Concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto
Con ricorso ex art 281decies c.p.c., (omissis) convenne in giudizio la (omissis), in qualità di gestore di una RSA di cui era ospite la madre (omissis), al fine di ottenere una pronuncia di accertamento della mancata debenza dell’importo di € 26.626,40, somma rivendicata dalla struttura convenuta a titolo di retta di degenza.
A sostegno delle proprie domande il sig. (omissis) allegò che :
– la madre, affetta da deficit cognitivo e demenza, oltre che diabete mellito, pancreatite cronica e uveite all’occhio sinistro, era stata ricoverata presso la RSA il 23.04.21 previa conclusione di un contratto che vedeva il figlio (omissis) obbligato solidale al pagamento della retta di degenza;
– secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito, le prestazioni erogate nei confronti di soggetti affetti da morbo di Alzheimer o demenza andavano qualificate come “prestazioni sanitarie strettamente connesse a quelle assistenziali”, il cui costo doveva essere sostenuto esclusivamente dal Servizio Sanitario Regionale, e dunque dalla ASL competente.
Dedusse, quindi, che nulla era dovuto a titolo di retta e che, in ogni caso, l’impegno assunto in occasione della sottoscrizione del contratto di ingresso doveva ritenersi nullo ex art 1418 c.c., per contrarietà a norme imperative o per mancanza di causa o comunque inefficace, giacché il ricorrente era receduto dall’impegno al pagamento della retta il 24.9.2021.
La (omissis) costituendosi in giudizio, contestò integralmente la fondatezza della pretesa avversaria, chiedendone il rigetto. Eccepì che, alla luce della normativa in materia e della natura dei servizi prestati alla sig.ra (omissis), la fattispecie doveva essere ricondotta alle “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” (di cui all’art. 3 co.2 lett. d) DPCM 14.02.2001), per le quali era configurabile un regime di compartecipazione del ricoverato nella misura del 50% dei costi 1 e che, difatti, la somma richiesta a titolo di retta era già stata calcolata al netto della quota sanitaria della Regione.
Con sentenza n. 7964/2024 depositata il 12.09.2024, il Tribunale di Milano respinse integralmente le domande attoree, ritenendo che le condizioni in cui versava la sig.ra (omissis) e le prestazioni di cui aveva beneficiato non integrassero i requisiti richiesti dalla normativa in materia di livelli essenziali di assistenza affinché la retta di ricovero fosse posta interamente a carico della Regione.
In particolare, il primo giudice, dopo aver illustrato il quadro normativo di riferimento, rilevò che:
– la gratuità delle prestazioni è prevista solo con riferimento a quelle sanitarie a rilevanza sociale (co. 1 dell’art. 3 DPCM 14.02.2001) e a quelle socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria (co. 3 dell’art. 3 DPCM 14.02.2001);
– è invece istituito un regime di compartecipazione dell’utente2 per le prestazioni di lungo assistenza destinate ad anziani e persone non autosufficienti affette da malattie croniche e degenerative, nonché per la c.d. fase di lungo assistenza relativa ai casi di patologie di rilevante gravità, e ciò anche ove alle prestazioni socio-assistenziali si aggiungano quelle di natura sanitaria;
– la sig.ra (omissis) affetta, per tutta la durata del ricovero, solo da un deficit cognitivo moderato (e non dal morbo di Alzheimer), non essendo stato allegato alcun peggioramento delle condizioni accertate al momento dell’ingresso nella struttura, risultava essere autonoma in una serie di essenziali attività della vita quotidiana, e non necessitava di un continuato ed ininterrotto intervento di personale specializzato, né della somministrazione continuativa di cure specifiche.
Sulla base di tali considerazioni osservò che, nel caso di specie, non sussisteva il requisito dell’inscindibilità delle prestazioni socio-assistenziali a quelle sanitarie, richiesto invece per porre interamente a carico della Regione la sua retta di ricovero, e che la quota richiesta dalla struttura risultava essere già stata correttamente calcolata al netto della quota sanitaria a carico della Regione.
Rigettò quindi la domanda di accertamento della nullità del contratto di ricovero per mancanza di causa e contrarietà a norme imperative e accertò, infine che, in assenza di dimissioni della madre, il mero recesso esercitato da (omissis) non lo esimeva dall’obbligazione di pagamento.
Avverso tale sentenza propone appello (omissis). La (omissis) si è costituita contestandone la fondatezza.
All’udienza del 22.05.2025, a seguito della discussione orale ex art. 350 bis, la causa è stata trattenuta in decisione dalla Corte per essere discussa nella camera di consiglio del 28 maggio 2025.
I motivi di appello.
L’impugnazione è articolata in tre motivi.
