Massima

In materia di estorsione e maltrattamenti in famiglia, la sentenza ha riconosciuto la colpevolezza dell’imputato, ma, accogliendo il primo motivo di appello e basandosi sulla perizia medico-legale, ha ravvisato la sussistenza di un vizio parziale di mente dovuto a “schizofrenia cronica, con grave compromissione della vita sociale e delle funzioni cognitive”. Ciò ha comportato la rideterminazione e riduzione della pena detentiva e la sua sostituzione con la detenzione domiciliare, con specifiche prescrizioni relative alla dimora in una comunità riabilitativa assistenziale psichiatrica (CRAP) e al proseguimento del programma terapeutico.

Supporto alla lettura

PENE SOSTITUTIVE

Le pene sostitutive, introdotte dalla riforma Cartabia con l’art. 20 bis c.p., demandando la disciplina alla legge speciale, e precisamente al nuovo Capo III della L. 689/1981, sono un insieme di sanzioni alternative alla reclusione che permettono di sostituire la pena detentiva in alcuni casi.

Queste pene prevedono:

 la semilibertà (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 4 anni): il condannato può uscire di casa per svolgere attività lavorative, scolastiche, familiari o di pubblica utilità, con specifiche limitazioni;

 la detenzione domiciliare (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 4 anni): il condannato deve rimanere in casa, con alcune eccezioni per attività specifiche;

 il lavoro di pubblica utilità (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 3 anni): il condannato svolge un lavoro non retribuito per enti pubblici o associazioni di volontariato;

 la pena pecuniaria (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 1 anno): il condannato è obbligato a pagare una somma di denaro al fisco

L’applicabilità delle pene sostitutive è valutata dal giudice in base alle circostanze del reato, alla personalità del condannato e alla necessità di garantire l’effettività della pena. Il condannato deve dimostrare di essere una persona meritevole e di voler seguire il percorso rieducativo.

Le pene sostitutive possono essere applicate anche nei procedimenti pendenti, a condizione che sia stata fatta richiesta da parte dell’imputato. 

Ambito oggettivo di applicazione

FATTO E DIRITTO
Con sentenza del 9 marzo 2021, il GUP presso il Tribunale di Brindisi, a seguito di giudizio abbreviato, dichiarava (omissis) colpevole dei delitti di cui agli artt. 629 co. 2 e 572 c.p., a lui ascritti in rubrica e riportati in epigrafe, unificati sotto il vincolo della continuazione, e lo condannava alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione e 1000,00 Euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e a quelle di mantenimento in carcere.

Avverso tale sentenza l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, ha proposto appello, articolando cinque motivi di ricorso.

Con il primo motivo, il difensore appellante ha lamentato l’omesso accertamento, mediante espletamento di una perizia medico-legale, della imputabilità dell’imputato, sebbene fosse stato acclarato che (omissis) era in cura sin dal 2000 sia presso il CSM di Ceglie Messapica, sia presso il (omissis) di Francavilla Fontana perché affetto da “Psicosi Schizofrenica Cronica con sintomatologia prevalentemente negativa e marcata compromissione della vita sociale, in paziente con abuso/dipendenza da sostanza diverse. Personalità borderline”-, detta patologia risultava ulteriormente riscontrata dalla Commissione Medica per il riconoscimento della invalidità civile, che aveva ritenuto (omissis) invalido all’80 per cento, con diritto all’assegno di invalidità; ancora (omissis), a causa delle sue patologie, era stato ritenuto bisognoso dell’amministratore si sostegno.

