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Corte d’Appello di Napoli sez. IV, 31/01/2023, n. 408

Massima

Nel caso di alunno affidato alla scuola, il docente e l’istituto sono chiamati alla vigilanza ed al controllo del minore fino a quando non intervenga un altro soggetto che succede nell’assunzione dei doveri connessi alla posizione di garanzia. Pertanto in applicazione del suddetto principio il personale scolastico non è soggetto agli obblighi di protezione dal momento in cui interviene il ‘nuovo garante’ che di fatto assume il controllo del minore.

Supporto alla lettura

Responsabilità insegnante

In ordine alla responsabilità dell’istituto scolastico, l’accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione dell’allievo determina l’instaurazione di un vincolo negoziale con l’assunzione da parte della struttura di una serie di obbligazioni tra cui vanno incluse quella di vigilare sulla sicurezza dell’allievo. Si tratta di responsabilità di natura contrattuale. Diversamente nel rapporto tra insegnante e alunno incombe la disposizione di cui all’art. 2048 c.c. Secondo il ragionamento seguito dalla Suprema Corte,  l’art. 2048 c.c. introdurrebbe una regola di “propagazione della responsabilità “: sulla base della presunzione di culpa in vigilando che vede i precettori  chiamati a rispondere del fatto (illecito) degli allievi. La responsabilità per fatto altrui presuppone dunque, la causazione di un danno a terzi  secondo lo schema aquiliano. Tale schema non si realizza nelle ipotesi di danno autoinferto dall’alunno a sé stesso. In tali ipotesi opera la regola del contatto sociale con conseguente attrazione della responsabilità nell’area contrattuale.

Ambito oggettivo di applicazione

RAGIONI IN FATTO E DIRITTO

Con sentenza n. 12045/2015 il Tribunale di Napoli, decidendo sulla domanda proposta da (omissis) e (omissis), in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sul figlio minore (omissis), nei confronti del (omissis) e della (omissis) Assicurazioni S.p.A., volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti dal predetto minore, in conseguenza di sinistro occorsogli in data 23/11/20016 presso il 22° Circolo Didattico Statale “(omissis)” di Napoli, alle ore 15.45 circa, allorché, mentre il predetto si trovava in classe e in mancanza della dovuta vigilanza da parte dell’insegnante che era, invece, 3 impegnata a parlare con le mamme di altri bambini pure presenti, inciampava in una mattonella rotta del pavimento e cadeva, urtando contro lo spigolo di un armadietto appendiabiti privo dei dovuti sistemi di protezione e riportando una ferita lacero-contusa alla radice del naso, così provvedeva:

“Rigetta la domanda;

Condanna (omissis), (omissis) e (omissis) al pagamento delle spese, che liquida in complessivi € 9.065,81 di cui € 6.402,00 per spese, inclusa la consulenza tecnica d’ufficio ed il residuo per onorari oltre IVA, CPA e rimborso forfettario per spese generali nella misura del 15%.”

Il (omissis) e la (omissis) proponevano appello avverso la suindicata decisione deducendo che:

– il primo giudice aveva errato nell’escludere che l’incidente si fosse verificato nello svolgimento del rapporto scolastico e nel ritenere, contrariamente, che lo stesso avesse avuto luogo quando il minore (omissis) era già sottoposto all’effettiva vigilanza della madre ed era, quindi, rientrato nell’alveo della sorveglianza parentale;

– che essi appellanti, attori in primo grado, avevano adempiuto all’onere probatorio ed allegatorio di cui all’art. 1218 c.c., in particolare dimostrando:

l’iscrizione del minore presso la scuola “(omissis)” di Napoli; il verificarsi del sinistro allorquando il minore si trovava nell’aula del detto plesso scolastico all’orario di termine delle lezioni, in data 23.11.2006; la circostanza per cui, al momento del verificarsi dell’incidente, la maestra, preposta all’insegnamento, era intenta a parlare con alcune mamme di altri alunni presenti nella stessa aula per 4 riprendere i figli e che, pertanto, gli alunni erano privi di adeguato controllo da parte del personale scolastico; la circostanza per cui (omissis), rimasto privo della dovuta vigilanza, mentre si avviava verso il mobile appendiabiti per prendere il proprio zainetto, nel caos della fine della lezione, inciampava in una mattonella rotta del pavimento – non segnalata né messa in sicurezza – e perdeva l’equilibrio, finendo per urtare con il viso contro il detto mobile appendiabiti, privo dei dovuti sistemi di protezione (c.d. paraspigoli);

– che, al contrario, il (omissis) e la (omissis) Assicurazioni S.p.A. non avevano fornito la dovuta prova liberatoria e, dunque, che fosse stata correttamente eseguita la prestazione di vigilanza sugli alunni e che fosse stata adottata, in via preventiva, ogni misura idonea a scongiurare il pericolo di lesione degli alunni minori;

