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Corte di Appello di Perugia sez. lav., 24/04/2018, n. 88

Massima

Il mobbing si configura quale insieme di condotte, anche eterogenee, di natura persecutoria, le quali — pur potendo risultare lecite se considerate singolarmente — assumono connotazione illecita ove poste in essere in modo sistematico, reiterato e prolungato nel tempo, con finalità vessatoria nei confronti del lavoratore, determinando un ambiente professionale ostile e lesivo della dignità e dell’integrità psicofisica del dipendente.

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

MOBBING

Per “mobbing” si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima. ome chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.

Nell’ordinamento italiano non esiste una norma di legge specificamente dedicata al fenomeno del mobbing. A livello di legge ordinaria, viene in rilievo l’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che, secondo le particolarità dell’attività svolta, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro; la L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il cui art. 15, in particolare, sancisce la nullità di patti o atti diretti a realizzare forme di discriminazione sul luogo di lavoro; il D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), i cui artt. 25 e seguenti sono specificamente dedicati al contrasto delle discriminazioni nei luoghi di lavoro; il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro), il cui art. 28 impone di considerare tra i rischi per la salute dei lavoratori anche quelli derivanti da condizioni di stress lavoro-correlato. Non esiste nella legislazione vigente uno specifico reato di mobbing.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto/diritto

1. La controversia trae origine dalla domanda proposta, in primo grado, da T.S., nei confronti di Equitalia Centro S.P.A., con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Perugia – sezione lavoro, in data 1 dicembre 2010, diretta ad ottenere il risarcimento dei danni di natura professionale, biologica, esistenziale e morale derivanti dalla condotta asseritamente discriminatoria e “mobbizzante” posta in essere dal datore di lavoro nel corso del rapporto.

La resistente Equitalia Centro S.P.A. si era costituita in giudizio eccependo l’omissione o l’assoluta incertezza degli elementi di cui all’art. 414 numeri 3) e 4) c.p.c. e contestando, in ogni caso, nel merito, la fondatezza della domanda.

2. Con sentenza n. 553/14, il Tribunale di Perugia – sezione lavoro, dichiarata la nullità di ogni altra domanda risarcitoria, rigettava la domanda di risarcimento danni per “mobbing” e condannava il ricorrente alla refusione, in favore della controparte, delle spese del procedimento, liquidate in Euro 3.513,00 per compenso professionale, oltre accessori.

Secondo il primo giudice doveva innanzitutto dichiararsi la nullità di non meglio precisate domande di risarcimento, in relazione a condotte qualificate come “fonte autonoma di danni” a pag. 5 della memoria autorizzata, non emergendo le stesse con chiarezza dal ricorso, fatta salva la domanda di risarcimento per “mobbing”.

Quanto, invece, al “mobbing”, ad avviso del giudicante, i fatti dedotti nel ricorso risultavano di minima rilevanza e si collocavano nel quadro di un teso rapporto sindacale da cui erano scaturite aspre e reciproche critiche.

3. Con ricorso depositato in data 6 febbraio 2015, T.S. proponeva appello avverso la sentenza di primo grado, chiedendone l’integrale riforma e, per l’effetto, l’accoglimento della domanda di risarcimento danni proposta in primo grado.

Si costituiva Equitalia Centro S.P.A. contestando il gravame di cui chiedeva il rigetto.

All’udienza del 29 novembre 2017, il procuratore di Equitalia Centro S.P.A. dichiarava che la società dal medesimo rappresentata si era estinta a far data dal 1 luglio 2017 e, pertanto, la Corte dichiarava l’interruzione del processo.

Con ricorso depositato in data 7 febbraio 2018 T.S. riassumeva il processo nei confronti dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, subentrata a Equitalia Centro S.P.A.

Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate – Riscossione, con memoria difensiva, contestando il ricorso del T., di cui chiedeva il rigetto perché infondato in fatto e diritto.

