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Corte di Appello di Bari sez. lav., 16/02/2023, n. 264

Massima

L’indennità amministrativa, o giudiziaria, prevista per il personale del Ministero della Giustizia ai sensi dell’art. 3 della L. n. 27 del 1981 e successive modificazioni (e successive discipline contrattuali), è una voce retributiva correlata alla specifica posizione ordinamentale dei dipendenti di tale Ministero e non alle mansioni di fatto svolte. Pertanto, il dipendente di un ente locale (quale un Comune), pur se distaccato presso un ufficio giudiziario (come l’Ufficio del Giudice di Pace) e adibito a mansioni di operatore giudiziario, non ha diritto a percepire tale specifica indennità dal proprio ente di appartenenza (il Comune distaccante).

Supporto alla lettura

PUBBLICO IMPIEGO

Il pubblico impiego è definibile come quel rapporto di lavoro in cui una persona fisica mette volontariamente la propria attività, in modo continuativo e dietro corresponsione della retribuzione, al servizio dello Stato o di un ente pubblico non economico. Elementi essenziali sono:

  • l’accesso mediante concorso;
  • la natura pubblica dell’ente;
  • la correlazione con i fini istituzionali dell’ente;
  • la subordinazione con inserimento nell’organizzazione amministrativa dell’ente;
  • la continuità (va ricompreso anche il rapporto a tempo determinato);
  • l’esclusività;
  • la retribuzione predeterminata.

Agli inizi degli anni novanta vi è stata la c.d. privatizzazione del pubblico impiego realizzata mediante l’attuazione di due leggi delega e consiste essenzialmente nell’applicazione delle disposizioni di diritto privato al rapporto di pubblico impiego, nell’applicabilità della disciplina della contrattazione collettiva e nell’assegnare alla pubblica amministrazione/datrice di lavoro i medesimi poteri di gestione del rapporto tipici del datore di lavoro privato. Il susseguirsi di provvedimenti che hanno modificato tale disciplina, ha reso indispensabile l’elaborazione di un testo legislativo che riordinasse l’intera disciplina del pubblico impiego, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che costituisce il testo normativo di riferimento per la disciplina dei pubblici uffici e del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, esso si applica a tutte le P.A. ad eccezione di alcune categorie di lavoratori (es. magistrati, avvocati, personale militare, diplomatici, professori e ricercatori universitari, ecc.)

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso del 14 maggio 2019 la ricorrente indicata in epigrafe, dipendente di ruolo a tempo indeterminato del Comune di Canosa di Puglia, adiva il Tribunale del lavoro di Trani al fine di ottenere la condanna di detto ente al pagamento della somma di Euro 29.991,75 (maturata fino a tutto il mese di marzo 2019), oltre accessori di legge, a titolo di indennità amministrativa (c.d. “indennità giudiziaria”) di cui all’art. 3 della L. n. 27 del 1981 e successive modificazioni (comprensiva dell’indennità di assistenza alle udienze), per il lavoro svolto quale operatore giudiziario presso l’Ufficio del Giudice di Pace del Comune di Canosa di Puglia.

In particolare, la ricorrente deduceva di essere stata assegnata dal Comune di Canosa di Puglia presso l’Ufficio del Giudice di Pace dal 16 dicembre 2014, di essere stata immessa nelle funzioni il 12 gennaio 2015 e di avere svolto da tale data le mansioni di operatore giudiziario senza ricevere il pagamento delle suddette indennità

Il Comune di Canosa di Puglia si costitutiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.

Con sentenza n. 893 in data 20 maggio 2021 il Tribunale del lavoro di Trani, senza espletare alcuna attività istruttoria poiché ritenuta ultronea, rigettava la domanda attorea e condannava la ricorrente a rifondere le spese processuali alla controparte.

Con ricorso del 10 novembre 2021 (omissis) ha interposto appello avverso la sentenza di primo grado, lamentandone l’erroneità per i motivi che di seguito si riepilogano e si valutano e chiedendo che, in riforma della stessa, la domanda attorea fosse accolta.

Il Comune di Canosa di Puglia ha resistito al gravame con apposita memoria, concludendo per il rigetto dell’impugnazione.

Acquisiti i documenti prodotti dalle parti nonché il fascicolo del giudizio di primo grado, all’udienza del 9 febbraio 2023 la causa è stata discussa e decisa come da infrascritto dispositivo.

