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Corte di Appello di Napoli sez. lav., 17/01/2023, n. 168

Massima

È nullo il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato a un lavoratore disabile le cui assenze siano collegate alla sua condizione di handicap, poiché l’applicazione indifferenziata della disciplina del comporto, senza l’adozione di accomodamenti ragionevoli da parte del datore di lavoro, costituisce discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 2 lett. b) del D.Lgs. n. 216/2003, in attuazione della Direttiva 2000/78/CE, equiparando in modo non consentito lo stato di handicap (caratterizzato da menomazione permanente) a una comune malattia. Tale nullità si verifica a prescindere dalla conoscenza del datore di lavoro dello stato di handicap del lavoratore.

Supporto alla lettura

PERIODO DI COMPORTO

L’art. 2110 del codice civile dispone che, in caso di malattia (oltre che di infortunio, gravidanza o puerperio), il rapporto di lavoro viene sospeso e che il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore malato se non sia scaduto il termine di conservazione del posto (c.d. termine di comporto) appositamente previsto dai contratti collettivi.

Con l’introduzione della legge 92/2012, è previsto che il giudice, qualora accerti la violazione dell’art. 2110 cod. civ., debba applicare, ove il caso rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 18 S.L., la cd. tutela reintegratoria attenuata (che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento del risarcimento del danno da calcolarsi entro il limite delle 12 mensilità).

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 26/7/22 la società in epigrafe ha proposto reclamo avverso la sentenza n.2832/22, pubblicata il 21/7/22, con cui il Tribunale di Napoli Nord aveva rigettato la sua opposizione all’ordinanza del 30/6/21, emessa nell’ambito del giudizio azionato da (…) ex art. 1, comma 48 e ss., della L. n. 92 del 2012; con la predetta ordinanza il medesimo Tribunale aveva dichiarato nullo il licenziamento del 12/8/20 per superamento del periodo di comporto e condannato la società convenuta a reintegrare il lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra.

La reclamante ha censurato la sentenza di prime cure sostenendone l’erroneità per avere ritenuto illegittimo il licenziamento impugnato sul presupposto che la società non avesse adottato i dovuti accorgimenti di cui al D.Lgs. n. 216 del 2003– attuativo della direttiva comunitaria 200/78CE- in considerazione della situazione di handicap del (…), affetto da una malattia (sclerosi multipla) definitiva e degenerativa; il Tribunale non aveva tenuto conto, tanto nella fase sommaria che in quella di opposizione, di quanto allegato e dedotto da essa società, in particolare del numero complessivo delle assenze del lavoratore, pari a 821 giorni nell’arco temporale dal 2017 al 2020, e che lo stesso aveva superato il periodo di comporto già nell’anno 2019; che l’unico accorgimento che il datore di lavoro avrebbe potuto adottare ed aveva adottato era stato attendere che le condizioni di salute del proprio dipendente migliorassero, nonostante l’assenza di qualsiasi collaborazione da parte dello stesso, che non aveva mai comunicato all’azienda di essere invalido ai sensi della L. n. 104 del 1992 nè di essere affetto da una malattia definitiva ed irreversibile; che, pertanto, non si riusciva a comprendere quali altri accorgimenti avrebbe potuto adottare il datore di lavoro in mancanza di una norma, anche di natura contrattuale, in proposito; il primo giudice non aveva considerato altresì che l’Inps, una volta superato il periodo di comporto, non avrebbe più corrisposto l’indennità di malattia, come era stato evidenziato al (…) già nella nota dell’8/7/20, antecedente al licenziamento, circostanza questa rilevante proprio ai sensi di quanto previsto dal D.Lgs. n. 216 del 2003, atteso che gli accorgimenti ivi previsti non devono mai comportare oneri eccessivi per il datore di lavoro, dovendo contemperarsi sempre le contrapposte esigenze; che la società si era limitata ad applicare una norma contrattuale e che non poteva essere rimesso al giudice di costruire una ipotesi di comporto senza fine; che il lavoratore non aveva chiesto l’aspettativa prima del superamento del periodo di comporto, come pure avrebbe potuto fare in base alle previsioni del CCNL.

Erronea era comunque l’interpretazione del D.Lgs. 2003, n. 216 alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale in proposito; in ogni caso essa reclamante non poteva essere condannata al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate medio tempore, non essendovi stato alcun inadempimento da parte sua, essendosi limitata ad applicare una norma contrattuale.