La Corte, con ordinanza del 30 gennaio 2019, rilevata la nullità della procura alle liti rilasciata dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione all’avv. M.R.L., alla luce dei principi sanciti dalle sentenze della Corte di Cassazione n. 28741/2018 e n. 28684/2018, assegnava alla parte termine fino al 31 marzo 2019 per munirsi di una valida procura.

Quindi, l’Agenzia delle Entrate – Riscossione si costituiva tempestivamente a mezzo dell’Avvocatura dello Stato contestando la fondatezza del gravame di cui chiedeva il rigetto.

4. L’appellante evidenzia innanzitutto che la sentenza impugnata ha completamente omesso di considerare la circostanza che da un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato (decreto giudice del lavoro di Perugia del 18 novembre 2009), con cui Equitalia Perugia era stata condannata per condotta antisindacale ex art. 28 dello statuto dei lavoratori, risultava accertato che il T. aveva subito un grave demansionamento di natura discriminatoria posto in essere a ritorsione dell’attività sindacale posta in essere dal medesimo. Peraltro, il principio che il T. avesse subito un grave demansionamento era stato affermato anche dalla sentenza della Corte di Appello di Perugia, che aveva riformato solo parzialmente la pronuncia del Tribunale di Perugia n. 73/11, in relazione alla mancata deduzione del danno, per il demansionamento subito dall’allora Sorit tra il 2001 ed il 2003 (giudizio ancora pendente in cassazione alla data del deposito dell’atto di gravame).

Ciò premesso, l’appellante, si duole, in primo luogo, che il primo giudice abbia del tutto omesso di esaminare la domanda di risarcimento per demansionamento, sulla base dell’erroneo presupposto che dal ricorso non fossero evincibili domande diverse dal risarcimento per “mobbing”, laddove in vari punti del ricorso di primo grado si faceva riferimento espresso al demansionamento subito dal ricorrente.

Ciò posto, ad avviso dell’appellante, l’evidente discriminazione nell’assegnazione del ricorrente a mansioni dequalificanti risulta testualmente dal provvedimento ex art. 28 emesso dal Tribunale di Perugia il 18 novembre 2009 e, pertanto, tale circostanza è da considerarsi fonte autonoma di risarcimento danni.

Al riguardo l’appellante evidenzia: che la nuova assegnazione di mansioni, quale addetto al “front office”, non trovava alcuna giustificazione tecnico organizzativa; che la stessa si risolveva, nell’ambito delle aziende di riscossione tributi, nelle due attività di cassiere e/o informatore al pubblico presso lo sportello; che si trattava di attività assolutamente non comparabili con quelle specialistiche disimpegnate fino allora dal T.; che le mansioni di “back office” che l’azienda aveva assegnato al T. a seguito del decreto emesso dal Tribunale ai sensi dell’art. 28, di cui il medesimo era venuto a conoscenza solo dinanzi al giudice del lavoro, nel corso di un’udienza svolta in sede di opposizione ad altro decreto per condotta antisindacale – stante l’impossibilità di accedere alla propria casella di posta elettronica in conseguenza del deposito del proprio computer nei magazzini della direzione generale – non erano assolutamente equivalenti a quelle svolte in precedenza dal ricorrente, trattandosi di attività tipicamente riferite all’area “produzione”, già svolte dal T. nel periodo 1990 – 1995 (unitamente ad altre più qualificanti), quando tuttavia egli rivestiva l’inquadramento inferiore di 2 livello della 3^ area; che il fatto che il T. avesse fruito di permessi sindacali nulla toglieva alla illegittimità della condotta del datore di lavoro, in quanto il demansionamento era stato già accertato definitivamente con il Provv. del 18 novembre 2009.