Con il secondo motivo, l’appellante ha dedotto l’insussistenza di elementi sufficienti a far ritenere integrati, al di là di ogni ragionevole dubbio, i reati di estorsione consumata e di estorsione tentata contestati al capo 1); le dichiarazioni della parte lesa meritavano attenta valutazione, anche alla luce del contenuto della relazione di servizio redatta dagli agenti di polizia giudiziaria il 1 marzo 2020, e cioè il giorno precedente alla querela, i cui i verbalizzanti davano atto che, intervenuti presso l’abitazione di quest’ultima “per una problematica tra una donna anziana ed il proprio figlio”, la persona offesa, a specifica domanda, aveva riferito di non aver comunque subito minacce o percosse dal figlio, né evidenziava sulla sua persona alcun segno di violenza; inoltre, la persona offesa aveva omesso di riferire che l’imputato aveva ottenuto nel 2011 un risarcimento di oltre 330.000,00 euro, somma che, in parte, era stata depositata su un libretto postale nominativo ordinario cointestato con il padre, in parte era stata investita in una Polizza vita; dette somme erano state nella disponibilità dell’imputato e dei suoi genitori sino agli inizi del 2020, quando, per i motivi più disparati, l’imputato ne aveva dilapidato l’intero a ammontare, residuando solo la somma di 6000,00 euro, che egli aveva consegnato alla madre affinché la custodisse; pertanto, da un lato, la disponibilità di ingenti somme proprie (dal 2011 al 2020) ma si conciliava con l’accusa di aver assunto condotte estorsive ai danni della madre, dall’altro, le somme che la persona offesa negava all’imputato “o consegnava controvoglia” erano quelle che l’imputato aveva dato in consegna alla madre; anche in passato, del resto, precisamente nel 2008, la persona offesa aveva denunciato il figlio per estorsione, ma, all’esito del giudizio, il fatto era stato riqualificato nel reato di cui agli artt. 392-393 c.p., essendo emerso che le pretese del (omissis) era motivate dalla volontà di rientrare nella disponibilità della somma liquidatagli a titolo di risarcimento del danno, tant’è che il procedimento si era concluso con declaratoria di non doversi procedere per intervenuta remissione di querela.

Con il terzo motivo di appello, il difensore appellante ha dedotto l’insussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato di maltrattamenti in famiglia, sostenendo che, nella vicenda in esame, non era provata la reiterazione e abitualità delle condotte illecite, trattandosi di “episodi slegati tra loro”, né volontarietà di sottoporre i genitori a sofferenze in modo continuo.

Con il quarto motivo di appello, l’appellante ha dedotto che i fatti contestati, in quanto occasionali ed episodici, avrebbero, al più, potuto essere inquadrati nel reato di minaccia.

Con il quinto motivo, l’appellante ha lamentato l’eccessività della pena base e degli aumenti per la continuazione, evidenziando che il primo giudice, nel discostarsi dal minimo edittale, non avrebbe tenuto conto della necessità di rieducazione dell’imputato, anche alla luce della sua incensuratezza.

Con motivi aggiunti depositati il 9 giugno 2024, il difensore appellante, munito di procura speciale, ha richiesto, in subordine, l’applicazione di una pena sostitutiva della pena detentiva.

All’udienza del 26 giugno 2024, la Corte ha disposto procedersi a perizia sullo stato di mente dell’imputato, conferendo incarico alla dott.ssa (omissis), medico psichiatra.

Acquisita la relazione peritale ed esaminato il perito all’udienza del 25 settembre 2024, sulle conclusioni delle parti, la Corte ha deciso in ordine all’appello proposto come da dispositivo, riservando il deposito della motivazione nel termine di novanta giorni, con contestuale ordinanza tesa ad acquisire elementi di valutazione in ordine all’applicazione nei confronti dell’imputato della pena sostitutiva della detenzione domiciliare. A norma dell’art. 545 bis c.p.p., pertanto, si sospendeva il processo e si dichiarava che il termine per il deposito della motivazione sarebbero decorsi dalla lettura in udienza del dispositivo integrato o confermato.

Espletato il suddetto incombente, tramite le informative dei Carabinieri di Brindisi e dell’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Brindisi (UEPE), all’udienza del 13 novembre 2024, sentite le parti, la Corte ha reso pronuncia definitiva sulla richiesta formulata dall’imputato.