La società reclamante ha chiesto, pertanto, in riforma dell’impugnata sentenza, il rigetto della domanda di primo grado.

Ricostituito il contraddittorio, il reclamato ha chiesto il rigetto del gravame in quanto infondato per le varie ragioni evidenziate in memoria.

All’odierna udienza la causa è stata decisa.

Motivi della decisione

Il reclamo proposto è infondato e va rigettato per le considerazioni che seguono.

La società reclamante ha impugnato la sentenza che ha accolto la domanda di licenziamento discriminatorio ex art. 1 del D.Lgs. n. 216 del 2003, emesso in attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Sostiene l’impugnante che la medesima direttiva comunitaria richiamata dal Tribunale pone un limite agli accorgimenti datoriali, che devono essere ragionevoli e non devono comportare sforzi finanziari sproporzionati ed eccessivi, e che, nel caso concreto, la società si era limitata ad applicare una norma contrattuale che disciplinava il recesso per superamento del periodo di comporto, senza alcuna esclusione; che il datore di lavoro non poteva farsi carico sine die delle conseguenze delle malattie invalidanti.

Gli antefatti di causa sono pacifici ed incontestati e si possono così riassumere:

è incontestato che il (…) sia affetto da sclerosi multipla e sottoposto, con cadenza settimanale, a terapia salvavita a base di interferone; lo stesso, già dal 2015, percepisce l’assegno ordinario di invalidità, prestazione riconosciuta in favore di coloro la cui capacità di lavoro è ridotta a meno di un terzo.

Vi è agli atti un prospetto di tutte le assenze per malattia del reclamato nel periodo 2017/2020; in particolare, per quanto riguarda l’anno che rileva nel presente giudizio, che è esclusivamente il 2020, non vi è alcuna contestazione circa le assenze per malattia effettuate entro il mese di giugno 2020, tutte ricollegate alla predetta patologia di carattere irreversibile e, pertanto, rientrante nella nozione di handicap, come affermato dal Tribunale e non censurato dall’impugnante.

Con lettera datata 12 agosto 2020 la società ha comunicato al (…) la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto immediato per superamento del periodo di comporto previsto dall’art. 186 CCNL commercio relativamente all’anno 2020 (il periodo considerato va da gennaio alla fine di luglio 2020), come preannunziatogli con lettera dell’8 luglio 2020.

Pare a questo punto utile riportare la disciplina collettiva sul superamento del periodo di comporto per vedere se si ponga in conflitto con la direttiva comunitaria invocata dal lavoratore (Direttiva 2000/78) in attuazione della quale è stato introdotto il D.Lgs. n. 216 del 2003, che all’art. 2 disciplina la “nozione di discriminazione”, distinguendola in diretta (lett. a) ed indiretta (lett. b).

L’art.186 così dispone: Periodo di comporto:

“Durante la malattia il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare -trascorso il quale, perdurando la malattia, il datore di lavoratore potrà procedere al licenziamento”.

L’art. 187 intitolato – Trattamento economico di malattia stabilisce poi: “Durante il periodo di malattia, previsto dall’articolo precedente, il lavoratore avrà diritto… segue l’indicazione delle indennità spettanti a carico del datore e dell’Inps.

Il successivo comma stabilisce che “non sono computabili, ai soli fini dell’applicazione della disciplina prevista dal precedente comma, gli eventi morbosi dovuti alle seguenti cause: ricovero ospedaliero, day hospital, emodialisi, i giorni di assenza per malattia certificati con prognosi iniziale non inferiore a 12 giorni, sclerosi multipla o progressiva e le patologie di cui all’art. 192, terzo comma”.

L’art. 192 prevede poi una aspettativa non retribuita per malattia per il periodo ivi specificato da richiedere prima della scadenza del 180 previsti dall’art. 186; per le malattie gravi e continuative che comportino terapie salvavita prevede un periodo di aspettativa aggiuntivo fino ad un massimo di 12 mesi.

Orbene, il Tribunale, assorbita ogni ulteriore questione, ha accolto l’impugnativa del recesso datoriale azionata dal (…) avendo ritenuto, conformemente ad una nutrita giurisprudenza di merito, che costituisca discriminazione indiretta ex art. 2 lett. b) del cit. D.Lgs. n. 216 del 2003 – che si verifica quando una disposizione (in questo caso la clausola del contratto collettivo sulla durata del periodo di comporto), apparentemente neutra, cagiona ad un soggetto “debole” (nel nostro caso un portatore di handicap) una situazione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori che non hanno una simile fragilità – la previsione di un trattamento indifferenziato tra i lavoratori abili ed i disabili che si assentano dal lavoro per malattie collegate al loro stato di disabilità, come appunto nella fattispecie in esame.