Ad integrazione di ciò, l’appellante sottolinea che tale condotta diretta a dequalificare il medesimo aveva avuto dirette conseguenze sulla sua carriera, ostacolandone lo sviluppo, sia con riferimento al mancato superamento della prova selettiva per quadro, in cui si classificava settimo (su tre posti) nonostante (a detta di tutti i presenti) l’ottima prova orale sostenuta, sia in relazione al mancato passaggio dal 3 al 4 livello della 4^ area, negli anni 2008 e 2009, essendosi classificato 24, nonostante che egli avesse conseguito il giudizio di “ottimo” nella scheda valutativa del 2008 con il massimo punteggio (280); peraltro, l’appellante si lamenta anche del fatto che la valutazione del 2008 fosse stata confermata per il 2009 (come se non avesse prestato alcuna attività lavorativa) mentre egli avrebbe avuto diritto ad una nuova valutazione avendo lavorato 83 giorni nel 2009 al netto di ferie, permessi e malattie. In tale periodo, peraltro, si era verificato l’episodio che aveva irritato il direttore operativo di Equitalia (dott. C.), allorquando nell’ambito di un modulo aziendale il T. aveva auspicato di poter ricoprire l’incarico di direttore operativo, e ciò aveva influito negativamente sull’esito delle citate selezioni.

Alla penalizzazione professionale l’appellante aggiunge la circostanza di non essere stato posto nelle condizioni di partecipare ai corsi di formazione professionale promossi da Equitalia, non essendogli stato possibile ricevere comunicazioni via e-mail (dato che il suo computer era depositato nei magazzini della direzione generale almeno fino a febbraio del 2010), ed avendo il datore di lavoro ignorato la circostanza che egli aveva eletto il proprio domicilio presso il sindacato FISAC/CGIL.

Riguardo al danno economico subito per il mancato avanzamento di carriera, l’appellante lo quantifica rapportandolo al differenziale contrattuale, nazionale ed aziendale, tra l’attuale inquadramento e quelli superiori non conseguiti, pari, su base annua, ad Euro 2.477,02, per la mancata promozione al 4 livello, e ad Euro 7.934,13 per la mancata promozione al 1 livello quadri.

In secondo luogo, l’appellante si duole che il primo giudice abbia completamente omesso di considerare come il decreto emesso il 18 novembre 2009 avesse accertato che il demansionamento era avvenuto quale reazione all’attività sindacale svolta dal lavoratore e che, pertanto, si trattava di un comportamento discriminatorio costituente di per sé un illecito fonte di risarcimento danni in favore di chi ne sia stato vittima. In terzo luogo, l’appellante si duole che il giudice di primo grado non abbia affatto esaminato gli specifici rilevi formulati in ordine alla condotta palesemente illegittima e di natura persecutoria e vessatoria (c.d. “mobbing”) posta in essere da Equitalia nei confronti del T. in un arco di tempo protrattosi dal 5 maggio 2009 al 16 novembre 2010.