– che, pertanto, l’evento dannoso si era verificato nello svolgimento del rapporto scolastico, quando il minore era ancora affidato al personale scolastico e non già alla madre, non essendovi stata ancora alcuna traditio;

– che la responsabilità dell’evento dannoso andava ascritta a colpa esclusiva della maestra e dell’istituto scolastico e di conseguenza del Ministero, per aver consentito l’ingresso dei genitori in aula così creando uno stato di confusione; per non avere la maestra prestato il dovuto controllo nella fase di uscita dalla classe degli alunni; per non aver adottato tutte le misure organizzative o disciplinari idonee a prevenire l’insorgenza di situazioni pericolose per gli allievi; per non aver vigilato sulla sicurezza e sull’incolumità dell’allievo, per non aver esercitato la dovuta custodia e manutenzione dei luoghi di pertinenza della stessa scuola e dell’aula scolastica (data la presenza di una mattonella rotta che costituiva un’insidia per il minore e data l’assenza di paraspigoli al mobile appendiabiti);

5 – che era rimasto sfornito di prova quanto rilevato dal primo giudice circa il fatto che la (omissis) avesse già preso in custodia il figlio minore, non essendo ciò desumibile dal quadro istruttorio e non essendo a questo fine sufficiente la sola circostanza per cui la madre era presente nell’aula scolastica al momento del sinistro, non essendo ciò decisivo ai fini della prova della traditio del minore né ai fini dell’esonero del personale scolastico dagli obblighi di sorveglianza;

– che il primo giudice aveva errato nel fondare la propria decisione sul contenuto di documenti privi di valore probatorio, stante il loro tempestivo e specifico disconoscimento ad opera di essi attori e la mancata prova della loro autenticità e veridicità da parte del Ministero che li aveva prodotti;

– che tali documenti, oltre ad essere stati disconosciuti, erano stati in parte formati da soggetti aventi interesse diretto nel giudizio (la dichiarazione sottoscritta dalla maestra (omissis), contenente la descrizione della dinamica del sinistro);

– che tali documenti erano stati, in ogni caso, prodotti dal Ministero in modo irrituale, perché depositati dopo lo spirare dei termini di cui all’art. 183, co. 6, n. 2 c.p.c.;

– che, comunque, il primo giudice aveva omesso di qualificare la responsabilità del Ministero anche ai sensi dell’art. 2051 c.c., pur avendo essi attori invocato il concorso di vari tipi di responsabilità ed avendo, in particolare, eccepito e provato la presenza di una mattonella della pavimentazione rotta, non segnalata e perciò insidiosa, l’assenza di paraspigoli nel mobile appendiabiti e, infine, il nesso causale tra detta anomalia della pavimentazione e la caduta del minore;

6 – che tale tipo di responsabilità per omessa vigilanza sull’idoneità dei luoghi doveva essere ascritta al personale scolastico, all’istituto e al Ministero, a prescindere dall’eventuale traditio del minore alla madre;

– che il Ministero non aveva fornito la prova liberatoria del caso fortuito richiesta dall’art. 2051 c.c.;

– che il primo giudice aveva, dunque, omesso di esaminare e di pronunciarsi sul detto profilo della responsabilità extracontrattuale da cose in custodia;

– che, in ogni caso, il giudice di primo grado aveva liquidato gli esborsi processuali in modo erroneo ed eccessivo, mancando, peraltro, la prova degli stessi.

Pertanto, gli appellanti chiedevano riformarsi la sentenza impugnata e, per l’effetto, condannarsi le controparti, previa declaratoria della loro responsabilità ex artt. 1218 e 2051 c.c., al risarcimento di tutti i danni subiti, con vittoria di spese. In via gradata, chiedevano riformarsi la statuizione di condanna alla refusione delle spese in favore del Ministero e ridurla nei limiti di quanto effettivamente erogato e provato.

Costituitasi in giudizio, la (omissis) Assicurazioni S.p.A. chiedeva rigettarsi l’appello in ragione della sua inammissibilità ai sensi degli artt. 342 e 348-bis c.p.c., nonché della sua infondatezza. L’appellata proponeva, altresì, appello incidentale avverso la gravata sentenza di primo grado, censurandola nella parte in cui il primo giudice aveva omesso di condannare (omissis) e (omissis) alla refusione delle spese di giudizio in favore di essa società assicurativa. Chiedeva, pertanto, la riforma della sentenza e, per l’effetto, 7 condannarsi (omissis) e (omissis), in proprio e quali legali rappresentanti del minore (omissis), al pagamento in favore di (omissis) Assicurazioni S.p.A. delle spese del giudizio di primo grado, da liquidarsi nella misura indicata dal Tribunale ovvero nella somma ritenuta di giustizia, oltre accessori di legge.