La normativa invocata (D.Lgs. n. 216 del 2003) è stata introdotta in attuazione della Direttiva 2000/78/CE, che mira a garantire la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, anche in ambito lavorativo. Alla lettera a) dell’art. 2 è definita la discriminazione diretta che si ravvisa “quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.

Alla successiva lettera b), poi, è data la definizione della nozione di discriminazione indiretta che sussiste nel caso in cui “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparita di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta, la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione o di una prassi in sè legittima.

La direttiva comunitaria sopra citata all’art. 5 dispone che il datore di lavoro è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli per i disabili”. Si legge infatti testualmente che : “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perchè possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.”

Anche l’art. 3, comma 3 bis del D.Lgs. n. 216 del 2003 dispone che il datore di lavoro è tenuto ad adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

Dal complesso delle suddette disposizioni emerge, dunque, che il datore di lavoro debba tenere in considerazione la situazione di svantaggio del lavoratore, adottando “soluzioni ragionevoli”, idonee ad evitare una discriminazione indiretta che produca l’effetto di estromettere il dipendente disabile dal lavoro proprio a causa della sua disabilità.

Orbene, alla luce della normativa in esame risulta pienamente condivisibile quanto affermato dal Tribunale, ossia che applicare indistintamente la disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto sia nei confronti dei lavoratori affetti da patologie transitorie che di quelli divenuti, nel corso del rapporto di lavoro, disabili per malattia grave ed irreversibile rappresenti una forma di discriminazione indiretta.

Pare utile al riguardo richiamare alcuni principi sanciti dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza 18.01.2018 (causa C270/16) che, in una vicenda similare a quella oggetto di causa, è stata chiamata a chiarire la portata interpretativa dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della Direttiva 2000/78, dettando importanti linee guida che devono essere seguite anche nella risoluzione della presente controversia.

La Corte – facendo proprio il principio per cui un lavoratore disabile viene ad essere, in via generale, maggiormente esposto al rischio di ammalarsi per le sue patologie invalidanti rispetto a un lavoratore non disabile – ha ritenuto che, trattando in modo generalizzato le assenze intermittenti dal lavoro dei dipendenti, si creava una disparità di trattamento sostanziale e si finiva per assimilare una patologia legata ad una disabilità alla nozione generale di malattia.

Il giudice di merito, pertanto, deve prendere in considerazione tutti gli elementi rilevanti per addivenire ad una decisione calata nel concreto, attraverso un bilanciamento dei contrapposti interessi in modo equilibrato e ragionevole.

Ed allora occorre evidenziare – in via generale – che la contrattazione collettiva – chiamata dall’art. 2110 comma 2. c.c. a disciplinare nei vari settori di applicazione della stessa il c.d. periodo di comporto entro il quale il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro con il relativo trattamento economico – si è evoluta nel tempo introducendo via via importanti differenziazioni per situazioni in cui il lavoratore venga colpito da gravi malattie spesso croniche ed invalidanti (quali quelle oncologiche o necessitanti di terapie salvavita o ad esse assimilabili), che, pertanto, vengono assoggettate ad una disciplina speciale, di maggior tutela rispetto alle altre malattie comuni che evolvono rapidamente in una completa guarigione.

Ed invero lo stesso CCNL applicabile alla fattispecie concreta ha introdotto alcune deroghe stabilendo con l’art. 187 l’esclusione dalla disciplina del primo comma, relativo al trattamento economico di malattia, di alcune assenze per malattia dovute a “day hospital”, ricoveri ospedalieri, per la somministrazione di terapie salvavita e specificamente proprio in caso di sclerosi multipla, con ciò dimostrando l’intenzione delle parti sociali di tutelare, in quelle situazioni, maggiormente la salute del lavoratore che deve prevalere sulle esigenze di efficienza perseguite dall’imprenditore.

