Fatto
Il Tribunale di Firenze, con la sentenza oggi impugnata, ha respinto la domanda proposta da (omissis…) nei confronti dell'(omissis…) e di (omissis…) avente ad oggetto il riconoscimento del suo diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale che la ricorrente assume di aver subito a causa del comportamento costituente mobbing posto in essere a suo danno, anche mediante dequalificazione, dal 2002 al 2008.
In sintesi, la (omissis…) espone di aver lavorato presso (omissis…) dal 1993 e di essere stata autorizzata, dall’anno 2000, a svolgere altresì attività professionale di psicopedagogista con conseguente modificazione del suo orario di lavoro in part-time orizzontale al 50%. Nel 2002 presso tale Ufficio ha preso servizio come nuovo direttore. Sin dall’inizio, il ha dimostrato avversione nei confronti del part-time della (omissis…) e dello svolgimento da parte della stessa della libera professione. La (omissis…) descrive quindi una serie di comportamenti vessatori posti in essere nel tempo dai (omissis…) nei suoi confronti: collocamento in una stanza di lavoro di passaggio, continue lamentele nei suoi confronti, ingiustificati rimproveri, minacce e offese. Alla (omissis…) era imposto di riferire ai ogni proprio movimento, anche per andare in bagno, ella si trovava in una situazione di isolamento in ufficio in quanto i colleghi avevano difficoltà a relazionarsi con lei. Nel marzo dei 2004 la (omissis…) è stata privata di strumenti di lavoro quali il computer e la stampante necessari per procedere al controllo delle dichiarazioni dei redditi.
Nel settembre 2004 il procedeva direttamente e personalmente ad una verifica fiscale presso l’ambulatorio dove la (omissis…) lavorava come psicopedagogista interrompendo bruscamente la seduta in corso con un bambino paziente della odierna appellante.
Dal mese di aprile 2005 la odierna appellante sostiene di essere stata sostanzialmente demansionata, lasciata priva di strumenti di lavoro e senza incarichi specifici. I colleghi non sapevano cosa farle fare ed ella aveva solo mansioni residue ed inferiori alla qualifica di appartenenza. Il (omissis…) inoltre aveva fatto una segnalazione alla Procura della Repubblica in esito alla quale la (omissis…) è stata sottoposta a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 640 comma 2 c.p. e 48, 477 e 482 c.p.. All’esito del dibattimento ella è stata pienamente assolta per insussistenza del fatto (sentenza del 28.6.2007).
Esasperata da tale situazione lavorativa la (omissis…) si è dimessa dal posto di lavoro in data 30.9.2008.
Sulla base di questi e di altri episodi descritti in ricorso la (omissis…) aveva quindi chiesto al Tribunale di Firenze di accertare che i comportamenti descritti integrano a suo danno una forma di mobbing e di dequalificazione per il periodo aprile 2005 – settembre 2008 e di condannare le parti convenute al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (anche biologico) quantificato in complessivi Euro 600 mila.
Dopo la costituzione e la difesa delle parti convenute e l’istruttoria orale, il Tribunale di Firenze ha respinto la domanda della (omissis…) compensando le spese di lite.
La (omissis…) quindi propone appello avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi d’appello:
1) Ha errato il Tribunale di Firenze nel non prendere in esame e non considerare l’esito del giudizio penale svoltosi a suo carico ed i relativi verbali.
2) La sentenza di primo grado risulta errata nella parte relativa alla valutazione delle prove assunte non avendo ritenuto dimostrato il mobbing, o quantomeno, lo “straining” e comunque il demansionamento.
3) Il Tribunale di Firenze ha omesso di valutare i danni subiti dalla Cordella ed il nesso causale tra questi e l’ambiente di lavoro.
Anche In questa fase di secondo grado si sono costituiti (omissis…) delle nonchè (omissis…) ed hanno chiesto il rigetto dei gravame e la conferma della sentenza resa in primo grado.
In via preliminare hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c.
DIRITTO
RITO:
L’eccezione di inammissibilità sollevata dalle odierne appellate è infondata in quanto l’appello proposto dalla (omissis…) certamente contiene una chiara indicazione delle circostanze dalle quali deriva la violazione di legge (errata valutazione delle prove, inadeguata valutazione della sentenza penale, violazione dei principi i materia di nesso causale e risarcimento del danno) e la loro rilevanza ai fini della decisione.