Infine, si costituiva in giudizio il (omissis), deducendo l’infondatezza dell’avverso gravame e chiedendone il rigetto.

Acquisito il fascicolo d’ufficio relativo al giudizio di primo grado, la causa veniva riservata per la decisione.

Così riassunti i termini della controversia, in via preliminare vanno disattese le eccezioni d’inammissibilità dell’appello sollevate dalla (omissis) Assicurazioni S.p.A. Quanto alla prospettata definizione in rito del gravame ex art. 348-bis c.p.c., va detto che, avendo questa Corte riservato la causa in decisione a norma dell’art. 190 c.p.c., l’implicita valutazione circa l’insussistenza dei presupposti per la pronuncia dell’ordinanza d’inammissibilità non è più in alcun modo sindacabile, né nella presente sede né in sede di ricorso per cassazione (cfr. Cass. 15/4/2019, n. 10422). D’altro canto, la scelta del giudice d’appello di definire il giudizio prendendo in esame il merito della pretesa azionata (sia con il rigetto che con l’accoglimento) non può dirsi proceduralmente viziata sul presupposto che si sarebbe dovuta affermare l’inammissibilità per assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; pertanto, ove il giudice non ritenga di assumere la decisione ai sensi dell’art. 348-ter, comma 1°, c.p.c., la questione di inammissibilità resta assorbita dalla sentenza che definisce l’appello, che è l’unico provvedimento 8 impugnabile, ma per vizi suoi propri, in procedendo o in iudicando, e non per il solo fatto del non esservi stata decisione nelle forme semplificate (così Cass. 29/11/2021, n. 37272).

Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 342 c.p.c., è sufficiente richiamare i principi affermati dalla Corte regolatrice a Sezioni Unite, intervenuta nella materia in questione onde risolvere una questione di massima di particolare importanza. Secondo la Corte “gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata”. In tale arresto i giudici di legittimità hanno altresì precisato che “l’atto di appello deve contenere una parte volitiva, con cui si indicano le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata, e una parte argomentativa, che confuti le ragioni addotte dal primo giudice, senza rivestire particolari forme sacramentali, né contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione” (così Cass. sez. un. 16/11/2017, n. 27199). Trattasi di orientamento confermato in successive decisione della Corte, la quale ha più di recente ribadito che il nuovo testo dell’art. 342 c.p.c. non richiede la necessità per l’appellante di indicare nell’atto di appello un progetto alternativo di sentenza, ma 9 soltanto una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della decisione impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa volta a confutare le ragioni addotte dal primo giudice, sottolineando nuovamente che il giudizio di appello non è stato trasformato in un giudizio a critica vincolata come il ricorso per cassazione (cfr., ex multis, Cass. 6/7/2022, n. 21416; Cass. 30/6/2022, n. 20835; Cass. 3/3/2022, n. 7081; Cass. 12/11/2021, n. 33843). Tutto ciò premesso, deve evidenziarsi che, nella vicenda per cui è causa, l’appello proposto dal (omissis) e dalla (omissis), nella indicata qualità, è certamente idoneo a superare lo scrutinio di ammissibilità nel senso innanzi esposto, avendo gli stessi criticato la decisione di prime cure attraverso una chiara individuazione dei punti di tale decisione contestati, esponendo altresì, in modo compiuto ed esaustivo, le ragioni dei propri rilievi critici, in tal modo affiancando alla parte volitiva anche una parte argomentativa diretta a confutare il percorso logico-giuridico seguito dal Tribunale di Napoli per pervenire alla decisione di rigetto della domanda attorea.

Sempre in via preliminare, deve considerarsi che il raggiungimento, da parte di (omissis), della maggiore età, è del tutto irrilevante dal punto di vista processuale, atteso che, come affermato dai giudici di legittimità, ove il minore costituitosi in persona dei propri genitori legali rappresentanti raggiunga la maggiore età, l’omessa dichiarazione o notificazione di tale evento da parte del procuratore comporta, in base alla regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, con conseguente stabilizzazione della posizione giuridica di quest’ultima rispetto alle altre parti ad al giudice (cfr. Cass. 21/11/2018, n. 30009; Cass. 2/9/2010, n. 19015).

10 Venendo al merito, la Corte rileva che l’appello è parzialmente fondato e deve essere accolto nei termini di seguito precisati.

Invero, non coglie nel segno il motivo d’impugnazione con cui gli appellanti lamentano il rigetto della domanda nella prospettiva dell’inquadramento della stessa nell’ambito della responsabilità contrattuale.