Al riguardo, l’appellante evidenziava le seguenti condotte poste in essere dal datore di lavoro in suo danno: il demansionamento attuato per ragioni di discriminazione sindacale; le dichiarazioni pesantissime rese in sede di tavolo sindacale dal C. e dal B.; l’intimidazione posta in essere dal direttore operativo dott. C. il quale aveva disposto che la scheda, in cui il T. aveva scritto di voler ricoprire le cariche apicali della società, venisse inserita nel fascicolo personale; le espressioni utilizzate dalla difesa di Equitalia nella memoria di costituzione di altro giudizio per repressione di condotta antisindacale, in cui il T. veniva definito “strafottente, arrogante e provocatore”; l’accusa rivoltagli dal direttore generale dott. A., di aver presentato un esposto alla Corte dei Conti il giorno del decesso del padre al fine di infliggergli una crudeltà; il discredito gettato dallo stesso dott. A., nei confronti del T., per aver accusato dinanzi ad altri colleghi il T. di aver detto che il lavoro degli addetti al pubblico fosse dequalificante; il comportamento tenuto dal direttore del personale, dott. T., il quale, avendo notato il T. negli uffici della direzione generale dedito ad attività di proselitismo, gli consegnava la scheda di valutazione personale e l’invitava a recarsi presso lo sportello ove gli era stata approntata una postazione di lavoro, così ostacolandolo nell’esercizio dell’attività sindacale; l’insistente reiterazione delle convocazioni del T. per sottoporsi a visita presso la ASL per accertare l’idoneità sanitaria alle mansioni di “front office”, nonostante la questione fosse stata risolta dal provvedimento con cui il giudice aveva condannato il datore di lavoro a riassegnare al lavoratore le mansioni precedentemente svolte o altre equivalenti, evidentemente perché Equitalia voleva far pendere sul lavoratore la spada di Damocle della minaccia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo; la finalità antisindacale dell’assegnazione del T. alle attività di “front office”, per ragioni logistiche legate all’ubicazione della postazione lavorativa, adottata peraltro senza considerare le problematiche derivanti dall’esercizio di mansioni comportanti contatti diretti con l’utenza legate al trauma psico fisico sofferto dal medesimo T. a seguito delle rapine a mano armata che l’avevano coinvolto quando lavorava presso la C.R. S.P.A. negli anni 1988 e 1989.

Infine, accertata la illegittimità della condotta posta in essere dall’appellata, l’appellante ribadisce le richieste di risarcimento dei danni di natura patrimoniale (danno professionale) e non patrimoniale (danno biologico, esistenziale e morale).

5. Preliminarmente, a fronte di quanto osservato dalla difesa dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione (note depositate telematicamente dall’avv. R.L.M. e comparsa di costituzione depositata telematicamente dall’Avvocatura dello Stato), si ribadisce l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione (ex multis, 28741/18e n. 28684/2018) nel senso della nullità della procura conferita dall’Agenzia delle Entrate Riscossione ad un difensore di libero foro in mancanza di una delibera autorizzativa motivata e specifica per la singola controversia.

Detto orientamento sostiene, in sintesi, che nel quadro normativo costituito dal combinato disposto dell’art. 1, comma 8, del D.L. n. 193 del 2016 convertito con modificazioni nella L. n. 225 del 2016 e dell’art. 43 del R.D. n. 1611 del 1933, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, nei giudizi pendenti intrapresi da e nei confronti delle soppresse società del gruppo Equitalia ma anche in quelli nuovi, possa affidare, svincolandosi dal patrocinio facoltativo erariale, un mandato difensivo ad avvocati del libero Foro subordinatamente alla presenza sia di un atto organizzativo generale sia di una delibera specifica per ogni singolo contenzioso da sottoporre agli organi di vigilanza.

Mancando tutto ciò nella fattispecie in esame, la procura rilasciata dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione all’avv. M.R.L., come già statuito nell’ordinanza emessa in data 30 gennaio 2019, è nulla.

6. Ciò premesso, l’appello è infondato in tutte le sue articolazioni.

6.1. Sul demansionamento o, per meglio dire, sulla dequalificazione, va detto, innanzitutto, che non vi è dubbio che, fino al 31 agosto 2009, il T. abbia svolto mansioni confacenti al suo inquadramento, dolendosi dell’assegnazione a mansioni di “front office”, disposte a decorrere dal 1 settembre 2009 e ponendo a fondamento di ciò il provvedimento emesso dal Tribunale di Perugia in data 18 novembre 2009, in sede di repressione di condotta antisindacale, nel quale veniva accertato che al T. erano state assegnate mansioni (quelle di “front office”) diverse ed inferiori rispetto a quelle svolte nelle precedenti collocazioni lavorative.

Tuttavia, occorre chiarire che è pacifico che, a partire dal 1 settembre 2009, il T. è stato distaccato per sua scelta, a tempo pieno, presso il proprio sindacato FISAC-CGIL e ciò ha comportato l’inoperatività in concreto del provvedimento di assegnazione del T. alle mansioni di “front office”.

