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Corte appello Lecce sez. II, 07/07/2022, n. 798

Massima

Il vizio redibitorio (ex art. 1490 c.c.) e la mancanza di qualità promesse o essenziali (ex 1497 c.c.), pur presupponendo l’appartenenza della cosa oggetto della compravendita al genere pattuito, si differenziano in quanto il primo riguarda le imperfezioni ed i difetti inerenti il processo di produzione, fabbricazione, formazione e conservazione della cosa, mentre la seconda riguarda la natura della merce e concerne tutti gli elementi essenziali che influiscono sull’appartenenza ad una specie piuttosto che a un’altra; entrambe le ipotesi si distinguono, poi, dalla consegna di “aliud pro alio” che si configura nell’ipotesi di cosa appartenente ad un genere del tutto diverso o con difetti tali, da non poter assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti.

Supporto alla lettura

Risoluzione contratto

La risoluzione del contratto è un istituto che trova la propria compiuta disciplina agli articoli 1453 e seguenti del codice civile. Gli effetti della risoluzione di un contratto possono tanto ottenersi con una domanda giudiziale quanto di diritto, cioè automaticamente, quando sussistono determinati presupposti.  La risoluzione determina lo scioglimento del vincolo contrattuale per il verificarsi di eventi successivi alla stipulazione che incidono sul vincolo sinallagmatico rendendo necessaria o quanto meno opportuna la sua rimozione. Questa forma di risoluzione, cosiddetta rimediale, ha dunque lo scopo di reagire a un malfunzionamento del contratto e si distingue dalle risoluzioni non rimediali che rispondono alla diversa logica di consentire a una delle parti di liberarsi dal vincolo in forza di una pattuizione prevista dallo stesso contratto, come ad esempio nelle ipotesi in cui sia prevista una condizione risolutiva. La risoluzione rimediale ha invece sempre fonte legale e può operare o automaticamente, come nell’ipotesi di scadenza del termina essenziale ex art. 1457 c.c., e di risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c., o per sentenza come la risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. e per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., o ancora tramite manifestazione di volontà negoziale, come nell’ipotesi di diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c.. Sembra invece avere una collocazione ibrida la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c, che da un lato assume una funzione rimediale reagendo a un malfunzionamento del contratto, dall’altro poiché dà risalto alla volontà delle parti di considerare determinante l’inadempimento di una determinata obbligazione, sembra colorarsi anche di una funzione non rimediale. Preventivamente le parti possono inserire nel contratto una clausola penale. Rappresenta l’espressione del patto con il quale in via forfettaria e preventiva, si determina l’ammontare del risarcimento del danno che causano l’inadempimento delle obbligazioni o il ritardo nell’adempimento. Nel vigente codice civile italiano la clausola penale è disciplinata agli articoli 1382 – 1384 e la sua nozione è strettamente collegata alla funzione che le viene riconosciuta. La prestazione dedotta nella clausola penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno, dice la legge, il creditore non ha quindi l’onere di provare il pregiudizio subito e, sempre a tenore di codice, non può pretendere il risarcimento del danno ulteriore se non è stato così espressamente stabilito. La clausola penale limita il risarcimento alla prestazione promessa. Quindi, il creditore non può esigere il risarcimento del danno ulteriore, salvo patto contrario.

Ambito oggettivo di applicazione

MOTIVAZIONE

La presente sentenza viene redatta ai sensi dell’art. 132 cpc come novellato dalla l. 69/2009, omettendo la concisa esposizione dello svolgimento del processo e con motivazione consistente nella succinta esposizione delle ragioni di doglianza e dei motivi della decisione.

Con sentenza n. 1137/2020 emessa il 29.09.2020 e pubblicata in pari data, il Tribunale di Brindisi rigettava la domanda attorea volta all’accertamento dell’inadempimento contrattuale dei convenuti e, accoglieva, invece, la domanda riconvenzionale spiegata dai convenuti, per l’effetto dichiarando lo scioglimento del contratto preliminare per recesso degli attori, promissari acquirenti, col conseguente diritto dei convenuti, promissari venditori, a ritenere la caparra confirmatoria di € 50.000,00.

Ed invero. I Sig.ri L. G.B. e G. M.A. e i Sig.ri C. T. e A. J. in data 15.09.2012 avevano sottoscritto un contratto preliminare, con cui avevano rispettivamente, promesso di vendere, i primi, e di acquistare, i secondi, tre unità immobiliari site in Brindisi, al corso R., per il prezzo complessivo di € 300.000,00, di cui € 50.000,00 erano stati erogati alla sottoscrizione del contratto preliminare a titolo di caparra confirmatoria e la residua somma doveva corrispondersi nei termini, definiti “essenziali ed inderogabili” del 15.1.2013, quanto ad ulteriori € 50.000,00 e del 31.3.2013, coincidente con il momento indicato per la stipula del definitivo, quanto ai restanti € 200.000,00.