Dei resto, è bene ricordare che secondo la giurisprudenza della S.C. ” L’art. 434, primo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dall’art. 54, comma 1, lettera c) bis del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dallo legge 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 cod. proc. civ., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, si da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto correttamente formulato un ricorso in appello, In cui le singole censure – attinenti alla ricostruzione del fatto e/o alla violazione di norme di diritto – erano state sviluppate mediante la indicazione testuale riassuntiva delle parti della motivazione ritenute erronee e con la analitica indicazione delle ragioni poste a fondamento delle critiche e della loro rilevanza alfine di confutare la decisione impugnata)”, Cass. n. 2143/2015, conforme n. 10386/2015 in motivazione.
In sostanza, la norma in esame pone a carico dell’appellante un onere processuale – indubbiamente assolto nel caso in esame – secondo il quale l’appello, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, deve contenere una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice (Cass. n. 17712/2016).
Sempre in via preliminare, è bene chiarire che la legittimazione passiva nel presente giudizio spetta solo (omissis…) quale datore di lavoro della (omissis…) e non delle sue articolazioni locali chiamate in causa.
MERITO:
L’appello è parzialmente fondato e merita accoglimento secondo ragione e diritto.
Il Tribunale di Firenze, con la sentenza oggi appellata, ha respinto tutte le domande della (omissis…) ritenendo che ella non avesse dimostrato giudizio gli elementi costitutivi del mobbing e non avesse fornito la prova delle singole condotte vessatorie o mortificanti suscettibili di determinare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro. Secondo il primo giudice, infatti, tale responsabilità non può essere collegata a mere situazioni conflittuali createsi nell’ambiente di lavoro.
Sotto questo aspetto ed in riferimento ai primi due motivi d’appello, la sentenza del Tribunale di Firenze non può essere condivisa: i vari episodi dedotti in ricorso sono stati, infatti, almeno parzialmente confermati dai testimoni escussi (si veda soprattutto il teste (omissis…) ) ed anche la sentenza emessa in sede penale conferma la bontà delle ragioni della odierna appellante.
Il teste (omissis…) collega di lavoro ed anche ex compagno della (omissis…) ha riferito che “L’atteggiamento ostile del si concretizzava in uno stretto monitoraggio dei movimenti della ricorrente all’interno dell’ufficio, ad es. se rispondeva al telefono o si alzava per andare in un altro locale”, “è vero che il dr. (omissis…) chiedeva conto di quello che la ricorrente faceva”, “la ricorrente doveva relazionare giornalmente su quello che faceva. Lo so perché ho visto i moduli dalla medesima compilati che venivano consegnati all’ufficio della segreteria… non mi risulta che questa richiesta di rendicontazione giornaliera del lavoro sia stata chiesta a nessun altro”.
Tale ultima circostanza è stata confermata anche dal teste (omissis…) “la richiesta di una relazione scritta delle attività quotidiane non mi risulta che fosse rivolta ad altri dipendenti dell’ufficio” (il teste ha anche riconosciuto il doc. 99 ossia i rendiconti giornalieri redatti dalla alcuni recanti il timbro dell’Ufficio e la data).
Allo stesso modo, la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa è stata confermata dal testimone (omissis…) “Non so se nel marzo 2004 ma per un periodo la ricorrente rimase senza computer e stampante. Che io sappia non ci fu una giustificazione ufficiale di questo. Il computer e la stampante erano necessari per svolgere il lavoro di controllo delle dichiarazioni” con la precisazione che la (omissis…) aveva richiesto al (omissis…) tali strumenti di lavoro ma invano. Anche il (omissis…) ha riferito di aver parlato con il di questo problema, ossia della mancata assegnazione alla (omissis…) del computer per lavorare.
E’ stato confermato, altresì, che la (omissis…) per un periodo è stata collocata in una stanza di passaggio dove prima nessuno lavorava ( teste (omissis…) ) e che anche dopo il suo insediamento veniva utilizzata dai colleghi per andare in segreteria.