Invero, va premesso che il Giudice di primo grado ha proceduto a detto inquadramento in virtù del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione del minore all’istituto scolastico determina l’insorgere, tra questi, di un vincolo negoziale da cui derivano, a carico dell’istituto stesso, obblighi di protezione e vigilanza in favore dell’alunno, nonché l’instaurarsi di un contatto sociale qualificato tra quest’ultimo e l’insegnante, obbligato, tra le altre cose, alla protezione ed alla vigilanza necessarie ad evitare che l’allievo si auto-procuri un danno alla persona (cfr. Cass. 25/11/2021, n. 36723; Cass. sez. un. 27/6/2002, n. 9346). Ebbene, il primo Giudice ha rigettato la domanda attorea, escludendo che l’autolesione occorsa al minore si sia verificata nello svolgimento del rapporto scolastico. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che il sinistro abbia avuto luogo quando detto rapporto non era più in atto poiché il minore era stato già

“consegnato” alla madre, la quale si era, pertanto, sostituita all’insegnante nella titolarità degli obblighi di protezione e vigilanza. Nello specifico, il giudicante ha fondato il proprio convincimento sulla circostanza per cui, al momento dell’incidente, (omissis) era presente nell’aula e, soprattutto, aveva fatto indossare al piccolo (omissis) il proprio cappottino: ciò, secondo il giudicante, integrava un elemento decisivo per ritenere che si fosse verificata la traditio del 11 minore, in virtù della quale l’insegnante non era più tenuta a controllarlo, essendo a ciò obbligata la madre.

Tale decisione non è condivisa da questa Corte.

Ed invero, il primo giudice ha fondato il proprio convincimento essenzialmente sulla base di quanto contenuto nei documenti prodotti in giudizio dal MI. e, in particolare, di quanto riportato nella fotocopia della denuncia di infortunio redatta sul modello INAIL e nella fotocopia della dichiarazione a firma dell’insegnante, (omissis). Entrambi i documenti, nel ricostruire la dinamica del sinistro, riferiscono la detta circostanza secondo cui il minore (omissis), al momento dell’incidente, aveva già indossato il proprio cappottino con le cure della madre. Ebbene, i succitati documenti (pagg. 105 e 115 della produzione di primo grado del (omissis), telematicamente depositata agli atti dell’odierno grado di giudizio) contengono, a ben vedere, delle dichiarazioni a favore della stessa parte che li ha prodotti in giudizio, ossia il (omissis). Infatti, della eventuale culpa in vigilando del personale scolastico è responsabile il Ministero dell’Istruzione in virtù del rapporto organico tra questi esistente. Talché, quanto dichiarato a proprio favore dal Dirigente Scolastico e dall’insegnate cui si addebita l’inadempimento degli obblighi di sorveglianza risulta inevitabilmente a favore del Ministero parte della presente controversia. Ne consegue che a tali dichiarazioni – si badi, non sottoscritte dai genitori del minore – non può essere conferito alcun valore probatorio. È, invero, principio cardine del processo civile quello per cui la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore ai fini del soddisfacimento dell’onere di cui all’art. 2697 c.c. da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi. Il principio dell’onere della prova, necessaria conseguenza 12 della struttura dialettica del processo, esige che la verifica dei fatti posti a fondamento della domanda (o delle eccezioni) passi attraverso il vaglio di elementi diversi dalla mera affermazione che di essi faccia la parte a proprio vantaggio (cfr., in questo senso, Cass. 29/1/2021, n. 37157).

Le illustrate considerazioni valgono, peraltro, a ritenere superfluo l’esame delle doglianze di parte appellante circa l’idoneità del disconoscimento tempestivamente operato dei documenti prodotti in giudizio dal (omissis) ex artt. 214 c.p.c. e 2719 c.c. Infatti, affinché un documento possa definirsi “scrittura privata” ai sensi dell’art. 2702 c.c., è elemento imprescindibile, tra gli altri, la sottoscrizione della parte contro cui tale documento è prodotto. Ne deriva che non possono considerarsi scritture private – in quanto tali suscettibili di essere disconosciute ai sensi dell’art. 214 c.p.c. – la denuncia a mezzo del modello INAIL e la dichiarazione a firma dell’insegnante, essendo entrambi i documenti privi della sottoscrizione dei genitori del minore.

Tutto quanto ciò posto, in parziale accordo con quanto sostenuto da parte appellante, deve allora ritenersi che il sinistro per cui è causa si sia verificato nello svolgimento del rapporto scolastico.