Date queste premesse, è oggettivamente impossibile parlare di dequalificazione, in quanto non si è verificato in concreto l’evento (cioè l’adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti) che avrebbe potuto cagionare un danno risarcibile da parte del datore di lavoro.

Ed infatti, è evidente che l’appellata non può essere ritenuta responsabile di quanto avvenuto successivamente al 31 agosto 2009, atteso che il T. ha ininterrottamente fruito di permessi sindacali cessando così di rendere la propria prestazione lavorativa ed, in particolare, non assumendo mai le funzioni di addetto al “back office” che gli erano state assegnate dal datore di lavoro a seguito del decreto emesso dal Tribunale di Perugia ai sensi dell’art. 28, che aveva affermato che le funzioni di “front office” erano meno qualificate rispetto a quelle svolte dal lavoratore precedentemente.

D’altro canto, il ricorrente non ha ben chiarito in cosa si sarebbe concretizzata la dequalificazione di cui afferma l’esistenza, in particolare non specificando quali sarebbero state le mansioni inferiori in concreto svolte, che avrebbero comportato un impoverimento del proprio bagaglio professionale, né del resto avrebbe potuto farlo, in quanto, come si è già detto, egli non ha mai iniziato a lavorare né come addetto al “front office”, né come addetto al “back office”.

Né può bastare, al fine dell’accoglimento di una domanda di risarcimento danni, quale quella che è stata formulata dal T., l’esistenza di un mero provvedimento datoriale di assegnazione del lavoratore a mansioni non consone rispetto a quelle svolte in precedenza, anche se disposto per ragioni antisindacali, dato che il mancato espletamento di tali mansioni rappresenta evidentemente un fatto impeditivo alla realizzazione dell’evento fonte di responsabilità risarcitoria.

A maggior ragione, poi, nessuna dequalificazione può sostenersi con riferimento alle mansioni di addetto al “back office”, assegnate al lavoratore a seguito del decreto emesso dal Tribunale di Perugia ai sensi dell’art. 28, posto che, con riferimento a queste ultime, difetta qualsiasi accertamento giurisdizionale del fatto che si tratti di mansioni non equivalenti a quelle svolte precedentemente, sicché costituisce una pura illazione affermare l’elusione del provvedimento giurisdizionale, in difetto di un concreto espletamento delle mansioni attribuite, che consenta di effettuare l’operazione di raffronto tra le vecchie e le nuove mansioni, necessaria nell’ambito del giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento danni derivanti da dequalificazione.

Nessun rilievo assume, poi, la dequalificazione che il ricorrente riferisce di aver subito con riferimento ai fatti avvenuti negli anni tra il 2001 ed il 2003, trattandosi di situazioni estranee al presente giudizio ed in ordine alle quali, in ogni caso, è intervenuto il giudicato a seguito della recente sentenza della Corte di Cassazione n. 23932/18, depositata il 26 settembre 2018, la quale, nel confermare la sentenza n. 25/13 di questa Corte, ha richiamato i seguenti principi utili anche ai fini della risoluzione dell’odierno giudizio: “.. questo collegio intende dare continuità all’orientamento della Corte secondo il quale (Cass. n. 29047 del 2017 e, in precedenza, n. 1327 del 2015) il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale ..”.

Calando tali principi nella fattispecie che qui ci occupa, non è sufficiente allegare l’inadempimento datoriale accertato nel provvedimento di repressione di condotta sindacale, avente ad oggetto l’assegnazione di mansioni non confacenti alla professionalità acquisita dal ricorrente, occorrendo anche allegare il danno ed il nesso di causalità con l’inadempimento, elementi che evidentemente il ricorrente non era in grado di fornire non essendo l’impoverimento della sua professionalità una conseguenza dell’assegnazione delle mansioni di front (o “back”) – office, ma semmai della sua libera scelta di fruire ininterrottamente di permessi sindacali.