Quanto al primo motivo di appello, si osserva che la dott.ssa (omissis), perito incaricato di verificare lo stato di mente dell’imputato all’epoca dei fatti, ha concluso, sulla base delle notizie cliniche ed anamnestiche raccolte, della documentazione sanitaria acquisita e dell’esame del periziando, che (omissis) è affetto da “schizofrenia cronica, con grave compromissione della vita sociale e delle funzioni cognitive con idee dì riferimento persistenti. Disturbo di personalità misto a prevalente componente borderline. Pregressa dipendenza da sostanze”. Il perito ha evidenziato che tale diagnosi è condivisa dai clinici presso cui è in trattamento (equipe del CSM di Ceglie Messapica e SerD di Francavilla Fontana) fin dal 2000, come emerge dall’esame della documentazione sanitaria e che si tratta di una patologia cronica, con un decorso continuo, che richiede elevati livelli di intensità assistenziale, in particolare in alcune fasi della malattia, per soddisfare bisogni complessi, aggiungendo che dal 2020 (omissis) è inserito in strutture comunitarie e residenziali, per cui il disturbo da uso di sostanze può essere considerato in remissione.

Nel rispondere al quesito in ordine all’incidenza della rilevata infermità sulla capacità di intendere e di volere, la dott.ssa (omissis) ha osservato che la ricostruzione della storia clinica e psicopatologica del (omissis) ha evidenziato un decorso caratterizzato da disturbo dello spettro psicotico grave, inquadrabile come una forma di schizofrenia a decorso cronico (continuo) con sintomi positivi quali deliri e allucinazioni, in un quadro di un disturbo di personalità di tipo borderline, con oscillazioni umorali, condotte eterolesive e impulsive, assenza o riduzione di consapevolezza di malattia; all’epoca dei fatti reato, (omissis) era in trattamento presso il Centro di Salute Mentale e il Servizio per le Dipendenze, tuttavia, con adesione non continuativa ai programmi terapeutici e alle cure, soprattutto per il perpetrarsi dell’abuso di sostanze stupefacenti; il disturbo psicotico da cui è affetto, già all’epoca dei fatti reato, era da considerarsi cronico, con sintomi prevalentemente negativi, che incidevano massivamente sulla sua vita sociale.

La dott.ssa (omissis) ha, quindi, concluso che il disturbo psicotico da cui è affetto (omissis) ha inciso sul funzionamento dei suoi meccanismi intellettivi o volitivi, potendo ritenersi che, all’epoca dei fatti, le sue condizioni psichiche fossero patologicamente compromesse, tanto da alterare la capacità di esercitare un valido e continuo autocontrollo, di scegliere in maniera sufficientemente libera ed autonoma da condizionamenti psicopatologico fra possibilità comportamentali alternative.

Quanto alla graduazione del vizio di mente riscontrato, la dott.ssa (omissis), tenuto conto delle risultanze dell’esame attuale e della storia clinica del periziando, ha evidenziato che, se senz’altro (omissis) presentava all’epoca dei fatti un allentamento dell’esame di realtà, con un pattern personologico pervasivo di instabilità dell’affettività e del comportamento, caratterizzato da marcata impulsività, e un esame di realtà deficitario e permeato dalla situazione psicopatologica, erano, tuttavia, assenti sintomi positivi quali voci allucinatorie imperative e deliri di persecuzione, tali da determinare una profonda disorganizzazione dell’Io e da incidere sui comportamenti-reto emessi; ha concluso, pertanto, che il disturbo psichiatrico riscontrato fosse tale da compromettere in maniera significativa, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere dell’imputato.

Le conclusioni del perito, suffragate da un coerente e logico iter argomentativo di tipo medico-psichiatrico, metodologicamente corretto ed esaurientemente motivato, non possono che essere condivise da questa Corte.

Passando a trattare gli altri motivi di appello, reputa la Corte che la statuizione di colpevolezza adottata dal giudice di primo grado per i reati ascritti all’imputato debba senz’altro essere tenuta ferma, attesa l’infondatezza dei profili di critica svolti a sostegno del proposto gravame.

La prova dei fatti si desume dalle dichiarazioni rese in sede di denuncia querela da (omissis), pienamente riscontrata dalle convergenti dichiarazioni rese da (omissis), vicina di casa della famiglia.

