FATTO E DIRITTO
Con ricorso depositato in data 14.9.2017, (omissis) ha impugnato la sentenza n. 340/2017 del Tribunale di Milano che, dopo aver dichiarato cessata la materia del contendere in relazione al pagamento di quanto dovuto a titolo di TFR, ha rigettato il ricorso dalla stessa proposto e volto ad accertare la condotta di mobbing posta in essere ai suoi danni dalla società (omissis) srl nel periodo dal mese di settembre 20132 al mese di aprile 2014 e per altri 10 giorni nel mese di agosto 2014.
Il Tribunale, svolta istruttoria, ha evidenziato il mancato raggiungimento della prova in ordine ai fatti lamentati, essendo invece emerso solo un disagio personale della lavoratrice che aveva paura di essere licenziata specie dopo l’arrivo di un giovane collega a lei affiancato. Ha escluso qualsiasi responsabilità imputabile al datore di lavoro il quale, non solo alle prime lamentele della lavoratrice, nell’aprile 2014, la cambiava di reparto dove rimaneva fino al mese di agosto 2014 quando chiedeva ed otteneva di ritornare al vecchio reparto dove rimaneva pochi giorni per poi assentarsi per malattia dal 25 agosto 2014 fino alle dimissioni del 15.3.2015, ma, ricevuta la denuncia di mobbing, provvedeva a sospendere cautelarmente i responsabili di reparto additati dalla lavoratrice come gli autori delle condotte mobbizzanti.
L’appellante cesura la sentenza lamentando che il giudice, pur avendo ritenuto sussistenti i fatti, aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro sull’errato presupposto che fosse necessario un dolo o una colpa mentre è sufficiente che il fatto sia avvenuto nell’ambito di lavoro, essendo il datore di lavoro tenuto in ogni caso a garantire un ambiente di lavoro protetto.
Ha resistito la società appellata eccependo in via preliminare l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 348 bis cpc, nel merito concludendo per il rigetto dell’appello.
La causa è stata discussa e decisa come da dispositivo trascritto in calce.
Va disattesa la preliminare eccezione di inammissibilità dell’appello, per violazione dell’art. 348 bis c.p.c., non ricorrendone i presupposti.
Nel merito l’appello non è fondato.
Va innanzitutto ricordato che in tema di mobbing, è giurisprudenza costante che “per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (cfr. Cass., Sez. L., n. 3785 del 17.2.2009, Cass. L n. 17698 del 06/08/2014)
È quindi possibile parlare di mobbing quando si è in presenza di una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Al fine di non dilatare oltre misura la fattispecie del mobbing è infatti necessario riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell’organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive.
Non è infatti legittimo né possibile ricondurre tutte le dinamiche delle relazioni di lavoro all’interno di una impresa alla cd. “costrittività organizzativa”, giacché essa non è certo la garanzia del “diritto” del lavoratore a operare in un ambiente professionale asettico, irenico o, comunque, cordiale, al più potendosi pretendere comportamenti di buona fede da tutte le parti del rapporto di lavoro, indipendentemente, quindi, dai dati caratteriali dei singoli attori di quest’ultimo.
Con la conseguenza che si può parlare di condotta mobbizzante solo quando essa è oggettivamente persecutoria, mentre onestà e buona fede vogliono che il lavoratore non pretenda nell’ambito del rapporto di lavoro una situazione più facile di quella normalmente sopportata nella vita quotidiana. Pertanto, non possono essere considerate illecite condotte avvertite come lesive dal lavoratore solo nell’ambiente di lavoro oppure solo a causa della propria fragilità nei rapporti interpersonali.
L’illecito, infatti, non coincide con quanto è sgradevole al lavoratore e, per converso, il datore di lavoro che opera nella legittimità non deve essere di necessità un attento psicologo nello scrutare nell’animo dei suoi collaboratori.
Il relativo onere di allegazione e prova grava sulla parte che assume di esserne stata vittima.
Nel caso in esame, come correttamente evidenziato dal primo giudice, l’istruttoria svolta, peraltro limitata all’esame dei soli testi indicati dalla società, avendo il difensore della lavoratrice rinunciato all’escussione dei propri testi (cfr. verbale di udienza del 5.7.2016), ha escluso l’uso di espressioni offensive, urla o improperi nei confronti della lavoratrice per contestare il lavoro svolto dalla stessa, nonché l’attribuzione ad altri del lavoro di competenza della appellante.
Il primo giudice è stato chiaro nell’evidenziare da un parte l’assenza di prova dei fatti lamentati dalla lavoratrice e dall’altra la sussistenza di una situazione psicologica personale della lavoratrice che temeva di essere licenziata.
Del tutto infondata quindi è la censura di parte appellante secondo la quale il primo giudice avrebbe accertato la sussistenza dei fatti lamentati non traendone poi le corrette conseguenze in termini di responsabilità del datore di lavoro.
Anzi, il primo giudice, sotto il profilo proprio della condotta del datore di lavoro ha sottolineato come, per stessa ammissione della lavoratrice, il datore di lavoro, non appena appreso del disagio che la lavoratrice viveva all’interno del proprio reparto, la spostava in altro reparto dove la sig.ra Re., come dalla stessa ammesso, si trovava bene. Ed ancora, il datore di lavoro assecondava la richiesta della appellante di ritornare al reparto originario dove però rimaneva solo pochi giorni, per poi assentarsi per malattia fino alle dimissioni.
In sostanza, non è stata offerta dalla parte appellante, a ciò gravata, alcuna prova per ritenere che il disagio personale vissuto dalla sig. Rena fosse sorto a causa dell’ambiente di lavoro o della condotta di altri lavoratori o superiori gerarchici senza che il datore di lavoro fosse tempestivamente intervenuto a sua tutela.
Tra l’altro, solo per inciso, va rilevato che, come documentato dalla società, lo stesso INAIL ha respinto la domanda di accertamento di malattia professionale non ravvisando appunto alcun nesso di causalità tra le patologie lamentate ed il rapporto di lavoro con la società appellata.
Alla luce di tutte le predette considerazioni l’appello va rigettato e la sentenza confermata.
Le spese processuali del grado, liquidate come in dispositivo, ai sensi del DM 10.3.14 n. 55, in ragione del valore della controversia, del grado di complessità, dell’assenza di attività istruttoria, seguono la soccombenza.
In ragione dell’allegata autocertificazione reddituale non è dovuto il versamento dell’ulteriore contributo ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Respinge l’appello avverso la sentenza n. 340/17 del Tribunale di Milano.
Condanna parte appellante alla rifusione delle spese del grado che liquida in E 4.800,00 oltre spese generali ed oneri di legge.
Milano, 4.4.2019
Depositata in Cancelleria il 10/06/2019