferirsi nel sostenere che il Tribunale di Mutera, sulla base della presunta valutazione sommaria, “ha posto sotto il vincolo l’intero bene, così rendendolo inefficace nei confronti delle parti”. Probabilmente è sfuggito alla difesa degli appellanti che l’azione ex art.2901 c.c., ove esperita vittoriosamente, non determina il travolgimento dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore, ma comporta semplicemente l’inefficacia di esso nei soli confronti del creditore che la abbia vittoriosamente esperita, per consentire allo stesso di esercitare sul bene oggetto dell’atto l’azione esecutiva ai sensi degli artt. 602 e seguenti del codice di procedura civile per la realizzazione del credito. Quindi, la declaratoria di inefficacia ex art.2901 c.c. investe soltanto l’atto di disposizione, non imprime nessun vincolo sul bene oggetto dell’atto (vincolo che sorge esclusivamente per effetto del pignoramento sempre che il creditore si determini ad agire in via esecutiva) e, di conseguenza, non può riguardare una parte soltanto del bene o lo stesso nella sua interezza.

In conclusione, l’appello proposto da (omissis) e (omissis) è inammissibile e, comunque, del tutto infondato.

– Segue per legge la condanna in solido di (omissis) e (omissis), in quanto parte soccombente, al pagamento, in favore di (omissis), delle spese processuali relative al presente grado di giudizio nella misura liquidata in dispositivo sulla base delle tariffe di cui al Decreto 10.3.2014 n.55 in riferimento al valore della causa (valore indeterminato; scaglione da Euro 26.000,01 a Euro 52.000,00), senza il riconoscimento di nessun compenso per la fase istruttoria e/o di trattazione non essendo stata svolta in concreto attività processuale qualificabile in chiave di istruttoria o di trattazione.

A tale proposito, giova precisare che non trovano applicazione le tariffe di cui al più recente D.M. 8 marzo 2018, n. 37, non avendo esso modificato, con riguardo al giudizio di appello, i parametri generali per la determinazione dei compensi fissati dal precedente D.M. n. 55 del 2014, e neppure le ultimissime tariffe di cui al D.M. n. 147 del 2022, giacché l’art.6 del Decreto 13.8.2022 n.147 (pubblicato su G.U. n.236 dell’8.10.2022) prevede espressamente che “Le disposizioni di cui al presente regolamento si applicano alle prestazioni professionali esaurite successivamente alla sua entrata in vigore”, entrata in vigore che è fissata nel 15 giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La presente causa è stata trattenuta in decisione il 18.10.2022.

– Ritiene la Corte che sussistano i presupposti per la pronuncia d’ufficio della condanna degli appellanti al pagamento, in favore del (omissis), di una somma di denaro equitativamente determinata, ai sensi dell’art.96 co.3 c.p.c., norma quest’ultima che trova applicazione nel caso di specie essendo stato il giudizio promosso in primo grado dopo l’entrata in vigore della norma stessa, introdotta dall’art.45 co.12 della L. 18 luglio 2009, n. 69.

La disposizione dell’art. 96 comma 3 c.p.c. prevede che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

La fattispecie di cui all’art. 96 co.3 c.p.c. è una figura iuris estranea alla responsabilità aquiliana.

La norma – come ha rilevato la dottrina più avvertita – configura una “sanzione di ordine pubblico”, dettata, con finalità di deflazione del contenzioso, nell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso del processo e di quelle condotte processuali che determinano una violazione delle regole del giusto processo e della sua ragionevole durata. Con l’istituto previsto nell’art. 96 co.3 c.p.c. il legislatore ha inteso affidare al giudice uno strumento per reprimere, nell’interesse generale della collettività, il c.d. “abuso del processo”; abuso che ricorre quando lo strumento processuale venga piegato a finalità devianti rispetto alla “tutela dei diritti e degli interessi legittimi” per il quale l’art. 24 Cost., comma 1, garantisce il ricorso al giudice.

Questa visione dell’istituto, d’altra parte, è stata fatta propria dalla Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 152 del 2016 – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96 co.3 c.p.c. in relazione agli artt. 324 e 111 Cost. – ha rilevato che la previsione di tale disposizione ha natura non tanto risarcitoria del danno cagionato alla controparte dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, aggravando il volume del contenzioso; ciò – secondo il giudice delle leggi – è confermato, sul piano testuale, dal riferimento al “pagamento di una somma”, che segna una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni” di cui ai precedenti commi del medesimo articolo, e dall’adottabilità della condanna “anche d’ufficio”, che la sottrae all’impulso di parte e ne attesta la finalizzazione alla tutela di un interesse trascendente quello della parte stessa e colorato di connotati pubblicistici.

La stessa Corte costituzionale non ha mancato di osservare che la motivazione che ha indotto il legislatore a porre a favore della controparte la condanna del soccombente è plausibilmente ricollegabile all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente allo strumento deflattivo, sul verosimile presupposto che la parte vittoriosa possa provvedere alla riscossione in tempi e con oneri inferiori a quelli gravanti su un soggetto pubblico; osservando poi che l’istituto così modulato è suscettibile di rispondere anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata da un’ingiustificata chiamata in giudizio) nelle non infrequenti ipotesi in cui sia per essa difficile provare, ai fini del risarcimento per lite temeraria, l’an o il quantum del danno subito.

