SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 14 settembre 2016 il giudice del lavoro del Tribunale di Catania premetteva quanto segue: i) con ricorso del 28.02.2013, AB. Ro. An., deducendo di aver lavorato alle dipendenze della società convenuta dal 9 settembre 2005 all’1 agosto 2012 per dieci ore al giorno, aveva chiesto dichiararsi la nullità del licenziamento, intervenuto durante il periodo di malattia, nonchè la condanna della società al pagamento di differenze retributive per lo svolgimento, nell’arco di tutto il rapporto, di mansioni superiori di II livello e al risarcimento del danno, in ragione del mobbing subìto dalla data del 5 aprile 2012 sino al licenziamento; ii) la convenuta nel costituirsi in giudizio aveva eccepito l’inammissibilità delle domande “in quanto escluse dal rito Fornero” e comunque l’insussistenza del rapporto di lavoro subordinato dedotto in causa e, in subordine, la prescrizione dei vantati crediti; iii) con ordinanze del luglio 2013 era stata dichiarata l’inammissibilità delle domande attinenti al licenziamento e disposta la prosecuzione, previo mutamento del rito, per le domande relative alle differenze retributive e al risarcimento del danno non patrimoniale.
Ciò posto, il Tribunale riteneva che, alla luce della svolta istruttoria (deposizioni testi Lo., Ru. e Ma.), poteva ritenersi provata la prestazione di lavoro subordinato dell’AB., moglie dell’amministratore delegato della società, solo nei periodi regolati dai due contratti stipulati inter partes, mentre nel restante periodo – per il quale non risultava provato il vincolo della subordinazione – la ricorrente si era limitata a collaborare il marito nella sua attività di intermediario alle vendite, come riferito dal teste Lo..
I testi non avevano poi fornito univoco sostegno alla domanda di superiore inquadramento: in realtà nè nelle mansioni genericamente indicate in ricorso nè in quelle realmente svolte erano ravvisabili la discrezionalità e l’autonomia richieste dalla declaratoria contrattuale per il superiore livello invocato. Nessuno dei testi, infine, aveva confermato il presunto mobbing subìto dalla ricorrente.
Appellava detta pronuncia la soccombente con atto del 14 marzo 2017.
Ripristinatosi il contraddittorio, rimaneva contumace l’appellata.
Disposta consulenza tecnica medico-legale (depositata telematicamente in data 27.03.2019), all’udienza del 23 aprile 2019 la causa è stata discussa e decisa come da separato dispositivo in calce trascritto, ritualmente letto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo l’appellante assume che il Tribunale avrebbe anzitutto errato nel ritenere che non vi fosse stata continuità del rapporto di lavoro, e segnatamente, che difettasse la prova del rapporto di lavoro subordinato nel periodo di vacanza compreso tra il contratto terminato con il licenziamento del 4 luglio 2009 e il secondo contratto avente efficacia dal 21 luglio 2000. Nessuno dei testi aveva riferito di tale mutamento nell’anno a cavallo tra il 2009 e il 2010; anzi, i testi Ru. e Ma. avevano affermato la costante presenza della ricorrente anche durante il periodo non contrattualizzato, escludendo interruzioni della prestazione, non riferendo di alcuna variazione dell’atteggiarsi del rapporto di lavoro e altresì confermando che il lavoro svolto dall’AB. era “subordinato all’amministratore di Idea mediterranea”. Viceversa, era inattendibile il teste Lo., liquidatore della società, il quale aveva rivestito la carica di consigliere di amministrazione dal 2008 ed era altresì amministratore delegato della Copaim S.p.A., proprietaria del 100% delle quote della Idea Mediterranea. Il Lo. peraltro aveva riferito di non essere stato mai presente in azienda, salvo che per i consigli di amministrazione che si tenevano 3-4 volte l’anno. Inoltre, nessun riscontro vi era in atti da cui potesse evincersi che l’odierna appellante si fosse occupata dell’attività di vendita del marito. Illogico, poi, il riferimento in motivazione al fatto che non vi fosse necessità di una figura apicale da affiancare all’amministratore, sia perchè irrealizzabile di fatto (gli altri componenti del CdA erano il Lo., di stanza a Grosseto, e Romiti Maurizio, consigliere di amministrazione di altre società con sede a Milano), sia perchè in contrasto con le risultanze di causa (i testi Ru. e Ma. avevano dichiarato che la AB. era un punto di riferimento alternativo all’amministratore; la stessa controparte peraltro aveva riferito, a conferma della necessità di un soggetto che affiancasse l’amministratore, che, a seguito del licenziamento, le mansioni erano state affidate al Ma.).