Né può, infine, dedursi, sulla base delle esposte considerazioni, un nesso di consequenzialità tra la condotta posta in essere dal datore di lavoro ed il mancato sviluppo della carriera secondo quanto auspicato dal ricorrente (promozione a quadro e passaggio al 4 livello).

6.2. In ordine alla discriminazione subita in ragione dell’attività sindacale, in appello (pagg. 23-24) e nel ricorso in riassunzione (pagg. 17-18), viene accennata una domanda di risarcimento dicendosi solo che tale discriminazione costituisce autonoma fonte di risarcimento nei confronti di chi sia stato vittima di tale condotta.

Vale anche in ordine a questa domanda quanto si è detto in merito alla domanda di risarcimento per dequalificazione, dovendo escludersi l’automaticità del risarcimento, in mancanza di prova del danno, stante la non attuazione del provvedimento datoriale di assegnazione a mansioni inferiori, e del nesso di causalità con l’atto illecito.

6.3. Passando alle censure mosse avverso la reiezione della domanda di risarcimento danni relativamente al c.d. “mobbing”, va detto che il primo giudice ha operato una corretta lettura degli atti, escludendo che gli episodi segnalati dal ricorrente fossero tali da raggiungere il minimo necessario di reiterazione e gravità tale da portare al riconoscimento del c.d. “mobbing”.

Va innanzitutto ricordato il consolidato orientamento del giudice di legittimità secondo il quale il “mobbing” ricorre in presenza di:

1) una serie di comportamenti (datoriali, o di superiori, o di colleghi) che presentino le caratteristiche di cui si dirà, 2) l’evento lesivo, 3) il rapporto causale fra le condotte e l’evento, 4) un intento persecutorio che accomuni tutte le condotte. Queste ultime rilevano ai fini in esame quando: siano sistematiche e durevoli nel tempo, abbiano caratteristiche di persecuzione e di discriminazione (Cass. n. 4774/06); si tratti di una “molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio” (Cass. n. 3785/09); siano protratte nel tempo e dirette alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente (Cass. n. 18093/13); siano sistematiche e protratte nel tempo e si risolvano, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico (Cass. n. 18836/13); abbiano carattere persecutorio e siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo (Cass. n. 17698/14). È evidente, alla luce di quanto detto, che l’elemento temporale e quello soggettivo sono essenziali per la configurabilità del mobbing, sicché in tale prospettiva possono rilevare solo condotte sistematiche, reiterate nel tempo ed accomunate da un intento persecutorio.

Di tutto ciò non è stata dimostrata l’esistenza, in mancanza di deduzione, come correttamente affermato dal giudice di primo grado, di alcun comportamento vessatorio prolungato nel tempo ed intenzionalmente persecutorio in danno dell’appellante.

I fatti denunciati dall’appellante si sarebbero svolti dal 5 maggio 2009 al 16 novembre 2010.