La fattispecie di cui all’art. 96 co.3 c.p.c. non prevede alcun elemento soggettivo, quale suo elemento costitutivo; non è richiesto cioè, ai fini della condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, il riscontro che la parte abbia agito o resistito con dolo o colpa grave. In tal senso si è espressa la più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass.Sez. 6-2, Ordinanza n.20018 del 24/09/2020Cass.Sez. 6-3, Ordinanza n.29812 del 18/11/2019Cass.civ.sez.II, 21 novembre 2017 n. 27623Cass. civ.sez.VI, 10 settembre 2018 n. 21943).

Nel caso di specie, non pare possa dubitarsi della configurabilità dei presupposti applicativi dell’art. 96 co.3 c.p.c., dovendosi addebitare agli appellanti una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo” per avere agito, in sede di impugnazione, pretestuosamente e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione.

Invero, l’appello proposto da (omissis) e (omissis) evidenzia insuperabili profili di inammissibilità, in precedenza messi in risalto, e non risulta ancorato a motivi ben strutturati e dotati di una logica interna apprezzabile, né ad una interpretazione di norme sostanziali e processuali differente da quella valorizzata dal primo giudice, bensì ad una insistita reiterazione di argomentazioni puramente astratte e generiche, prive di spessore giuridico e di fondamento in funzione di contrasto alla decisione impugnata, e ad una sterile e ridondante elencazione di principi di matrice giurisprudenziale del tutto sganciati da specifiche e puntuali censure mosse ai contenuti della decisione del primo giudice, sicché appare ragionevole concludere che l’appello integri un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata del processo ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

Per espressa scelta normativa, la pronuncia ex art.96 co.3 c.p.c. può essere effettuata d’ufficio, senza bisogno di instaurare il contraddittorio sul punto e senza che sia provato un danno di controparte, e non ha limite nella determinazione dell’importo della condanna, come invece vi era nell’art. 385 c.p.c. ora abrogato.

Ciò detto, stimasi equo indicare in Euro 3.000,00, cioè in ima somma prossima alla metà delle spese di lite, l’entità della condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c.

– Va rilevato, in ultimo, che, per effetto dell’art.l co. 17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, è stato introdotto il comma 1 – quater all’art.13 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. spese di giustizia) che così recita: “7 – quater. Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge nel momento del deposito dello stesso”.

Ai sensi dell’art.l co.18 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, la suindicata disposizione si applica ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della L. n. 228 del 2012, sicché, risalendo all’1.1.2013 l’entrata in vigore del chiamato testo normativo, la disposizione medesima è operativa per tutti i procedimenti in grado di appello iscritti a ruolo a partire dal giorno 31 gennaio 2013.

Nel caso di specie, il presente giudizio di appello è stato iscritto a ruolo il giorno 13.12.2016 e l’appello proposto da (omissis) e (omissis) è stato riconosciuto integralmente inammissibile e, comunque, rigettato.

Pertanto, sussistono nel caso di specie i presupposti per l’applicazione dell’art.13 co.l – quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. spese di giustizia), introdotto dall’art.l co.17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228.

Ne consegue che (omissis) e (omissis) siano tenuti in solido a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da loro dovuto per la impugnazione proposta.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Potenza – Sezione Civile, definitivamente pronunciando sull’appello avverso la sentenza n.1351/2016 emessa dal Tribunale di Matera in composizione monocratica il 3.10.2016 e pubblicata il 12.10.2016, proposto da (omissis) e (omissis) con atto di citazione notificato il 5.12.2016 nei confronti di (omissis) e (omissis), uditi i procuratori delle parti costituite, ogni altra istanza, difesa, eccezione e deduzione respinta, così provvede:

– Dichiara la contumacia dell’appellato (omissis);

– Dichiara interamente inammissibile e, in ogni caso, rigetta l’appello proposto da (omissis) e (omissis) con atto di citazione notificato il 5.12.2016 e, per l’effetto, conferma la sentenza n.1351/2016 emessa dal Tribunale di Matera in composizione monocratica il 3.10.2016 e pubblicata il 12.10.2016;

– Condanna in solido (omissis) e (omissis) al pagamento, in favore di (omissis), delle spese processuali relative al presente grado di giudizio che liquida nella somma complessiva di Euro 6.615,00 per compensi professionali, oltre maggiorazione spese generali, IVA e CAP come per legge;

– Condanna in solido (omissis) e (omissis) al pagamento, in favore di (omissis), della somma di Euro 3.000,00 ai sensi dell’art.96 comma 3 c.p.c.

Si dà atto della sussistenza, ai sensi dell’art.13 co.l-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 come introdotto dall’art.l co.17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228. dei presupposti perché parte appellante – (omissis) e (omissis) – sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione dalla stessa parte proposta.

La presente sentenza per legge è provvisoriamente esecutiva tra le parti.

Così deciso in Potenza nella camera di consiglio del 10 febbraio 2023 svoltasi mediante collegamento da remoto.

Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2023.

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