I promissari acquirenti convenivano in giudizio i promissari venditori deducendo che l’immobile promesso in vendita non aveva i parametri minimi inderogabili per la salubrità ed agibilità in quanto l’altezza media dell’ammezzato era inferiore a mt.2,40 quale altezza minima inderogabile e l’ammezzato aveva una finestra di dimensioni estremamente contenute, tale da non essere idonea alla aereazione ed alla illuminazione in modo sufficiente. Tali vizi, di cui sarebbero stati edotti solo dopo la conclusione del preliminare, giustificavano l’azione per vizi proposta ex art. 1490 cc ovvero ex art. 1497 cc al fine di denunciare l’inadempimento da parte dei promissari venditori delle obbligazioni assunte col contratto preliminare, per non avere i beni promessi le caratteristiche essenziali allo scopo per cui era stato stipulato il contratto stesso e, in ogni caso, per essere gli immobili viziati a causa dell’assenza dei parametri minimi a garantire la tutela del diritto alla salute, con conseguente domanda di condanna dei convenuti alla restituzione della somma di € 50.000,00 versata a titolo di caparra confirmatoria nonché al versamento della ulteriore somma di € 50.000,00 – pari al doppio della caparra – a titolo di risarcimento del danno; gli attori domandavano, altresì, la dichiarazione di inefficacia della risoluzione stragiudiziale del contratto preliminare comunicata dai convenuti con telegramma del 15.01.2013 in dipendenza della omessa erogazione nel termine essenziale della seconda tranche di prezzo di € 50.000,00. In via subordinata, domandavano l’annullamento del contratto preliminare per cui è causa per errore di fatto e/o di diritto e, in via ulteriormente gradata, chiedevano che il contratto fosse dichiarato nullo per nullità dell’oggetto. Ritualmente costituitisi, i convenuti eccepivano la inammissibilità della azione per inapplicabilità della garanzia per i vizi al contratto preliminare ovvero per intervenuta decadenza ex art. 1495 cc per tardività della denuncia; nel merito evidenziavano la infondatezza della domanda, per conformità dei tre immobili alla normativa urbanistica come risultante dai tre certificati di abitabilità in atti e deducevano che, nonostante i solleciti mediante telegramma del 15.01.2013 contenente l’avvertenza che in difetto di pagamento della seconda tranche del prezzo, il contratto preliminare avrebbe dovuto ritenersi inefficace, i promissari acquirenti avevano opposto un rifiuto a tale adempimento, agendo quindi giudizialmente, per la risoluzione contrattuale e la restituzione della caparra. Pertanto, i convenuti spiegavano domanda riconvenzionale volta ad ottenere la dichiarazione di scioglimento del contratto preliminare per intervenuto recesso da parte dei promissari acquirenti, con contestuale diritto degli stessi promissari venditori a ritenere la caparra già incassata.

All’esito dell’istruttoria probatoria, effettuata mediante produzione documentale, prova per testi e c.t.u., il Tribunale, in disparte la questione sulla applicabilità al preliminare della garanzia per vizi che era da escludere, rigettava la domanda attorea sul presupposto, emerso all’esito dell’istruttoria, che i promissari acquirenti erano, sin da prima della stipulazione del contratto preliminare, ben a conoscenza delle condizioni e delle caratteristiche dei tre cespiti promessi in vendita, ciò in virtù di quanto emergeva dalla lettura stessa del contratto, in cui si afferma che i promissari acquirenti avevano personalmente visionato gli immobili; oltre che in virtù del fatto che il dedotto vizio era visibile ictu oculi e non poteva passare inosservato, ed infine in virtù delle indagini esperite nelle competenti sedi in epoca pregressa alla stipula del compromesso, atteso che gli attori sin dal 1997 avevano denunziato all’Amministrazione comunale la insufficienza sia dell’altezza del cespite posto al piano ammezzato, sia le ridotte dimensioni dell’unica apertura ivi esistente.

Il Tribunale accoglieva, invece, la domanda riconvenzionale spiegata dai convenuti promissari venditori, giudicando fondata l’istanza di scioglimento del contratto preliminare per recesso degli stessi attori, col conseguente diritto dei convenuti a ritenere la caparra confirmatoria.

Le spese di c.t.u. e le spese di lite seguivano la soccombenza.