Ed invero, dall’istruttoria svolta nel corso del primo grado di giudizio ed, in particolare, dalle dichiarazioni rese dalle testi escusse, è emersa la ormai pacifica circostanza (ammessa anche da parte appellante nel proprio libello introduttivo) per cui la madre del minore era già presente nell’aula allorquando il bambino inciampava e urtava contro l’armadietto. Ebbene, tale elemento non è sufficiente a ritenere che fosse avvenuta la c.d. traditio del minore e che, dunque, della sua sorveglianza fosse esclusivamente responsabile il genitore e non più il 13 personale scolastico (nella specie, l’insegnante). A questo proposito, la Suprema Corte ha osservato quanto segue: “In tema di danni subiti dall’alunno, la natura contrattuale della responsabilità ascrivibile all’istituto scolastico ed al singolo insegnante, che deriva, rispettivamente, dall’iscrizione scolastica e dal contatto sociale qualificato, implica l’assunzione dei cd. doveri di protezione, enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali devono essere individuati e commisurati all’interesse del creditore del rapporto obbligatorio, sicché, nel caso di minore affidato dalla famiglia per la formazione scolastica, essi impongono il controllo e la vigilanza del detto minore fino a quando non intervenga un altro soggetto responsabile, chiamato a succedere nell’assunzione dei doveri connessi alla relativa posizione di garanzia (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente la responsabilità contrattuale dell’amministrazione scolastica e dell’insegnante per avere quest’ultimo, accompagnando spontaneamente gli allievi allo scuolabus fermo nelle vicinanze della scuola, come da consuetudine invalsa da tempo e non contrasta dal dirigente scolastico, omesso di verificare che tutti gli scolari fossero saliti a bordo ed indotto, così, il conducente ad avviare la marcia, in tal modo causando la morte di uno di loro, rimasto incastrato nella porta del pullman e quindi travolto dallo stesso mezzo)” (così Cass. 28/4/2017, n. 10516). Ora, in applicazione del riportato principio, al fine di ritenere il personale scolastico non più tenuto all’adempimento degli obblighi di protezione è necessario che il previsto successore nella posizione di garanzia (nel caso di specie, il genitore) abbia in concreto e di fatto assunto il controllo del minore. Sicché, fino a quel momento e, dunque, fino a quando tale avvicendamento nella detta posizione di garanzia non sia effettivamente avvenuto, i doveri di protezione che incombono 14 sull’istituto scolastico e sugli insegnanti devono ritenere estesi al punto da ricomprendere anche il dovere di non perdere la vigilanza del minore.

Alla luce di tutto quanto illustrato, allora, non si può attribuire alla mera presenza della madre nell’aula scolastica un valore tale da ritenere che la stessa fosse già succeduta all’insegnante nella posizione di garanzia in favore del minore. Non v’è, ad esempio, prova del fatto che la maestra fosse consapevole della presenza della madre, né che quest’ultima fosse in aula da un tempo sufficiente ad aver preso in custodia il bambino (considerato anche che la circostanza per cui (omissis) avesse fatto già indossare il cappottino al figlio è rimasta sfornita di qualsiasi riscontro probatorio). Ne consegue che l’insegnante (omissis) era (ancora) responsabile della sorveglianza e, dunque, della incolumità di (omissis) nel momento in cui lo stesso inciampava e si auto-procurava la lesione di cui si discute, essendo ancora in corso di svolgimento il rapporto scolastico da cui discende la detta responsabilità.

Ciò chiarito, resta a questo Collegio da esaminare il profilo relativo all’effettiva sussistenza di una responsabilità contrattuale in capo al personale scolastico e, dunque, in capo al Ministero convenuto. Più specificamente, occorre verificare se l’infortunio in cui è occorso (omissis) rinvenga la propria causa nell’inadempimento, ovvero nell’inesatto adempimento, da parte del personale scolastico degli obblighi sullo stesso gravanti. Non pare, peraltro, superfluo ribadire che dalla qualificazione della responsabilità del personale scolastico quale contrattuale (e non, dunque, extracontrattuale) discende l’applicabilità del regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c, sicché, mentre l’attore deve – oltre ad allegare l’inadempimento – provare che il danno si è

15 verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante. (Cass. 3/3/2010, n. 5067). Ebbene, fermo quanto già rilevato circa la necessità di collocare il sinistro nel corso dello svolgimento del rapporto scolastico, gli attori hanno, invero, dedotto che la maestra (omissis), al termine delle lezioni, era intenta ad accogliere i genitori recatisi nell’aula per prelevare i propri figli, così lasciando i minori privi della dovuta sorveglianza, in violazione degli obblighi di protezione sulla stessa insegnante incombenti. Tale circostanza relativa alla momentanea disattenzione dell’insegnante è stata, peraltro, confermata dalle testi escusse in primo grado. Ciò nonostante, questa Corte ritiene di non poter addebitare l’autolesione occorsa al minore all’inadempimento della (omissis). Giova, a questo proposito, riportare quanto osservato sul punto dalla Suprema Corte di Cassazione. “Quanto alla distribuzione dell’onere della prova è convincimento di questa Corte che non sia sufficiente, al fine di veder accolta la propria domanda risarcitoria, allegare l’inadempimento, occorrendo altresì la prova che il danno occorso sia legato da nesso di derivazione causale al comportamento inadempiente. Colui che si assume danneggiato ha l’onere, infatti, di dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del soggetto asseritamente inadempiente e il danno di cui chiede il risarcimento. La previsione dell’art. 1218 c.c. esonera il creditore dell’obbligazione asseritamente non adempiuta – in questo caso l’obbligazione di garanzia nei confronti degli allievi – dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non da quello di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui si chiede il risarcimento. Il principio di vicinanza dell’onere della prova, su cui si fonda la decisione delle sezioni unite n. 13533 del 31/10/2001, 16 implicitamente evocata dalla ricorrente, non coinvolge il nesso causale tra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato del creditore, rispetto al quale si applica la distribuzione dell’onus probandi di cui all’art. 2697 c.c. Tale disposizione, mentre fa carico all’attore della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa, non permette di ritenere che l’asserito danneggiante debba farsi carico della prova liberatoria rispetto al nesso di causa (Cass. 19/07/2018, n. 19204; Cass. 13/07/2018, n. 18557; Cass. 09/05/2018, n. 11165); la previsione dell’art. 1218 c.c. trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente, o non esattamente adempiente, l’onere di fornire la