Proprio in ordine al primo di tali episodi (accaduto il 5 maggio 2009), quello riguardante l’inserimento nel fascicolo personale del T., su disposizione del direttore operativo A.C., della scheda valutativa dell’anno 2008 nella quale il T. auspicava di ricoprire gli incarichi apicali dell’azienda, si riporta quanto già statuito da questa Corte con sentenza del 23 febbraio 2015 passata in cosa giudicata: “L’appellante, ancora, lamenta che sia stato inserito nel fascicolo personale del dipendente S.T., rappresentante della FISAC nell’Equitalia, il documento contenente la scheda di valutazione per l’anno 2008 redatta dal lavoratore, con l’annotazione specifica d’inserimento. Secondo l’associazione ricorrente, poiché la scheda sarebbe stata inserita, il sottolinearne per iscritto l’obbligo di inserimento nel fascicolo avrebbe avuto il significato di porre in evidenza le espressioni contenute nella scheda stessa, con un fine discriminatorio. In realtà, poiché è pacifico che la scheda dovesse essere inserita, l’annotazione formale circa la necessità dell’allegazione al fascicolo personale non aveva alcuna valenza, né positiva né negativa. Al contrario, le informazioni contenute nella scheda, provenienti dal dipendente, avevano un chiaro tono polemico ed irridente. Nella sezione del questionario in cui doveva indicare quali mansioni avrebbe desiderato disimpegnare, il T. aveva infatti scritto: Presidente C.D.A. – Direttore Generale – Direttore del personale – Direttore operativo. Peraltro, si deve notare come l’inserimento nel fascicolo personale di quella scheda, datata 24 febbraio 2009, non abbia influenzato negativamente l’azienda, visto che il successivo 26 marzo il collegio di valutazione attribuì al T., per l’anno 2008, la classifica di ottimo, mostrando, così, di non avere alcuna intenzione discriminatoria nei suoi confronti”.

Passando alle altre condotte evidenziate dall’appellante, va detto che innanzitutto non possono farsi rientrare nel “mobbing” le dichiarazioni rese in sede di tavolo sindacale da parte di soggetti contrapposti al T., quali il C. ed il B., trattandosi di espressioni rese in un contesto caratterizzato da un clima conflittuale, nel quale è fisiologico che i protagonisti esprimano le proprie idee in maniera diretta ed attraverso toni molto coloriti.

Peraltro, l’espressione pronunciata dal C.: “… T. mi definisce in azienda il capo del clientelismo” ha formato oggetto di un giudizio penale definitosi con l’assoluzione del C., mentre la frase ascritta al B. “… fuori dagli uffici altrimenti vi faccio passare i guai … faccio quello che mi pare … adesso ci divertiamo proprio … sono cazzi vostri …”, riguarda un diverbio che, come si evince dall’uso del plurale, ha coinvolto più persone e che, pertanto, non appare intenzionalmente persecutorio in danno del T..

Quanto alle espressioni utilizzate dai difensori di Equitalia nelle memorie depositate nei vari giudizi, nelle quali il T. viene definito “strafottente, arrogante e provocatore”, trattasi di aggettivazioni utilizzate dai difensori nell’esercizio del diritto di difesa che, pertanto, non possono imputarsi direttamente alla parte rappresentata da detti difensori. Pertanto, se reputate sconvenienti ed offensive, tali frasi potevano formare oggetto della procedura di cui all’art. 89 c.p.c., mentre non possono essere intese come condotte significative del “mobbing”.

Del pari nessun rilievo oggettivo rivestono gli episodi che avevano visto come protagonista il direttore generale dott. A.. In ordine al primo, riguardante il colloquio telefonico intercorso tra il predetto direttore ed il coordinatore regionale dei lavoratori esattoriali della FISAC/CGIL P.B., nel quale il primo avrebbe accusato il T. di aver presentato un esposto alla Corte dei Conti nel giorno del decesso del padre del dott. A., al fine di infliggergli il massimo della sofferenza e del dolore, può affermarsi che si è trattato di una coincidenza che, stante il rapporto particolarmente conflittuale instauratosi tra le parti, può aver ingenerato, in buona fede, nel dott. A., un convincimento errato che si è manifestato attraverso uno sfogo personale nell’ambito di un colloquio telefonico riservato intrattenuto con un altro rappresentante sindacale. E’, quindi, evidente l’assenza di un intento puramente persecutorio, perché altrimenti l’accusa al T. avrebbe avuto una platea di destinatari più ampia ed anche maggiormente significativa sotto il profilo degli incarichi ricoperti all’interno dell’azienda.