1.1 Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, travisando le risultanze istruttorie, ha escluso lo svolgimento delle superiori mansioni. I testi avevano confermato che la AB.: si era occupata di “tutti gli aspetti relativi al personale” (pagamento stipendi, turnazione feriale, permessi, avvio e istruzione procedimenti disciplinari, rapporti con il consulente del lavoro, assunzioni, visite periodiche e rapporti con il medico aziendale); predisponeva i pagamenti dei fornitori e riceveva dai clienti i pagamenti delle fatture; supervisionava l’esattezza dei pagamenti; aveva delega formale a presentare versamenti sui conti correnti della società e distinte di anticipo fatture, ritirare assegni circolari, presentare disposizioni da eseguire per cassa o da valere in conto corrente, richiedere ed estrarre estratti conto; fungeva da alter ego dell’imprenditore sia in sua assenza che “in specifici ambiti lavorativi che le erano interamente assegnati”; supervisionava e coordinava l’operato dei lavoratori “presenti in amministrazione” che si occupavano di logistica, acquisto materie prime, raccolta e rendicontazione delle fatture, e “sovente anche di aspetti legati alle procedure produttive”; curava tutti i rapporti con i consulenti dell’impresa. A tal fine – assume l’appellante – va confrontata la declaratoria prevista per il II livello con quelle dei livelli (7. e 6.) in cui l’appellante era stata invece inquadrata.
1.2 Con ultimo motivo si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale. Ribadisce l’appellante che, a seguito della fuoruscita dal CdA di Ge. Do., ella aveva subìto una continua pressione psicologica e sottrazione di mansioni (gestione del fondo cassa e dei conti correnti, pagamento stipendi, affidati al Ma. senza alcuna formale comunicazione datoriale; assunzione di una nuova dipendente senza che la AB., la quale si era sempre occupata delle assunzioni, ne fosse stata informata; omessa informazione sull’incontro con il consulente Ca. in data 18 giugno 2012; omessa risposta alla richiesta di ricevere i dati necessari alla compilazione dei fogli presenza; omessa comunicazione del cambio di tutti gli indirizzi e-mail dell’azienda e mancata attribuzione di un nuovo indirizzo di posta elettronica; periodo di ferie forzate imposto dall’azienda nel luglio 2012; licenziamento in periodo di malattia). I certificati medici in atti attestano inoltre sindrome ansioso-depressiva, causalmente riconducibile alle condotte datoriali attesa la concomitanza temporale tra tali condotte (aprile-agosto 2012) e i certificati sanitari (maggio-ottobre 2012). Sussistevano pertanto “tutte le figure sintomatiche del comportamento contestato all’impresa”, considerati l’interruzione delle comunicazioni verbali, la progressiva sottrazione delle mansioni senza provvedimenti ufficiali, l’esclusione dalle dinamiche aziendali, la mancata attribuzione dell’indirizzo di posta elettronica e il forzato collocamento in ferie.
2. Tali le critiche alla sentenza impugnata, i primi due motivi di gravame, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
Per orientamento giurisprudenziale consolidato, sia di legittimità che di merito, qualora venga rivendicato dal lavoratore il diritto all’inquadramento in una qualifica superiore, incombe sul medesimo l’onere di allegare e provare le mansioni in concreto esercitate, nonchè di produrre in giudizio il contratto collettivo di categoria, mentre il giudice, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento, non può prescindere da tre fasi successive, e cioè: dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche previste dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto dei risultati di tali due indagini (v., ex multis, Cass. 5942/04; 4791/04; 3446/04; 15751/03; 12854/03; 6560/01; 3195/99; 9822/00).
L’onere di allegare, in maniera precisa e puntuale, le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa in concreto svolta (sì da poter effettuare, una volta poi che dette modalità siano provate, la necessaria comparazione tra queste e i criteri generali e astratti posti dal contratto collettivo a distinzione delle varie categorie e qualifiche) è posto, dunque, a esclusivo carico del richiedente. Quest’ultimo, inoltre, non ha diritto alla qualifica superiore ove non dimostri la piena corrispondenza fra tali mansioni e quelle previste per la predetta qualifica e, in particolare, che l’assegnazione alle mansioni superiori sia stata piena, nel senso che abbia comportato anche l’assunzione di quella responsabilità e l’esercizio di quell’autonomia che sono proprie della qualifica rivendicata (Cass. 301/85; 11125/01, ex multis).