“prova positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cass., Sez. Un., n. 13533/2001, cit.); tale criterio non appare predicabile con riguardo al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragione d’essere l’inversione dell’onere della prova, prevista dall’art. 1218 c.c., e non può che valere il principio generale espresso dall’art. 2697 c.c., che onera l’attore della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. Trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria”

rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta; nè può valere, in senso contrario, il riferimento, contenuto nell’art. 1218 c.c. alla “causa”, là dove richiede al debitore di provare che “l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui no 17 imputabile”: come affermato da questa Corte (Cass. 26/07/2017, n. 18392), la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti tema di prova della parte debitrice, e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto” (così Cass. 31/3/2021, n. 8849, in motivazione). Ebbene, nella stessa prospettazione attorea è stato più volte ribadito che (omissis) inciampava a causa di una sconnessione nel pavimento. Le stesse testimoni (tra l’altro, di parte attrice) confermano la circostanza, riferendo entrambe di una mattonella rotta che dava luogo ad un dislivello nella pavimentazione posto proprio dietro ai banchetti, in prossimità dell’armadietto contro cui urtava il minore (così specificamente riferiva (omissis)). La presenza di un’anomalia nella pavimentazione dell’aula rappresenta un elemento idoneo ad integrare ex se causa materiale del sinistro occorso al bambino e, dunque, del danno che lo stesso riportava. D’altro canto, l’osservanza di una maggiore diligenza nell’adempimento dei propri obblighi da parte dell’insegnante non avrebbe, in ogni caso, evitato il sinistro, giacché, tra gli obblighi di protezione e vigilanza sulla stessa incombenti, non rientra quello di controllare l’integrità dei luoghi.

E’ invece fondato e va accolto per quanto di ragione il motivo di doglianza concernente l’omesso scrutinio della responsabilità del Ministero anche sotto il profilo del danno da cose in custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c. Invero, va detto che l’obbligo dell’Amministrazione di vigilare sullo stato dei luoghi e di mantenerne il controllo grava sull’Amministrazione in qualità di 18 custode degli stessi, della cui omessa custodia e manutenzione e dei danni a terzi che eventualmente ne derivino risponde ai sensi del richiamato art. 2051 c.c. Come chiarito dalla Corte di Cassazione, la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e presuppone non la colpa del custode, ma la mera esistenza di un nesso causale tra il danno e la cosa. Difatti il custode, per andare esente da responsabilità, non deve provare l’assenza di sua colpa, ma deve fornire la prova positiva dell’intervento di una causa esterna alla sua sfera di azione, idonea ad interrompere il nesso di causalità tra la cosa e l’evento lesivo. Si tratta della prova del c.d. caso fortuito, nozione da intendersi in senso ampio in quanto comprensiva non solo del comportamento della stessa vittima, ma anche del fatto del terzo.

Facendo eccezione alla regola generale di cui al combinato disposto degli art. 2043 e 2697 cod. civ., l’art. 2051 c.c. integra invero un’ipotesi di responsabilità caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, imponendo al custode, presunto responsabile, di dare eventualmente la prova liberatoria del fortuito – c.d. responsabilità aggravata- (v., fra le tante, Cass., 27/6/2016, n. 13222; Cass., 9/6/2016, n. 11802; Cass., 24/3/2016, n. 5877). Il custode è cioè tenuto, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce cui fanno riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (in base ai quali deve adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto) nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, a dimostrare che il danno si è verificato in modo non prevedibile, né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Ebbene, tale prova liberatoria non è stata fornita dal Ministero convenuto (responsabile degli illeciti posti in essere dall’Istituto 19 Sc.). Ed invero, sul punto, la difesa del (omissis) si è limitata ad affermare apoditticamente l’assenza, nella pavimentazione, di pericolose sconnessioni, senza però dare prova di quanto asserito. Non è stata, dunque, provata l’imprevedibilità della condotta del minore e la sua idoneità ad integrare il caso fortuito utile a recidere il nesso eziologico tra la cosa (la mattonella rotta) e il danno.