Orbene, nella fattispecie in esame, non è contestato che le assenze per malattia poste in essere dal reclamato sono collegate al suo status di handicap e che si tratti, senza alcun dubbio, di una patologia rientrante nella nozione di handicap così come definita dalla direttiva comunitaria 2000/78, come già detto, non è in contestazione (cfr in tal senso anche Cass. 2019/29289).

Il CCNL di categoria, nel disciplinare il trattamento economico del lavoratore assente per malattia, prevede regole ben precise che contengono l’onere economico in capo all’azienda entro determinati limiti temporali, superati i quali il lavoratore malato conserva soltanto il diritto al mantenimento nel posto di lavoro senza retribuzione.

Va poi considerato che nel nostro ordinamento è prevista un’indennità previdenziale di malattia a carico dell’INPS che, nel settore, copre i giorni di assenza giustificati dai certificati di malattia per un periodo massimo di 180 giorni all’anno.

Gli oneri prettamente retributivi a carico del datore di lavoro sono, quindi, davvero contenuti.

Si può, dunque, concludere che, nella fattispecie concreta, l’esclusione dal computo del periodo di comporto dei giorni di assenza per malattie connesse allo stato di handicap dei lavoratori non costituisca un carico eccessivo per il datore di lavoro, che ha a disposizione tutta una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare, non ultimo quello di controllare in modo costante l’idoneità alla mansione del lavoratore disabile; controllo che – nel caso del (…)- è avvenuto solo nel 2020, mentre il datore di lavoro non ha mai utilizzato questo strumento per verificare, anche in considerazione delle numerose assenze avvenute già a partire dal 2017 (addirittura superiori ai 180 giorni di copertura della malattia da parte dell’INPS nel 2019, come sostiene la società, che tuttavia le ha tollerate senza procedere ad alcun recesso), l’eventuale ulteriore aggravamento delle patologie invalidanti tale da renderlo incompatibile a qualsiasi mansione presente in azienda; il tutto per potere applicare l’istituto della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino alla cessazione dell’incompatibilità oppure – in extremis – addivenire ad un licenziamento per inidoneità assoluta alla mansione, ove sussistente.

Non può pertanto essere condiviso- seppure suggestivo – l’assunto della società reclamante secondo cui, ad accogliere la tesi sostenuta dal reclamato e condivisa dal Tribunale, il datore di lavoro verrebbe ad essere assoggettato, senza alcuna sua responsabilità e, quindi, rispondendo oggettivamente, ad un insostenibile onere di mantenere in forza un lavoratore disabile sine die, essendovi tutta una serie di misure e coperture a sostegno degli oneri imprenditoriali.

Né risulta che, nella fattispecie concreta, il datore di lavoro abbia assunto comportamenti idonei a evitare la discriminazione indiretta (quali, ad esempio, la non computabilità nel periodo di comporto delle assenze dovute alla malattia che ha cagionato la disabilità, la riduzione dell’orario di lavoro, l’avviso dell’approssimarsi della scadenza del periodo dì comporto o della possibilità di fruire dell’aspettativa non retribuita o di fruire delle ferie residue, tutti accomodamenti ragionevoli, essendosi lo stesso limitato ad applicare alla lettera la norma contrattuale collettiva.

Non può, pertanto, essere condivisa la censura con cui la società sostiene di avere adottato l’unico accorgimento possibile, ossia aspettare la guarigione del dipendente, che aveva cumulato nei tre anni considerati un numero di assenze pari a 821, superando già nel 2019 il periodo di comporto.

Ed allora – operato il bilanciamento dei contrapposti interessi come richiesto dalla direttiva comunitaria, – non si può che concludere che le parti sociali che hanno stipulato il CCNL, nel non avere contemplato un regime differenziato del periodo di comporto per malattie connesse allo stato di handicap (eventualmente prevedendo per i disabili un periodo di comporto più lungo), abbiano posto in essere una discriminazione indiretta, equiparando in modo non consentito lo stato di handicap (caratterizzato da una menomazione permanente non destinata alla guarigione ma, nella maggior parte dei casi, al peggioramento dei postumi) ad una comune malattia (intesa come episodio di inabilità temporanea destinato alla guarigione).

Ed una simile discriminazione indiretta è tale da provocare, come già ritenuto dal primo giudice, la nullità del licenziamento disposto dalla società reclamante.