Quanto al secondo episodio, avente ad oggetto i commenti fatti dal medesimo dott. A. in ordine a quanto affermato dal T., a sostegno della tesi della dequalificazione subita, nell’ambito del giudizio promosso ai sensi dell’art. 28 dalla FISAC/CGIL, circa il fatto che il lavoro degli addetti ai servizi al pubblico sarebbe stata un’attività dequalificata e quindi degradante, non può ritenersi l’intento denigratorio di quanto affermato dal dott. A., che si è limitato a riportare quello che il T. sosteneva con riferimento alla sua situazione soggettiva e nel contesto della linea difensiva adottata in uno specifico giudizio che lo riguardava, e cioè che l’attività al pubblico era dequalificante per lui (T.), in relazione alla professionalità acquisita, e non che si trattava di un’attività oggettivamente e generalmente degradante per chi la svolgeva.

In ordine al comportamento tenuto dal direttore del personale dott. T., il ricorrente si è limitato a rinvenire l’intento persecutorio nel fatto che, in occasione di un incontro avvenuto presso la direzione generale di Foligno in data 24 febbraio 2010, il dott. T. avrebbe consegnato al T., intento in attività di proselitismo sindacale, la scheda di valutazione professionale, invitandolo a recarsi presso lo sportello ove era a sua disposizione la postazione di lavoro dotata di scrivania e di computer. Trattasi di un episodio che appare privo di una qualsiasi rilevanza essendosi il dott. T. limitato a ricordare al T. che la sua postazione di lavoro era regolarmente funzionante e che pertanto poteva, quando voleva, riprendere a svolgere le proprie mansioni lavorative, senza che ciò potesse o volesse costituire un ostacolo o una denigrazione dell’attività sindacale svolta dal medesimo T..

Quanto alle visite mediche richieste ai sensi dell’art. 5 dello statuto dei lavoratori, va detto che, secondo il comma 3 del suddetto articolo, è facoltà del datore di lavoro far controllare l’idoneità fisica del lavoratore presso le competenti strutture pubbliche. Ciò, del resto, era particolarmente giustificato nel caso di specie, in cui il dipendente lamentava l’incompatibilità del proprio stato di salute con le mansioni assegnategli. A fronte del reiterato rifiuto del T., indubbiamente contrario ai doveri di collaborazione, non può allora rinvenirsi un intento persecutorio di Equitalia nella reiterazione di tale richiesta, trattandosi di una facoltà del datore di lavoro sottoporre i propri lavoratori a visita medica presso le competenti strutture pubbliche al fine di accertarne l’idoneità alle mansioni. Né può affermarsi che lo scopo del datore di lavoro fosse quello di pervenire ad una dichiarazione di non idoneità del lavoratore al fine di licenziarlo per giusta causa o per giustificato motivo, trattandosi di una pura illazione, non essendo la richiesta fondata su un mero pretesto, ma essendo scaturita dall’inidoneità lamentata dal lavoratore ad espletare determinate mansioni.

In ordine all’assegnazione del T. alle mansioni di “front office”, si è già trattato circa l’assenza di un qualsiasi pregiudizio derivante da tale provvedimento datoriale, derivante dal fatto che il provvedimento datoriale non è mai divenuto operativo, in considerazione della non opposizione, da parte di Equitalia, al decreto emesso dal giudice del lavoro in sede di repressione antisindacale e, comunque, della non attuazione dell’assegnazione del lavoratore alle mansioni di “back office” (di cui il ricorrente ha contestato l’equivalenza rispetto a quelle pregresse), in conseguenza del distacco sindacale del T..

7. L’appello, in definitiva, è infondato e va quindi respinto.

Le spese del grado, liquidate in ragione del valore della causa, seguono la soccombenza.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

– Respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

– Condanna l’appellante a rifondere all’appellata le spese del grado, che liquida in Euro 9.000,00 per compenso professionale.

Visto l’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto che l’appellante è tenuto a versare una seconda volta il contributo unificato, di importo pari a quello già versato.

Così deciso in Perugia, in camera di consiglio, il 17 aprile 2019.

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2019.

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