I. L’appellante censura le argomentazioni con le quali il primo giudice ha ritenuto che le prestazioni erogate alla sig.ra (omissis) fossero qualificabili come prestazioni di lungo degenza, così omettendo di uniformarsi alla copiosa giurisprudenza secondo la quale le prestazioni ricevute in RSA (o in strutture sanitarie convenzionate che tendano al recupero della salute del malato) da soggetti affetti da morbo di Alzheimer vanno qualificate come prestazioni sanitarie a rilevanza sociale o, comunque, ad elevata integrazione sanitaria, con conseguente previsione della relativa gratuità, in tutti i casi in cui sia prevista la somministrazione di farmaci.
Prospetta altresì che secondo l’univoco orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della gratuità delle prestazioni, è sufficiente l’erogazione di “prestazioni sanitarie collegate”, ossia la somministrazione di prestazioni sanitarie che possono essere eseguite solo congiuntamente all’attività socio-assistenziale, sì da risultare impossibile distinguere i rispettivi oneri economici.
II. L’ appellante lamenta l’erroneità della distinzione operata dal primo giudice tra il morbo di Alzheimer e la demenza senile, di cui era affetta la madre, in base alla quale aveva ritenuto che le condizioni della degente non fossero tali da integrare i requisiti richiesti ai fini della gratuità delle prestazioni. Il primo giudice così opinando aveva omesso di considerare la sostanziale omogeneità delle patologie, essendovi in entrambi i casi la necessità di ricorrere a prestazioni sanitarie connesse a quelle assistenziali.
III. L’appellante deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 e 1373 c.c. sottolineando che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, il contratto di assistenza è nullo per contrarietà a norme imperative.
Deduce altresì di essere receduto in data 24.9.2021 e che conseguentemente, indipendentemente dalla nullità ex art. 1418 c.c., l’impegno di pagamento assunto doveva considerarsi inefficace da quella data.
L’opinione della Corte.
L’impugnazione è fondata.
In ossequio ad un imperativo di sintesi non ci si dilungherà ad illustrare il complesso quadro normativo di riferimento, valendo in questa sede il richiamo alle pagine 3-7 della sentenza di I grado.
Occorre solo precisare che la disciplina applicabile ai fatti di causa è quella del D.P.C.M. 29 novembre 2001 che ha definito i Livelli Essenziali di Assistenza (di seguito anche brevemente “LEA”), vale a dire le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini a titolo gratuito ovvero mediante partecipazione alla spesa. La gratuità delle prestazioni ricorre per le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale (art. 3 co. 1 DPCM 14 febbraio 2001) e per quelle a carattere socio sanitario ad elevata integrazione sanitaria (art. 3 co. 3 del medesimo Decreto).
La questione centrale attiene pertanto all’inquadramento delle prestazioni erogate alla sig.ra (omissis) e, in particolare, se esse debbano essere qualificate come prestazioni socio sanitarie a elevata integrazione sanitaria, come sostiene l’appellante.
Questa Corte di merito prende atto che, alla luce dei principi affermati dalla recente giurisprudenza di legittimità, le prestazioni di cui ha beneficiato la madre dell’appellante debbono qualificarsi come prestazioni socio sanitarie a elevata integrazione sanitaria. La Corte di Cassazione ha ormai ripetutamente affermato che le prestazioni socio sanitarie a elevata integrazione sanitaria sono presenti ogni qualvolta le prestazioni di natura sanitaria non possano essere eseguite “se non congiuntamente” alla attività di natura socioassistenziale, di tal ché non sia possibile discernere il rispettivo onere economico, con la conseguenza che diviene prevalente la natura sanitaria del servizio “in quanto le altre prestazioni – di natura diversa- debbono ritenersi avvinte alle prime da un nesso di strumentalità necessaria essendo dirette a consentire la cura della salute dell’assistito, e dunque la complessiva prestazione deve essere erogata a titolo gratuito” (ex multis Cass. 3 Sez. ord. 2216/2024). Secondo la Suprema Corte la prestazione socio assistenziale diviene “inscindibilmente connessa” a quella sanitaria in presenza di un trattamento terapeutico personalizzato non connotato da occasionalità.
Una parte della giurisprudenza di merito, partendo da tali premesse, aveva tuttavia reputato che dovesse escludersi la riconducibilità dei malati di Alzheimer tout court nella categoria dei soggetti bisognosi di una prestazione di assistenza inscindibilmente connessa a quella sanitaria.