Circa l’episodio del 22.9.2004, ossia quello della visita fiscale presso l’ambulatorio ove la (omissis…) svolgeva la sua attività di psicopedagogista, vengono fornite due tesi contrapposte: secondo tale accesso si inserisce in un programma più ampio di verifiche sui dipendenti esercenti arti o professioni, era normale che partecipasse anche il direttore in persona anche per problematiche precedenti ( vedi deposizione (omissis…) ). La verifica non riguardava la legittimità dell’assenza della (omissis…) che quel giorno era in malattia. Il anzi era sorpreso di trovarla nel poliambulatorio.
Secondo la (omissis…) invece l’accesso era diretto proprio a cercare lei, era stato preceduto da un sopralluogo dello stesso, era stato brusco ed aggressivo. In sede penale la teste (omissis…), che lavora nell’ambulatorio in questione, ha precisato che il 22 settembre 2004 una persona era venuta a chiedere direttamente della (omissis…) e che l’aveva incontrata in corridoio dopo che ella era uscita dalla stanza dove stava lavorando. L’incontro tra i due non fu “assolutamente” tranquillo e la (omissis…) “prese tutte le sue scartoffie e se ne andò via”.
Orbene, sul punto, lo stesso Giudice di primo grado, pur respingendo la domanda della (omissis…), ha precisato che la partecipazione del direttore all’accesso ispettivo risultava ingiustificata alla luce della prassi vigente presso (omissis…).
Il carattere non usuale del sopralluogo è stato confermato anche dal teste i la quale ha precisato: “normalmente quello che faccio io, quando mi viene dato l’incarico, è di fare le interrogazioni al computer, in ufficio, per verificare quello che risulta. Non ho idea se altri facciano prima un sopralluogo, lo non faccio nessun sopralluogo preventivo”.
Significativo è, infine, l’esito del giudizio penale nell’ambito del quale è stata accertata “una realtà completamente diversa da quella rappresentata dalle accuse formulate nei di lei confronti”.
Si precisa infatti che la (omissis…) era vittima di una “situazione di intolleranza” da parte del dott. “il quale faceva di tutto per renderle la vita impossibile”. I testimoni escussi in sede penale (omissis…) “hanno tutti confermato questo accanimento del loro capo, dott. (omissis…), nei confronti di (omissis…) “(così nella sentenza del Tribunale di Pisa del 28.6.2007).
In conclusione ritiene la Corte che l’istruttoria espletata in primo grado e l’esito del giudizio penale consentano di ritenere dimostrato che la nel periodo in questione, sia stata oggetto di un comportamento vessatorio posto in essere da parte del direttore dell’Ufficio ove ella lavorava.
Questo comportamento illegittimo si è concretizzato, come detto, nella collocazione della lavoratrice in una stanza di passaggio, mai utilizzata prima dai colleghi, nella imposizione di un rendiconto giornaliero del tutto non dovuto e mortificante, nella privazione degli strumenti necessari allo svolgimento delle proprie mansioni e quindi in una sostanziale dequalificazione.
A questo si aggiunge il grave episodio del 22 settembre 2004 nel quale il si è presentato, con condotta contraria alla prassi interna, presso l’ambulatorio ove la (omissis…) svolgeva attività professionale regolarmente autorizzata, interrompendo una terapia in corso e con finalità chiaramente persecutorie.
Ella, come detto, ha denunciato questo comportamento sotto forma di mobbing e demansionamento.
è noto che con il termine “mobbing” si indica una condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti del suo dipendente consistente in una serie ripetuta di ingiustificati soprusi diretti ad isolarlo ed a screditarlo nell’ambiente di lavoro e preordinati alla sua estromissione dallo stesso, condotta tale da comportare per il lavoratore gravi menomazioni sia in relazione alla sua capacità lavorativa che alla sua integrità fisica.
La (omissis…) inoltre deduce di essere stata, a lungo, demansionata, ossia assegnata a mansioni lavorative inferiori a quelle proprie della sua qualifica di quadro, in violazione dell’art. 2103 c.c..
Sulla base di questi elementi di prova, ed entro i limiti suddetti, si deve quindi ritenere provato il comportamento illegittimo posto in essere a danno della (omissis…) nella duplice forma del mobbing e del demansionamento.
Accertata la sussistenza de) dedotto fatto ingiusto resta da valutare le domande risarcitorie presentate dalla (omissis…) e respinte in primo grado.