D’altro canto, è evidente come non possa ritenersi esigibile da un bambino in età prescolare quella diligenza utile ad individuare una sconnessione del pavimento e, dunque, ad evitarla.

Tutto quanto ciò considerato, del sinistro per cui è causa deve essere ritenuto responsabile il (omissis) ai sensi dell’art. 2051 c.c. Venendo all’esame del quantum debeatur, ritiene il Collegio che debba riconoscersi all’istante (omissis) il risarcimento del solo danno biologico da invalidità temporanea, così come accertato dal C.T.U. nella relazione tecnica depositata in atti. In particolare, il consulente, precisato che, come risultante dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio, ed in particolare dal referto rilasciato in data 23/11/2006 dall’Ospedale (omissis) di Napoli, il minore riportava una ferita lacero-contusa alla radice del naso, che veniva trattata con applicazione di punti di sutura, ha accertato per tale pregiudizio 7 giorni di inabilità temporanea totale e 10 giorni di inabilità temporanea parziale al 50%, escludendo ogni profilo di danno permanente. Ora, in base alle tabelle del Tribunale di Milano del marzo 2021, alle quali ben può farsi riferimento per la liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e non ricorrendo circostanze del tutto peculiari (cfr., fra le tante, Cass. 15/52018, n. 11754), il pregiudizio in esame va monetizzato nell’importo di € 99,00 per ogni 20 giorni di invalidità temporanea assoluta, dovendosi pertanto riconoscere all’appellante € 693,00 per 7 giorni di siffatta invalidità totale ed € 495,00 per 10 giorni di invalidità parziale al 50%, il tutto per un importo complessivo di € 1.188,00.

Quanto, invece, all’invocato danno da invalidità permanente, come accennato il consulente d’ufficio ha condivisibilmente accertato l’inesistenza, a carico di (omissis), di postumi permanenti conseguenti al sinistro per cui è causa. Tale conclusione, del resto, trova immediato riscontro nella documentazione fotografica in atti, dalla quale si evince la modestissima estensione e la trascurabile visibilità della ferita riportata dal minore. Peraltro, non può tralasciarsi che la giovanissima età dell’infortunato, con le conseguenze che ne derivano in termini di elasticità e recupero dei tessuti, avrà certamente contribuito a rendere ancor meno evidente il segno di cui si parla. Deve, peraltro, evidenziarsi che il danno estetico non può essere considerato una voce di danno a sé, aggiuntiva e ulteriore rispetto al danno biologico, salve circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, circostanze nella specie non ricorrenti e comunque non adeguatamente e specificatamente allegate e provate (cfr. Cass. 12/3/2021, n. 7126). Analogamente, deve essere rigettata la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale relativa al futuro sostegno dei costi necessari all’intervento chirurgico finalizzato a rimuovere la cicatrice in questione. Invero, ritenendo che nessuna lesione permanente è stata sofferta dal minore, allora, nessuna operazione chirurgica potrà considerarsi come indispensabile e necessaria.

21 Tutto quanto esposto vale, altresì, a rigettare le richieste risarcitorie relative alle altre voci di danno non patrimoniale, pure promosse dagli istanti. In particolare, ritenendo che non sussista una rilevante menomazione psico-fisica in danno del minore, deve altresì ritenersi che alcuna sofferenza, ovvero alcun danno alla vita di relazione o familiare possa essere stato arrecato dal verificarsi del sinistro, non avendo quest’ultimo avuto conseguenze apprezzabili ed occorrendo pertanto escludere ogni profilo di danno non patrimoniale patito dai genitori in proprio.

Pertanto, il risarcimento dovuto al (omissis) va contenuto nel suindicato importo di € 1.188,00.

Trattandosi di credito risarcitorio, all’istante vanno inoltre riconosciuti gli interessi legali, calcolati, secondo l’ormai costante orientamento giurisprudenziale, con decorrenza dal fatto, non già sulla somma valutata all’attualità, bensì su quella originaria, rivalutata anno per anno (v. Cass. sez. un. 17/2/95, n. 1712; cfr., più di recente, Cass. 24/1/2019, n. 2037; Cass. 19/3/2020, n. 7466). Nella specie, l’importo di € 1.188,00, devalutato alla data del sinistro (23/11/2006), risulta pari ad € 876,75 (indice all’attualità: 118,2; indice novembre 2006: 128,3; raccordo indici 1,471), con la conseguenza che su detto importo, rivalutato anno per anno secondo le variazioni ISTAT relative al costo della vita (FO.), vanno calcolati gli interessi legali, fino alla data di deposito della presente sentenza, i quali, alla data odierna, risultano pari ad € 204,55, senza ulteriori interessi (stante la non operatività dell’anatocismo riguardo ai crediti di valore: sul punto, v. Cass. 27/6/2017, n. 15944; Cass. 15/7/2005, n. 15023); sulla somma 22 valutata all’attualità (€ 1.188,00), invece, decorreranno gli interessi legali ex art. 1284, comma 1°, c.c., dalla data della presente decisione fino al saldo.