La donna, il 2 marzo 2020, denunciava che il figlio (omissis), tossicodipendente, le rivolgeva quotidianamente richieste di danaro (dalle 40,00 alle 60,00 euro) che ella assecondava per timore per la propria incolumità; in particolare, circa una settimana prima della denuncia, era stata costretta a consegnargli la somma di 600,00 euro, avendo il figlio minacciato di “ammazzarla” se non l’avesse fatto; il 2 marzo, giorno della denuncia, l’imputato le aveva nuovamente chiesto la somma di 100,00, minacciandola ancora una volta di morte; in tale occasione, al suo rifiuto l’aveva spinta facendola quasi cadere a terra e aveva “bestemmiato i morti”, uscendo di casa aveva sbattuto la porta; ha aggiunto di avere molta paura “in quanto mio figlio è violento e allorquando si innervosisce mi prende dalle braccia e mi sbatte al muro”; quello stesso giorno si era presentato in casa sua tale (omissis) che sosteneva di essere creditore da suo figlio di 2000,00 euro, che pretendeva da lei; ha concluso di temere per la propria incolumità in quanto il figlio la minacciava di morte e le chiedeva soldi “continuamente”.

Non si ravvisano, né sono stati dedotti dall’appellante, elementi concreti per dubitare dell’attendibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni sono lineari, precise, scevre da contraddizioni logiche sugli aspetti essenziali della vicenda.

Ella, d’altra parte, non ha manifestato motivi di particolare risentimento nei confronti del figlio e ha fornito una dettagliata ricostruzione della vicenda, rendendo evidente, attraverso la continua esplicitazione agli agenti di p.g. del sentimento di paura che la animava, che proprio tale sentimento l’aveva indotta a denunciarlo.

Importanti elementi di riscontro al narrato della parte lesa si desumono dalle dichiarazioni di (omissis), che, premesso di avere un rapporto di grande amicizia con la (omissis), ha riferito di aver assistito più volte alle minacce e violenze che (omissis) perpetrava ai danni dei genitori per costringerli a dar loro denaro; la donna ha ricostruito un episodio verificatosi il 29 febbraio 2020, quando l’imputato, svegliatosi alle 16.30, aveva iniziato a chiedere in modo aggressivo alla madre la somma di 600,00 Euro e, al suo rifiuto, le aveva urlato “mi hai rotto i coglioni, voglio i soldi”, fino a avere una colluttazione fisica con la madre e a scaraventare un piatto sulla tavola; aveva poi appreso che la sua amica, in quell’occasione, aveva dato 600,00 Euro al figlio. La teste riferiva di essere presente quando in casa della (omissis) giungeva tale (omissis), che assumeva di avere un credito di 2000,00 Euro nei confronti del (omissis), e di aver colto lo spavento nell’amica, che replicava “non te do, non gli date soldi, perché non ne ho”.

L’attendibilità delle dichiarazioni della parte lesa non può ritenersi inficiata dal contenuto della relazione di servizio del 1 marzo 2020, in cui i militari della Stazione di Oria davano atto che, al momento del loro intervento, la (omissis) aveva riferito di non aver subito minacce o percosse, che, invece, avrebbe denunciato in sede di successiva querela. Traspare, infatti, da tale annotazione il sentimento di angoscia della donna, che riferiva delle “frequenti, quasi giornaliere” richieste di danaro avanzatele dal figlio ed evidenziava che la situazione era divenuta “insostenibile”, in quanto ella temeva che il figlio potesse attuare delle ritorsioni nei suoi confronti. È dunque plausibile che, in quella circostanza, la donna, pur avendo invocato l’aiuto delle forze dell’ordine, non volesse aggravare la posizione del figlio, determinandosi, tuttavia, a denunciare l’effettiva realtà dei fatti solo a seguito dell’ultimo grave episodio che si era verificato il giorno successivo.