Il danno del quale chiede il risarcimento comprende aspetti patrimoniali (spese mediche, riduzioni di stipendio durante le assenze per malattia, acquisto di farmaci, spese sostenute per la difesa nel giudizio penale) nei quali include anche la perdita di competenze professionali e di occasioni di sviluppo di carriera, queste ultime voci da determinarsi in via equitativa.
Il danno non patrimoniale viene rivendicato sotto forma di danno biologico, esistenziale e morale.
Nel corso del giudizio è stata disposta una prima CTU medico legale richiesta dalla appellante.
Orbene, il Consulente della Corte ha chiarito che la diagnosi di depressione a carico della (omissis…) veniva certificata nel periodo agosto 1992 – aprile 1993 quale motivo di inidoneità lavorativa temporanea per complessivi 57 giorni, manifestatosi su base reattiva ai disagi ambientali derivanti dalla sede disagiata di lavoro (Portoferraio).
Non risultano evidenze anamnestiche nè certificazioni mediche in atti relative al periodo temporale che va dall’aprile 1993 al gennaio 2004.
Il primo CTU ha evidenziato la sussistenza a carico della appellante di uno stato ansioso-depressivo riacutizzatosi nel periodo inizio 2004 – fine 2005. Ha concluso che la sig.ra (omissis…), già dipendente dell’ (omissis…), nel periodo che va dal 26.7.2004, quando iniziano i controlli specialistici da parte dello psichiatra della ASL 11 -Empoli, al 28.6.2007, data della sentenza penale di assoluzione, e’ ragionevole ammettere che abbia avuto un peggioramento della sintomatologia depressiva, condizione patologica preesistente, con accentuazione della fenomenica clinica e necessità di assidui controlli specialistici e terapia farmacologica.
Non risulta però sufficientemente documentata, secondo il primo consulente, la derivazione causale del quadro clinico con il disagio lavorativo denunciato.
All’udienza del 11 ottobre 2018 la Corte, sentita la discussione delle parti e le contestazioni circa l’esito della prima CTU, ha disposto il rinnovo delle operazioni peritali.
Il secondo CTU nominato dalla Corte (omissis…) ha accertato che: La signora (omissis…) all’epoca di anni 35, laureata in Pedagogia, impiegata all’ (omissis…) con rapporto a part-time per poter svolgere attività libero professionale di psicopedagogista, con precedenti di depressione ansiosa, dal 2002 e fino al 2005 attraversò un periodo di esacerbazione dell’ansia e della depressione in concomitanza con riferite indebite pressioni del superiore gerarchico perchè passasse a tempo pieno, passaggio che la signora (omissis…) fece nel 2005; segui il trasferimento di sede di lavoro. La situazione conflittuale non fu percepita risolta con successivi trasferimenti e dal 2007 la signora (omissis…) tornò al part- time e nel 2008 lasciò il lavoro; dopo un periodo di attività libero professionale è adesso occupata a pieno tempo come educatrice presso una istituzione di primario livello nazionale dedita alla neuropsichiatria infantile.
2) La maggior sofferenza ansioso depressiva negli anni 2002-2005 è da mettere in relazione con una oppressione percepita nell’ambiente di lavoro, ma quanto di obbiettivo (e non semplicemente il narrato anamnestico) il medico può rilevare nella perizianda e dalla documentazione in atti non consente di chiarire se si trattò di risposta causata o quanto meno concausata da uno stimolo abnorme costituito da una condotta antigiuridica del superiore gerarchico, oppure di una risposta abnorme a stimoli rientranti in una dialettica giuridicamente corretta all’interno dell’ambiente di lavoro che abbia costituito solo “occasione” in senso medico legale. Una definitiva soluzione in merito dipende da quanto la Magistratura accerti in ordine alfe obbiettive condizioni e vicende lavorative.
3) Dalla maggior sofferenza ansioso-depressiva sopra specificata, in base ai documenti a disposizione è da stimare che sia derivata una inabilità temporanea di 376 giorni, che ai fini INAIL fu assoluta mentre in termini civilistici è da stimare come inabilità temporanea parziale al 50%.
4) In base a quanto rilevato a livello specialistico psichiatrico e a livello medico legale, non è da stimare un danno biologico permanente in relazione ai fatti oggetto di causa.