Al pagamento dei suindicati importi, in favore dell’appellante, deve essere condannato il Ministero appellato.

Va poi rilevato che il Ministero non ha reiterato la domanda, avanzata nel giudizio di primo grado, di manleva nei confronti della chiamata in causa società (omissis) Assicurazioni S.p.A., derivando da ciò che la stessa deve ritenersi abbandonata ai sensi dell’art. 346 c.p.c. L’accoglimento, pur se parziale, dell’appello, con conseguente riforma della sentenza di primo grado, determina l’assorbimento dell’appello incidentale proposto dalla suindicata società, volto esclusivamente ad ottenere la condanna degli appellanti principali al pagamento delle spese del giudizio di primo grado.

Quanto alle spese di lite, premesso che la riforma dell’impugnata decisione ne impone la regolazione anche rispetto al primo grado di giudizio, ai sensi dell’art. 336, comma 1°, c.p.c., nel rapporto fra gli appellanti ed il Ministero, tento conto del parziale accoglimento della domanda, le stesse vanno compensate in ragione della metà, mentre la residua quota, liquidata come da dispositivo, deve porsi a carico del Ministero, in base al principio della soccombenza, con attribuzione all’avv. (omissis), stante la dichiarazione resa ai sensi dell’art. 93 c.p.c. nella comparsa conclusionale. Nel rapporto, invece, tra il Ministero e la (omissis) Assicurazioni S.p.A., tenuto conto della evidenziata mancata reiterazione della pretesa di manleva e dell’insussistenza di una situazione di antagonismo processuale fra dette parti, le spese vanno dichiarate interamente compensate. Né vi sono i presupposti, come invece richiesto dagli 23 appellanti, di porre a carico anche della menzionata impresa di assicurazione le spese processuali, in quanto, ai fini delle spese, può profilarsi un rapporto diretto fra l’attore e la parte chiamata in garanzia solo ed esclusivamente nell’ipotesi di rigetto della domanda principale. In tale prospettiva, infatti, secondo il consolidato orientamento della Corte regolatrice, il rimborso delle spese sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve porsi a carico dell’attore, sulla base del principio di causalità, quando la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall’attore stesso e queste siano risultate prive di fondamento, nonostante la mancanza di ogni pretesa attorea nei confronti del terzo. Dette spese rimangono, invece, a carico del convenuto che ha proceduto alla chiamata in causa qualora detta iniziativa sia stata manifestamente infondata o palesemente arbitraria, integrando gli estremi dell’abusivo esercizio del diritto di difesa (cfr., ex multis, Cass. 28/2/2022, n. 9941; Cass. 6/12/2019, n. 31889). Al di fuori dell’ipotesi del rigetto della pretesa principale, pertanto, le spese di lite vanno regolate esclusivamente nel rapporto fra il convenuto ed il terzo dallo stesso chiamato in causa.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Napoli, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (omissis) e (omissis), in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio (omissis), nei confronti del Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, nonché della (omissis) Assicurazioni S.p.A., avverso la sentenza n 12045/2015 del Tribunale di Napoli, così provvede:

a) accoglie per quanto di ragione l’appello e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, condanna il Ministero dell’Istruzione Università 24 e Ricerca al pagamento, in favore di (omissis), della somma di € 1.188,00, oltre interessi al tasso previsto dall’art. 1284, comma 1°, c.c., decorrenti dalla data di pubblicazione della presente sentenza sino al saldo, nonché della somma di € 204,55, senza ulteriori interessi;

b) rigetta, nel resto, l’appello;

c) compensa le spese del doppio grado fra gli appellanti ed il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, nei limiti della metà, e condanna detta amministrazione al pagamento, in favore degli appellanti, della residua quota, che liquida, con attribuzione all’avv. (omissis):

– quanto al giudizio di primo grado, in complessivi € 1.780,78, di cui € 343,28 per esborsi, € 1.250,00 per compensi professionali ed € 187,50 per rimborso spese forfettarie pari al 15%, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge;

– quanto al presente grado di appello, in complessivi € 1.501,25, di cui € 178,75 per esborsi, € 1.150,00 per compensi professionali ed € 172,50 per rimborso spese forfettarie pari al 15%, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge;

e) compensa le spese del doppio grado fra il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca e la società (omissis)Assicurazioni S.p.A.

Così deciso in Napoli il 25/1/2023.

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