Pur avendo il difensore dimostrato che effettivamente l’imputato aveva ricevuto un ingente somma a titolo di risarcimento del danno, non vi è prova che le richieste rivolte dall’imputato alla madre fossero intese ad ottenere la restituzione di un residuo di tale somma che, a dir del difensore, l’imputato aveva messo a disposizione dei genitori. Risulta, infatti, dalla documentazione prodotta dal difensore e dalle deduzioni svolte dal difensore nella stessa memoria difensiva che, nel febbraio 2020, l’imputato aveva dilapidato l’intero ammontare liquidato in suo favore (cfr. pag. 6 dell’atto di appello), tanto che sul suo libretto smart residuava la somma di 1850,00 Euro circa. Non vi è alcuna prova che egli avesse consegnato alla madre una somma di 6000,00 Euro e che, dunque, le richieste di denaro fossero dirette a-recuperare tale somma. Anzi, proprio la circostanza che il denaro sul suo conto si fosse progressivamente esaurito a ridosso del febbraio 2020 appare compatibile con le pretese che egli, proprio in quel periodo, aveva iniziato a rivolgere alla madre in maniera insistente e aggressiva, evidentemente per provvedere all’acquisto di sostanze stupefacenti o far fronte agli ingenti debiti contratti (comprovati dalle convergenti deposizioni di (omissis) e di (omissis)).

Non vi è spazio, pertanto, per una riqualificazione della condotta nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui non sussistono gli estremi.

Infondato è anche il motivo di appello con cui il difensore ha sostenuto l’insussistenza degli elementi per ritenere integrato il contestato reato di maltrattamenti.

Dalle dichiarazioni della persona offesa e da quelle della vicina di casa può evincersi il dato della sistematica reiterazione di condotte ingiuriose e minacciose poste in essere dal (omissis) ai danni della madre.

Nessun dubbio può quindi sussistere in ordine alla ripetitività dei comportamenti aggressivi e minacciosi tenuti dall’imputato nei confronti della madre e in ordine alla loro protrazione per un arco di tempo apprezzabile.

È pertanto certamente integrato, nel caso di specie, l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.), potendosi richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il requisito dell’abitualità del reato è insito nel compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo (cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 25183 del 19/06/2012). Può infine ritenersi provata la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima, non essendo necessaria, ai fini dell’integrazione del dolo del reato, la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima.

Va riconosciuta in favore dell’imputato l’attenuante del vizio parziale di mente.

In ossequio ai criteri di cui all’art. 133 c.p., si reputa equa la pena complessiva di due anni di reclusione e 644,40 di multa, così determinata: muovendo dalla pena base per il più grave reato di cui all’art. 629 c.p., già determinata dal giudice di primo grado in cinque anni di reclusione e 1500,00 Euro di multa, misura prossima al minimo edittale, ridotta ex art. 62 bis c.p. a tre anni e mesi quattro di reclusione ed Euro 1000,00 di multa, ulteriormente ridotta ex art. 89 c.p. a due anni e due mesi di reclusione e 666,6 di multa, aumentata di sei mesi e dieci giorni di reclusione e 200,00 Euro di multa per la continuazione interna al capo 1) e di tre mesi di reclusione e 100,00 Euro di multa per il reato di maltrattamenti, per un totale di tre anni di reclusione e 966,6 Euro di multa, ridotta per il rito nella misura innanzi indicata. Tale pena è congrua in ragione della gravità delle condotte, desumibile dalla gravità del danno cagionato alla persona offesa, anziana e già gravata dall’onere di assistenza del marito gravemente malato.

La dott.ssa (omissis) ha ritenuto che la pericolosità sociale dell’imputato, per quanto attenuata grazie ai programmi terapeutici in atto e all’astensione protratta dall’uso di sostanze stupefacenti, in ambiente controllato, è ancora attuale, non essendosi ancora verificata una rielaborazione critica delle valenze proiettive che (omissis) continua a riproporre, né dei comportamenti aggressivi agiti: “l’insight è oscillante e l’esame dì realtà appare superficiale, in particolare relativamente alle prospettive future e alle difficoltà che potrebbe incontrare in un ambiente meno contenitivo. È elementare la critica della propria storia personale, delle condotte d’abuso, dei reati commessi”.

Il perito ha concluso che la pericolosità sociale può essere fronteggiata attraverso la prosecuzione del percorso in un contesto residenziale presso una Comunità Riabilitativa Assistenziale Psichiatrica (CRAP), su progetto del Centro di Salute Mentale competente per territorio, quale quella dove è attualmente inserito.