Orbene, sulla base di questo secondo esame peritate, che non si discosta sostanzialmente da quanto accertato da parte del primo CTU, e dell’istruttoria espletata la Corte ritiene di poter dare risposta positiva all’interrogativo lasciato aperto dal CTU: se la maggior sofferenza ansioso depressiva della (omissis…) sia stata una risposta causata o quanto meno concausata da uno stimolo abnorme costituito da una condotta antigiuridica del superiore gerarchico, oppure una risposta abnorme a stimoli rientranti in una dialettica giuridicamente corretta all’interno dell’ambiente di lavoro che abbia costituito solo “occasione” in senso medico legale.
Difatti, si è detto sopra che la situazione lavorativa alla quale la (omissis…) è stata sottoposta nel periodo in esame travalica chiaramente i limiti di una dialettica giuridicamente corretta ed integra una forma di mobbing e di demansionamento. Sotto questo aspetto non si può negare l’efficienza causale di tale condotta nel determinare il danno biologico accertato dal CTU.
Si consideri, inoltre, che il precedente episodio di sofferenza psicologica della (omissis…) risale all’inizio degli anni 1990: dopo tale primo periodo, dei quale non sono ben precisati la gravità e la terapia, come chiarito dal CTU, la (omissis…) ha goduto di un periodo stabile durante il quale ha curato la propria professionalità con esiti positivi. Anche in seguito, dopo le dimissioni dall’ (omissis…) la (omissis…) ha costruito stabilità e realizzazione professionale.
Sembra quindi alla Corte evidente che la maggior sofferenza ansioso depressiva della (omissis…) sia stata una risposta causata o quanto meno concausata da uno stimolo abnorme costituito dalla condotta antigiuridica del superiore gerarchico e non una reazione ( abnorme ) della lavoratrice ad una situazione da considerarsi normale in un ambiente di lavoro.
Non appaiono decisive, nel senso di escludere il suddetto nesso di causalità, le circostanze dedotte anche in sede di discussione ossia la mancata denuncia della malattia professionale all’INAIL e la lunga degenza in ospedale del padre della (omissis…)
Sotto il primo aspetto ben si deve considerare il carattere del tutto peculiare della malattia in questione, rispetto a quelle classiche “professionali”, e lo svilupparsi dei fatti dannosi ed ingiusti attraverso una serie ripetuta nel tempo di condotte diverse tra loro per contenuto e gravità.
Sotto il secondo aspetto, la patologia per la quale il padre della odierna appettante fu ripetutamente ricoverato tra il 2003 ed il 2005 (distacco della retina), per quanto certamente seria, non sembra tale da giustificare l’insorgere di una sofferenza psicologica come quella accusata dalla figlia.
Resta da valutare la domanda risarcitoria avanzata dalla lavoratrice.
Si è detto come il CTU (il secondo, come il primo, del resto) abbia escluso la sussistenza di un danno permanente a carico della lavoratrice avendo riconosciuto solo 376 giorni di inabilità temporanea parziale al 50%.
Facendo applicazione delle Tabelle di Milano 2018 per la determinazione del danno non patrimoniale di lieve entità ( da 0 a 9 punti ), il risarcimento spettante alla (omissis…) è pari ad Euro 18.424,00.
Esaminando il ricorso di primo grado, emerge che la (omissis…) rivendica anche il risarcimento dei danni patrimoniali sotto forma di:
Riduzioni di stipendio e mancata erogazione dei compensi accessori per i periodi di malattia che si assumono dovuti alla descritte vicende lavorative.
Spese mediche varie: parcelle dei medici consultati, sedute di psicoterapia, acquisito di farmaci.
Spese sostenute per la propria difesa nel giudizio penale scaturito dalla denuncia del (omissis…) nei suoi confronti.
Danno professionale sotto forma di perdita di chances da determinarsi in via equitativa.
Danno da demansionamento, anch’esso da liquidarsi in via equitativa.
Tutti questi danni vengono quantificati nella complessiva somma di Euro 200 mila senza alcuna specificazione e distinzione.
Orbene, ritiene la Corte che questa parte della domanda debba essere respinta per genericità e mancanza di allegazioni. Non vengono infatti forniti elementi sufficienti per affermare che le assenze per malattia fossero tutte imputabili alle vicende per cui è causa così come le spese mediche e l’acquisto dei farmaci. Da considerare anche il pregresso stato di malattia della (omissis…) nei periodo di lavoro all’Isola d’Elba. Stesso discorso per il danno professionale e da demansionamento che viene dedotto in re ipso – contrariamente alla giurisprudenza della S.C. secondo il quale tale danno deve essere specificamente allegato e dimostrato dalla parte che invoca il risarcimento.