Come inoltre evidenziato dal Tribunale, appare irrilevante la conoscenza o la conoscibilità dello stato di handicap del lavoratore per il carattere imperativo del principio comunitario di parità di trattamento; pertanto, a prescindere dalla conoscenza che il datore di lavoro abbia o meno dello stato di handicap (sebbene, nel caso concreto, risulti poco verosimile la non conoscenza della patologia da cui risulta affetto il (…), deve essere comunque eliminato l’effetto di una discriminazione anche indiretta indipendentemente dall’applicazione apparentemente neutra di una norma di diritto o negoziale o di una prassi laddove la stessa ridondi in un trattamento deteriore per il portatore di handicap.

In ogni caso, anche a ragionare diversamente, non può questa Corte esimersi dal valutare un ulteriore motivo di invalidità del recesso datoriale, evidentemente ritenuto assorbito dal primo giudice, che rende ulteriormente inaccoglibili le rimostranze della società reclamante.

Ritiene, invero, il collegio che, come giustamente evidenziato dal (…) già in primo grado e riproposto ai sensi e per gli effetti dell’art. 346 c.p.c. in questo grado del giudizio, senza che vi fosse bisogno di alcun reclamo incidentale, come, invece, sostenuto dalla difesa della reclamante in sede di discussione orale, il periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva (almeno 181 giorni nell’anno solare) non sia stato affatto superato, nel caso concreto.

Ed infatti non può tenersi conto, ai fini del superamento del periodo di comporto, delle assenze relative al mese di luglio 2020, in quanto risulta che, a decorrere dal 1 luglio 2020, la (…) in accoglimento dell’istanza del lavoratore, antecedente al disposto licenziamento, lo aveva collocato in ferie affinché godesse dei suoi 56 giorni di ferie residue, come confermato dalla missiva aziendale indirizzata al dalla società medesima.

Orbene, il mutamento del titolo dell’assenza (da malattia a ferie non godute), allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, è ritenuto ammissibile anche dalla giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione civile, sez. lav., 14/09/2020, n.19062, Cass. n. 27392/18, Cass. n. 8834/17 e n.7433/16), non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie e dovendo ritenersi prevalente 11 interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza dei periodo di comporto.

Dunque, a decorrere dal 1.7.2020 le assenze del (…) sono state imputate a ferie e ciò per espressa disposizione aziendale, ferie che, in quanto ammontanti a 56 giorni, si sarebbero dovute protrarre sino a settembre inoltrato (epoca ampiamente successiva al licenziamento per cui è causa, intimato con lettera recante la data del 12.8.2020).

E, trattandosi di giorni di ferie, non potevano certo essere conteggiati come assenze per malattia.

Dunque, detratti dagli indicati 210 gg. di assenza i 31 giorni di luglio 2020 (che, lo si ribadisce, non erano più imputabili ad assenze per malattia, ma a ferie) , emerge un totale di soli 179 giorni (210 – 31 = 179).

E, per costante giurisprudenza, il licenziamento intimato prima dell’esaurimento del periodo di comporto non è meramente inefficace, ma è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c. (così Cass. Sezioni Unite n. 12568/18).

Conseguentemente la società reclamante avrebbe potuto, dopo la fruizione delle ferie, concedere anche il periodo di aspettativa non retribuita, richiesta dal lavoratore con nota del 3/8/20.

Ne consegue, per le suesposte ed assorbenti considerazioni, che la sentenza impugnata, anche con le integrazioni motivazionali di questa Corte, deve essere confermata.

Nel caso in esame, in considerazione della peculiarità e complessità delle questioni trattate, oltre che della presenza di orientamenti giurisprudenziali di merito contrastanti e dell’assenza di precedenti specifici di legittimità, sussistono i gravi ed eccezionali motivi richiesti dall’art. 92 comma 2. c.p.c. (nella formulazione originaria conseguente alla sentenza n.77 del 2018 della Corte Costituzionale) per compensare integralmente tra le parti in causa le spese di lite del presente grado di giudizio.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte reclamante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), se dovuto il contributo.

P.Q.M.

La Corte cosi provvede:

Rigetta il reclamo e per l’effetto conferma l’impugnata sentenza. Compensa le spese del grado.

Dà atto che ricorrono le condizioni, ai sensi dell’art.1, comma 17, L. n. 228 del 2012 che ha introdotto il comma 1-quater all’art.13 D.P.R. n. 115 del 2002, per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’art.13 comma 1 bis, D.P.R. n. 115 del 2002.

Così deciso in Napoli, il 10 gennaio 2023.

Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2023.

Allegati

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