L’appello va rigettato, per le ragioni che di seguito si espongono.

Con il primo motivo l’appellante ha censurato la sentenza gravata nella parte in cui si è basata sulla sentenza della Corte di Cassazione n. 19916 del 5 ottobre 2016, a suo dire non aderente alla fattispecie oggetto di controversia in quanto i dipendenti comunali ricorrenti nella vicenda esaminata dalla sentenza della Suprema Corte avevano avanzato le loro pretese in termini di riconoscimento dell’indennità amministrativa/giudiziaria nei confronti del Ministero della Giustizia, laddove il caso oggi in esame riguardava una lavoratrice dipendente del Comune che aveva evocato in giudizio il suo stesso datore di lavoro (vale a dire il Comune di Canosa di Puglia).

Il motivo è infondato.

Ed invero, a prescindere dall’effettività della differenza qual sopra stigmatizzata dall’appellante, vi è che la motivazione utilizzata dalla Suprema Corte finisce senza dubbio per attagliarsi anche all’ipotesi, quale quella in esame, in cui il lavoratore distaccato pretenda l’indennità in parola nei confronti del proprio datore di lavoro “naturale”, ovvero dell’ente distaccante (appunto il Comune di Canosa di Puglia). Infatti, sia nel suddetto precedente che, ancor più efficacemente, nel corpo nella successiva Cass. n. 17742/2017 è stato evidenziato a chiare lettere:

– che in caso di distacco del lavoratore (istituto già disciplinato dall’art. 56 del D.P.R. n. 3 del 1957) presso un altro datore di lavoro, mentre quest’ultimo, beneficiario delle prestazioni lavorative, dispone dei poteri funzionali all’inserimento del lavoratore distaccato nella propria struttura aziendale persistono fra distaccante e lavoratore i vincoli obbligatori e di potere – soggezione, mantenendo il distaccante, fra l’altro, il potere di licenziare (Cass. n. 7049/2007 e n. 10771/2001; cfr., di recente, Cass. n. 19916/2016 e n. 20049/2016);

– che, in questa prospettiva ricostruttiva, il trattamento economico dei lavoratori distaccati – che prima il D.Lgs. n. 29 del 1993art. 72 ed oggi il D.Lgs. n. 165 del 2001art. 71 hanno riservato alla negoziazione collettiva – non potrà che essere individuato alla luce della contrattazione collettiva di settore applicabile al rapporto di lavoro propria dell’ente distaccante, in quanto il dipendente comandato o distaccato non viene inquadrato nell’amministrazione di destinazione ed il suo rapporto di lavoro con l’ente distaccante non viene meno, né muta, per effetto del distacco o del comando, la sua regolamentazione a livello legale e/o contrattuale;

– che, pertanto, deve escludersi la possibilità di contaminazione tra i trattamenti economici previsti da eventuali diverse discipline negoziali di settore, come è desumibile anche dal fatto che il D.Lgs. n. 29 del 1993art. 73, commi 1, 3, 4, 5 e 6 bis, come successivamente modificato ed oggi corrispondente per contenuto al D.Lgs. n. 165 del 2001art. 70, al comma 12 pone a carico dell’ente che utilizza il personale di altre pubbliche amministrazioni in posizione di comando, di fuori ruolo o in altra analoga posizione l’onere relativo al solo trattamento economico fondamentale;

– che è irrilevante la natura delle mansioni e dei compiti svolti dai lavoratori dipendenti di enti diversi dal Ministero della Giustizia ed ivi distaccati, o comandati, ai fini del riconoscimento dell’indennità di amministrazione prevista dall’art. 34 del CCNL Comparto Ministeri per i lavoratori dipendenti del Ministero della Giustizia e, successivamente, dall’art. 28 del CCNL del 16 febbraio 1999, essendo l’indennità correlata alla specifica posizione ordinamentale dei dipendenti del Ministero della Giustizia diversa e distinta, per effetto della disciplina legale e contrattuale, da quella del personale proveniente da enti diversi (nella specie, il Comune di Canosa di Puglia), che ha uno stato giuridico ed economico totalmente diverso in ragione della fonte della sua regolazione legale e/o contrattuale, ed essendo collegata all’esigenza istituzionale di un continuo specifico aggiornamento professionale dei dipendenti del suddetto Ministero (Corte Cost. n. 92/1993Cass., Sez. un., nn.12543/1998 e 49/1999Cass. nn. 7724/201227885/2009, che richiama sul punto principi già espressi da Cass., Sez. un., n. 12543/98 nonché da Cass., Sez. un., n. 49/1999).