Infatti, come chiarito dalla S.C. “L’assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del loro livello contrattuale non determina di per sé un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede, in funzione compensatoria, l’art. 2103 cod. civ., il quale stabilisce il principio della irriducibilità della retribuzione, nonostante l’assegnazione e lo svolgimento di mansioni inferiori e meno pregiate di quelle già attribuite, giacché deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica dequalificazione professionale, connotandosi quest’ultima, per sua natura, per l’abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una conseguenziale apprezzabile menomazione – non transeunte – della sua professionalità, nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno” ( Cass. 16792 del 2003 ).
Non viene inoltre fornita una quantificazione del danno tale da distinguere le diverse voci che vengono rivendicate.
Per quanto riguarda la responsabilità degli odierni appellati è bene ricordare che la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità dei datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (Cass. 18093 del 2013).
In ogni caso, la S.C. precisa che nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente persecutoria, il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e se siano causalmente ascrivibili a responsabilità del datore che possa esserne chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui specificamente imputabili (Cass. 4222 del 2016).
Nel caso in esame, certamente non si può dubitare della responsabilità del Lasi posto che le condotte denunciate ed accertate come vessatorie e mortificanti sono state poste in essere direttamente dall’odierno appellato. Le condotte illegittime sono state poste in essere, nella pressoché totalità, prima del 13.4.2005, data che il indica come finale della propria eventuale responsabilità. Il Lasi è quindi tenuto per intero a risarcire alla (omissis…) i danni causati dalla sua condotta come direttore dell’ufficio di San Miniato.
Sussiste però anche la responsabilità del datore di lavoro essendo lo stesso rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo.
Dagli atti di causa infatti emerge con chiarezza che le vicende in questione si sono svolte in modo assolutamente conosciuto, e certamente conoscibile, da parte del datore di lavoro.
Tanto si desume dal fatto che la (omissis…) è stata sottoposta a più procedimenti disciplinari, ad un giudizio penale, che ella si è più volte rivolta alla Direzione Regionale e che il vice direttore dell’Ufficio (dr. (omissis…) è stato coinvolto dallo stesso in alcune delle vicende denunciate (es. episodio del 5.4.2005).
In conclusione, ritiene la Corte che la sentenza di primo grado debba essere riformata e la domanda della (omissis…) accolta nei limiti ora indicati.
La riforma della sentenza di primo grado comporta una nuova regolazione delle spese dei giudizio.
In particolare, tenuto conto dell’accoglimento parziale della domanda, soprattutto in punto di misura del danno risarcibile, ritiene la Corte di compensare per 1/3 le spese dei due gradi.
I restanti 2/3 vanno posti a carico delle parti appellate, secondo la norma della soccombenza. Le spese si liquidano, ai sensi del D.M. 55 del 2014, per l’intero in Euro 5.885,00 per il primo grado ed Euro 6.491,00 per l’appello.
Le spese di CTU, liquidate in separato decreto, sono definitivamente a carico della parti appellate, secondo la norma della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, in riforma della sentenza appellata:
Dichiara che l’ (omissis…) ed il (omissis…) hanno posto in essere, nel periodo successivo al 2002, una condotta costituente mobbing, anche mediante dequalificazione, a danno di (omissis…).
Condanna l’ (omissis…) e (omissis…) personalmente a risarcire a (omissis…) i danni non patrimoniali derivanti dalla suddetta condotta, in misura (omissis…) pari ad Euro 18.424,00 oltre interessi e rivalutazione come per legge.
Respinge le altre domande contenute nel ricorso di primo grado.
Compensa le spese di lite del doppio grado per 1/3.
Condanna (omissis…) personalmente a rifondere a i restanti 2/3. Liquida l’intero in Euro 12.376,00 oltre spese generali 15%, Iva e Cpa.
Pone definitivamente a carico dell’ (omissis…) di (omissis…) personalmente le spese delle due CTU, liquidate in separato decreto.
Così deciso in Firenze, il 9 maggio 2019.