Nella specie, l’odierna appellante non ha assolto all’onere probatorio a suo carico, non essendosi premurata di produrre – così come sarebbe stato suo onere – il testo del CCNL invocato (cfr. ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, ultima pagina, laddove si rinvia alla produzione documentale “come da indice atti del fascicolo di parte” – indice nel quale non si fa, appunto, alcuna menzione del CCNL, che in ogni caso non risulta prodotto in atti-; memoria di costituzione della società in primo grado, laddove, a pag. 11, veniva evidenziato che la ricorrente aveva solo genericamente indicato il CCNL, omettendone la produzione anche per estratto).
Tale mancata produzione non consentiva, dunque, nè l’individuazione, in astratto, delle qualifiche previste dal contratto collettivo di categoria, nè, tanto meno, il raffronto dei risultati di tale indagine con quella relativa all’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte.
In ogni caso, il Tribunale, nel ‘dare per buona’ la declaratoria riportata a pag. 9 del ricorso introduttivo del giudizio, relativa al rivendicato “II livello” (“Appartengono a questo livello i lavoratori amministrativi e tecnici con capacità e funzioni direttive e che abbiano discrezionalità di poteri con facoltà d’iniziativa per il buon andamento di determinate attività aziendali, nei limiti delle direttive generali”), ha escluso – del tutto correttamente – che dalla svolta istruttoria fossero emerse la discrezionalità e l’autonomia operativa richieste da detta declaratoria ai fini dell’inquadramento rivendicato.
E invero – va notato – già le stesse mansioni descritte in ricorso (pagamento degli stipendi dei dipendenti, predisposizione dei turni feriali, rapporti – non meglio precisati – con i consulenti e con il medico aziendale, predisposizione o ricevuta dei pagamenti, semplici operazioni di versamento sui conti correnti della società, ritiro di assegni circolari, richiesta di estratti conto) non sono certamente connotate da “discrezionalità di poteri con facoltà d’iniziativa”, nè, tantomeno, possono ritenersi integrare “capacità e funzioni direttive” (il teste Ma., per come dato atto in sentenza, espressamente escludeva che la ricorrente avesse peraltro il potere di firma: “predisponeva gli atti insieme al consulente e li sottoponeva alla firma dell’amministratore”); d’altro verso sono senz’altro generiche, in quanto prive di qualsivoglia specificità, le affermazioni secondo cui la AB. fungeva da alter ego dell’imprenditore sia in sua assenza che “in specifici ambiti lavorativi (affatto indicati) che le erano interamente assegnati”, ovvero ‘supervisionava’ (anche in questo caso senza alcuna ulteriore specificazione) l’operato dei lavoratori “presenti in amministrazione”, che si occupavano di logistica e quant’altro, e “sovente anche di aspetti legati alle procedure produttive”.
Dall’espletata istruttoria (fermo restando che non è consentito ai testi esprimere valutazioni, come ad esempio quella in ordine alla qualità di un soggetto quale dirigente e/o alter ego dell’imprenditore, con la conseguenza che i relativi articolati di prova non avrebbero invero dovuto, in parte qua, essere ammessi) è poi unicamente emerso che i dipendenti addetti all’amministrazione si rapportavano all’AB. – percepita quale “superiore in quanto era la titolare” (si rammenta al riguardo che l’odierna appellante era la moglie dell’allora amministratore della società: “era la moglie dell’amministratore per cui in sua assenza ci rivolgevamo a lei”: teste Ma.) -, la quale si occupava (a differenza dell’amministratore che era il soggetto che impartiva le direttive aziendali) di non meglio precisati “aspetti pratici”.
Sotto altro profilo può essere evidenziato, per completezza, che l’appellante non ha chiesto in questo grado (cfr. Cass. 3863/08) il riconoscimento a essere inquadrata, anzichè nella qualifica richiesta, in una qualifica diversa e inferiore, ma pur sempre superiore a quella attribuita dal datore di lavoro (di cui comunque non ha nemmeno prospettato la declaratoria contrattuale).
2.1 Il rigetto del motivo concernente il rivendicato superiore inquadramento esime dall’esame del primo motivo, non avendo comunque la lavoratrice lamentato di non avere ricevuto retribuzione (cfr. anzi conteggi allegati al ricorso) nel periodo in cui non è stata formalmente ingaggiata bensì richiesto, anche per tal periodo, differenze retributive in ragione del superiore inquadramento.