Ciò posto, stante l’attualità della pericolosità sociale del (omissis), a norma dell’art. 219 comma 3 c.p., va applicata nei suoi confronti, a pena espiata, la misura di sicurezza della assegnazione ad una casa di cura e custodia, che appare l’unica concretamente capace di arginare la spinta criminale patologica riscontrata, non apparendo adeguate, secondo la valutazione del perito, misure di sicurezza non detentive. La durata della misura di sicurezza va individuata in un anno, che appare adeguato, considerata la necessità – evidenziata dal perito – che (omissis) prosegua un percorso di cura complesso, di tipo psicologico, riabilitativo e terapeutico.

Risulta fondata la richiesta di applicazione della pena sostitutiva della detenzione domiciliare formulata dal difensore munito di procura speciale, anche in ragione delle attuali condizioni patologiche e abitative dell’imputato, che, come evidenziato dal perito, è collocato, dal 19 giugno 2021, presso la CRAP Villa del Sole.

La sostituzione della pena della reclusione con la detenzione domiciliare sostitutiva, per la stessa durata di due anni, viene disposta alle condizioni elencate nel dispositivo integrativo pronunciato in data 13 novembre 2024.

Sul piano socio-rieducativo, appare idoneo il programma di trattamento inerente all’esecuzione della pena sostitutiva della detenzione domiciliare, formulato dall’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) di Brindisi.

Atteso il carico del ruolo si fissa il termine di 90 giorni per la motivazione della sentenza.

P.Q.M.
Letti gli artt. 605, 592 c.p.p.,in riforma della sentenza del GIP presso il Tribunale di Lecce in data 9 marzo 2021, appellata da (omissis), ritenuta l’attenuante del vizio parziale di mente e con le già riconosciute attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla contestata circostanza aggravante, già calcolata la diminuente per il rito, ridetermina la pena inflitta all’imputato in ordine ai reati ascrittigli in due anni di reclusione e 644,40 di multa.

Visto l’art. 219 c.p. applica all’imputato, a pena espiata, la misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di cura e custodia per la durata di un anno.

Conferma nel resto l’impugnata sentenza.

Indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.

Lecce, 25 settembre 2024.

Letto l’art.545 bis c.p.p.,

ad integrazione del dispositivo emesso da questa Corte in data 25 settembre 2024, con il quale è stata riformata la sentenza del GIP presso il Tribunale di Lecce in data 9 marzo 2021

SOSTITUISCE

La pena detentiva di anni due di reclusione inflitta a (omissis) con la pena della detenzione domiciliare sostitutiva per anni due;

FISSALE SEGUENTI PRESCRIZIONI

1) Rapporti con gli Uffici e i Servizi: il condannato, con l’irrevocabilità della sentenza, dovrà tempestivamente prendere contatti con l’UEPE di Brindisi, competente in relazione al luogo di dimora, e dovrà mantenerli secondo i tempi e i modi dallo stesso indicati; dovrà attuare il programma di trattamento predisposto dall’UEPE e seguirne le indicazioni;

2) Dimora e territorio: dovrà fissare la propria dimora in Latiano (Br), presso la CRAP Villa del Sole, e comunicare all’UEPE ogni eventuale cambiamento di dimora che dovrà essere idonea ad assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato;

3) Il condannato svolgerà il programma terapeutico/rieducativo disposto dal CSM di Ceglie Messapica, osservando le relative prescrizioni sia all’interno che all’esterno della CRAP (in quest’ultimo caso, dovrà essere accompagnato da un operatore); dovrà permanere in struttura nelle ore notturne; potrà ricorrere a cure mediche all’esterno della struttura, previo avviso al comando Stazione Carabinieri territorialmente competente;

4) Al condannato è vietato avvicinarsi alla persona offesa ed ai luoghi dalla stessa frequentati, con divieto di comunicare e interagire, attraverso qualsiasi mezzo anche telefonico e telematico, con la stessa;

5) Il condannato è autorizzato ad allontanarsi dalla struttura per quattro ore al giorno anche non continuative (nella fascia oraria 10.00 – 12.00 e 16-18.00), al solo fine di soddisfare le proprie esigenze di vita, esclusivamente nell’ambito del comune di dimora e accompagnato da un operatore o da un familiare.

Si dà atto che il termine di 90 giorni per il deposito della motivazione decorre dalla data odierna.

Così deciso in Lecce, il 13 novembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2025.

Allegati

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