I recenti arresti della Suprema Corte hanno tuttavia messo in luce che “l’attività prestata in favore di soggetto gravemente affetto da morbo di Alzheimer ricoverato in istituto di cura è qualificabile come attività sanitaria, quindi di competenza del Servizio Sanitario Nazionale, ai sensi della L. n. 730 del 1983, art. 309, non essendo possibile determinare le quote di natura sanitaria e detrarle da quelle di natura assistenziale, stante la loro stretta correlazione, con netta prevalenza delle prime sulle seconde, in quanto comunque dirette, anche ex D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 1, alla tutela della salute del cittadino” (Cass. 22/02/2024 n. 4752; Cass. 11/12/2023 n. 34590). E’ dunque sufficiente, secondo la Corte Superiore, che a una persona affetta da Alzheimer siano erogate prestazioni sanitarie collegate, per rendere la prestazione assistenziale inscindibilmente connessa a quella sanitaria (Cass. Sez. 3, 24/01/2023, n. 2038). Tali principi valgono non solo nel caso di pazienti affetti da morbo di Alzheimer, ma anche in presenza di altre patologie degenerative, come la demenza senile, ovvero disabilità dovute a deficit cognitivi, occorrendo più in generale verificare se, in relazione alla malattia di cui è affetto il paziente, siano necessarie, per assicurargli la tutela del suo diritto soggettivo alla salute e alle cure, prestazioni di natura sanitaria che non possono essere eseguite se non congiuntamente alla attività di natura socio-assistenziale (Cass. cit).
Venendo alla fattispecie in esame secondo il tribunale la sig.ra (omissis) nelle more deceduta (doc. 1 fasc. appellata)- non era affetta da un quadro patologico talmente grave da rendere la prestazione socio assistenziale inscindibilmente connessa a quella sanitaria. Da quanto poteva evincersi dal quadro clinico riportato sulla cartella medica, la paziente, all’atto del ricovero presentava un deficit cognitivo moderato, diabete mellito e uveite.
Osserva a riguardo la Corte come risulti documentato, già nel breve periodo, un quadro clinico ben più grave. Come si legge nell’istanza di nomina di un amministratore di sostegno (doc. 5 appellata), presentata in data 23.12.2022 al giudice tutelare dalla (omissis) la sig.ra (omissis) era affetta da “infermità cognitiva, deficit cognitivo con aspetti deliranti, diabete mellito tipo 2 insulino dipendente, panuveite, ascesso al fegato, pancreatite cronica, avvallamento del limitante somatica L4, tumori secondari del polmone..”. Anche il giudice tutelare nel proprio provvedimento giustificava la nomina dell’AS, dando atto che “..la prevenuta risulta affetta da severo decadimento cognitivo (MMSE: 11.5/30)come si desume dalla certificazione medica in atti, da cui si evince una riduzione dell’autonomia nel compimento degli atti di vita quotidiana inerenti la cura della propria persona….” (doc. 6 fasc. appellata). Deve pertanto ritenersi che il quadro delle patologie come descritto dallo stesso ente di ricovero era tale da esigere un trattamento sanitario personalizzato, con la conseguenza che l’onere economico della prestazione socio assistenziale deve essere posto a carico del SSN. Le prestazioni di carattere assistenziale rese in favore della sig.ra (omissis) hanno dunque carattere gratuito. L’impegno di pagamento sottoscritto da (omissis) è quindi nullo per contrarietà a norme imperative ex art. 1418 c.c.
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L’appello va accolto e la sentenza di I grado interamente riformata.
Sussistono giustificati motivi per compensare le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio, nella misura della metà, in considerazione degli orientamenti contrastanti formatisi nella giurisprudenza di merito, con conseguente condanna della (omissis) a rifondere alla controparte la metà residua delle spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, alla luce dei parametri previsti dal D.M. 13 agosto 2022 n. 147, tenuto conto del valore di causa, del tenore delle questioni trattate e delle modalità semplificate di svolgimento della fase decisoria in questo grado.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Milano, definitivamente pronunciando, sull’appello proposto da (omissis) avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 7964/2024, pubblicata il 12.09.2024, previa integrale riforma così dispone:
1. In accoglimento dell’impugnazione, previa riforma della sentenza del Tribunale di Milano n. 7964/2024, dichiara che nulla è dovuto per il ricovero della signora (omissis) a far tempo dal 23.04.2021 e, conseguentemente, dichiara la nullità ex art 1418 c.c. dell’impegno assunto da (omissis) di provvedere al pagamento della retta di ricovero della madre;
2. Previa compensazione della metà, condanna (omissis) a rifondere a (omissis) la metà delle spese processuali, liquidate per l’intero, per il I grado, in euro 5.261,00 per compensi professionali, oltre IVA, CPA e contributo forfettario spese generali del 15% e, per questo grado, in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre IVA, CPA e contributo forfettario spese generali del 15%; spese da distrarsi in favore del difensore ai sensi dell’art. 93 cpc.
Così deciso nella camera di consiglio di questa Corte il 28 maggio 2025.