2.2 E’ viceversa parzialmente fondato l’ultimo motivo di gravame.
Dall’istruttoria svolta in primo grado (cfr., in particolare, deposizione teste Ma.) risulta invero confermata la sostanziale riduzione delle mansioni svolte dall’odierna appellante (al di là del loro inquadramento) una volta subentrato al marito il nuovo amministratore.
In particolare, furono assegnate allo stesso Ma. le mansioni in precedenza svolte dall’AB. quali la gestione del fondo cassa, dei conti correnti e degli incassi, l’attività di pagamento degli stipendi ai dipendenti e quella finalizzata alle nuove assunzioni. Il teste inoltre confermava che anche la richiesta della lavoratrice di ricevere i dati necessari alla compilazione dei fogli presenze rimase inevasa e che, creato dall’azienda un nuovo dominio e modificati tutti gli indirizzi email degli addetti all’amministrazione, non fu tuttavia attributo all’AB. il nuovo indirizzo di posta elettronica.
Pur dovendosi escludere l’ipotesi del “mobbing verticale” denunciata dall’appellante, non essendovi prova dell'”atteggiamento gravemente persecutorio” posto in essere dal nuovo amministratore Rizzo, risulta pertanto senz’altro provato il lamentato demansionamento e la sostanziale riduzione delle mansioni in precedenza affidate alla lavoratrice1.
Secondo principi del tutto consolidati della giurisprudenza di legittimità e di merito, il lavoratore ha il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte – e, quindi, a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorchè senza conseguenze sulla retribuzione – e, dunque il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo, “costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino” (art. 4 Cost.; Cass. 14 luglio 2006 n. 14729, ex multis). “La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicchè, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore” (ibidem; v. anche, ex multis, Cass. 3291/16; 18927/12).
A corredo della domanda risarcitoria l’appellante ha poi prodotto documentazione medica, atta a comprovare il danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza dell’inadempimento datoriale.
è stata pertanto disposta consulenza medico-legale, dai cui esiti il Collegio non ritiene di discostarsi, apparendo le conclusioni, incontestate, cui è pervenuto il CTU immuni da vizi logici, fondate su accertamenti clinici e diagnostici esaurienti e altresì sorrette da adeguata motivazione.
In particolare il CTU, nella relazione depositata il 27 marzo 2019, ha accertato il nesso eziologico tra la patologia documentata in atti e la riduzione delle mansioni – per il periodo a far tempo dall’11 aprile 2012 sino alla data del licenziamento – in precedenza affidate all’appellante, da cui è derivato un danno biologico temporaneo, quantificato dall’ausiliario in temporaneo al 100% per 60 giorni, al 50% per 30 giorni e al 25% per ulteriori 30 giorni.
Facendo applicazione delle tabelle per il calcolo del danno non patrimoniale predisposte dal Tribunale di Milano (Cass. 17018/18; 14402/11, ex multis) e considerato il valore attuale del punto base per I.T.T. (Euro 98,00), ne consegue che la società appellata va condannata al pagamento, in favore della lavoratrice, della complessiva somma di Euro 8.085,00 (Euro 5.880,00 per I.T.T; Euro 1.470 per I.T.P. al 50% e Euro 735,00 per I.T.P. al 25%), oltre interessi legali sulla somma via via rivalutata dalla data della presente sentenza al soddisfo.
L’esito complessivo del giudizio giustifica la compensazione tra le parti delle spese processuali di entrambi i gradi nella misura dei due terzi; la restante parte, liquidata come da dispositivo in applicazione delle vigenti tabelle, va posta a carico dell’appellata.
A carico definitivo della stessa vanno poste altresì le spese di CTU, separatamente liquidate.
P.Q.M.
In parziale accoglimento dell’appello, condanna la società appellata, in persona del legale rappresentante e liquidatore p.t., al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’appellante, che liquida in Euro 8.085,00, oltre interessi legali sul capitale via via rivalutato dalla data della presente sentenza al soddisfo;
rigetta nel resto;
compensa tra le parti le spese processuali di entrambi i gradi nella misura dei due terzi e condanna parte appellata al pagamento in favore dell’appellante della restante parte, che liquida, quanto al primo grado, in Euro 1.800,00 e, quanto al presente, in Euro 2.000,00, oltre rimborso spese generali nella misura del 15%, CPA e IVA;
pone definitivamente a carico dell’appellata le spese di CTU, come separatamente liquidate.
Così deciso in Catania, nella camera di consiglio del 23 aprile 2019.