Nella seconda parte della censura, poi, la C. evidenzia – invero per la prima volta – che il Comune con tale assegnazione, cui ha fatto da contraltare l’inquadramento in un livello superiore (ctg. Area III F4 economica, in luogo della pregressa ctg. D1 giuridica e D4 economica), avrebbe “aggravato il lavoratore di livello, responsabilità e mansioni diverse e superiori rispetto a quelle del contratto di lavoro”, così obbligandola a “restare sul posto di lavoro anche oltre la normale giornata di lavoro” oltre che, a volte, il sabato, “per cui non godeva” (in questi casi) “del riposo settimanale”, finendo per osservare un orario di complessive 41 ore settimanali in luogo dell’orario normale settimanale presso il Comune che di 36 ore; senza contare che nei giorni di udienza (v. pag. 10 dell’appello) l’istante “doveva essere presente fino alla chiusura, essendo l’assistente e la responsabile della verbalizzazione…”.

Per cui si prospetta, per la prima volta, un problema – sembra di intendere – di inadeguatezza della retribuzione percepita in relazione alle (nuove) mansioni espletate di cui sopra, così immutando in modo inammissibile il thema decidendum inizialmente delineato, senza tra l’altro neppure correttamente delineare, a questo punto, quale sarebbe il superiore e/o più consono livello eventualmente spettante; a medesime conclusioni (inammissibilità della nuova prospettazione) si deve infine pervenire laddove si voglia interpretare tale nuova allegazione a livello della causa petendi di una pretesa risarcitoria indennizzabile in via equitativa tramite l’invocata indennità amministrativa, a fronte, lo si ribadisce, di un’iniziale domanda (v. ricorso introduttivo di primo grado) enucleata in termini di “automatica” spettanza dell’indennità in questione per il sol fatto di espletare funzioni di operatore giudiziario “indipendentemente dalla sua appartenenza ai ruoli dell’Amministrazione Giudiziaria” (v., in particolare, punti 4 e 5 del suddetto ricorso), senza nulla addurre, in modo sintomatico, in ordine alla natura delle mansioni effettivamente svolte prima della nuova assegnazione oggetto di causa.

Quanto al motivo finale di appello teso ad invocare la compensazione delle spese di primo grado in quanto il Tribunale di Trani aveva in passato “sempre accolto le domande con lo stesso oggetto dei dipendenti comunali”, vi è che il presente giudizio risulta comunque introdotto nel maggio 2019, e dunque in un’epoca ampiamente successiva ai (ben due) arresti della S.C. in subiecta materia quali sopra richiamati, in relazione ai quali ancora oggi (v. il primo motivo di gravame di cui sopra) si sostiene, in modo erroneo, la non pertinenza.

Concludendo, per le ragioni innanzi esposte l’appello va respinto e la sentenza gravata dev’essere integralmente confermata, seppure con le dovute integrazioni motivazionali.

Le spese del presente grado di giudizio, dunque, seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e vanno poste a carico dell’appellante, nella misura indicata in dispositivo e determinata in ossequio ai parametri di cui al D.M. n. 147 del 2022 (tenuto conto del valore della controversia, dell’impegno profuso e del pregio dell’opera prestata).

Deve infine darsi atto della sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012. Spetta invece all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo per l’inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (si veda Cass., Sez. un., n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte di Appello di Bari- Sezione lavoro, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (omissis), con ricorso depositato il 10 novembre 2021 avverso la sentenza resa dal Tribunale del lavoro di Trani in data 20 maggio 2020, nei confronti del COMUNE DI CANOSA DI PUGLIA così provvede:

– rigetta l’appello;

– conferma l’impugnata sentenza;

– condanna l’appellante a rifondere alla controparte le spese processuali del giudizio di appello, che liquida in Euro 3.500,00, oltre rimborso forfettario spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge;

– dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’appellante, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso, se dovuto.

Così deciso in Bari, il 9 febbraio 2023.

Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2023.

Allegati

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