Con atto di citazione in appello notificato il 6.11.2020 C. T. e A. J., premettendo una richiesta di rinnovo della c.t.u. estesa a tutti i tre i beni oggetto di preliminare, hanno censurato sentenza sotto un triplice ordine di profili, dedotti in altrettanti motivi e segnatamente per:

a) “Violazione e/o falsa applicazione della norma di cui all’art. 1490 c.c. in tema di garanzia della cosa venduta” per avere il giudice di prime cure – al di là dei dubbi sulla applicabilità della norma – fatto erroneamente riferimento a detta normativa, mentre l’azione non era fondata sulla garanzia per vizi, ma sulla inidoneità dei beni all’uso convenuto; in ogni caso, anche ove volesse ritenersi applicabile la disciplina ex art. 1490 c.c., sarebbe evidente l’errore del giudice di prime cure, il quale ha ritenuto costituire semplice vizio quello che invece doveva integrare una qualificazione del bene promesso come aliud pro alio, in quanto la sua insalubrità lo rende ascrivibile a tale diversa fattispecie, venendo in rilievo caratteristiche intrinseche, che escludono in radice la possibilità di far ritenere gli immobili, e comunque quello posto al piano ammezzato, come beni commerciabili. Tanto sul presupposto che il piano ammezzato non possiede i requisiti minimi, previsti dalla disciplina in tema di salubrità sia con riferimento all’altezza del locale, che alle dimensioni della apertura di areazione e luce, come emerge pure dalle risultanze di CTU di prime cure; l’appellante chiede anche che l’indagine peritale venga disposta in questa sede anche sugli altri due immobili oggetto del preliminare, al fine di verificarne l’inadeguatezza rispetto all’utilizzo loro proprio. Inoltre, la sentenza meriterebbe censura laddove non considera come neutra la circostanza che i locali siano stati ispezionati prima della sottoscrizione, atteso che solo a seguito della firma del preliminare gli appellanti ebbero la possibilità di far verificare, con un tecnico le misure effettive del bene, a nulla rilevando, d’altra parte, il certificato di agibilità, rilasciato dal Comune, che siccome sarebbe errato va considerato “tamquam non esset”. Parimenti del tutto irrilevante era la denuncia del 1997 su cui pure il tribunale appunta la sua attenzione, posto che la successiva sanatoria avrebbe ingenerato piuttosto l’idea di essere stati in errore all’epoca. Di talché dall’accertamento dell’inesistenza delle qualità essenziali del bene avrebbe dovuto conseguire l’accoglimento della domanda degli attori, anche in applicazione della norma di cui all’art.1490 c.c. trattandosi, contrariamente ai dubbi espressi dal Tribunale, di norma pacificamente applicabile anche ai contratti preliminari. In ogni caso, se pure il contratto è un unicum inscindibile, e non vi è interesse all’acquisito parziale, comunque la risoluzione poteva essere dichiarata quantomeno in via gradata per l’immobile sub 2) perché quel bene era quello affetto da tali denunciati vizi.

b) “Nullità della sentenza per difetto di corrispondenza integrale tra chiesto e pronunciato ex art. 112 cpc” per aver il giudice di prime cure omesso di delibare su tutte le domande formulate in citazione anche in via subordinata, atteso che nessun accenno risulta nel provvedimento impugnato, che dia contezza dell’avvenuta delibazione delle domande subordinate di annullamento del contratto per errore e, comunque, su quella ancor più gradata di nullità. Con particolare riferimento a quest’ultima domanda, la sentenza meriterebbe censura per non aver ritenuto sussistente la macroscopica nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto, quanto meno con riferimento all’appartamento del piano ammezzato, non avendo il bene suddetto le qualità minime previste dalla normativa vigente in tema di salubrità degli immobili, né potendole conseguire in futuro, e non avendo pertanto la natura di bene abitabile e/o commerciabile.

c) “Erroneità della sentenza per accoglimento di una domanda di accertamento del recesso dei promittenti venditori in realtà inesistente” nella parte in cui la sentenza accoglie la domanda riconvenzionale avversaria non potendosi, invece, ritenere formulata dagli attori in citazione una domanda di recesso, richiesto dai convenuti nella nota stragiudiziale del 15.1.2013, in cui si chiedeva l’adempimento del termine essenziale di pagamento; inoltre, quale ulteriore doglianza, parte appellante assume che, pur a voler ritenere formulata in giudizio una domanda di risoluzione per inadempimento, l’importo versato di € 50.000 dovrebbe essere comunque restituito, non essendo stata fornita alcuna prova dell’effettivo danno subito come invece imprescindibile in tema di richiesta risarcitoria conseguente a risoluzione.

Ritualmente costituitisi, gli appellati reiteravano n ex art. 346 cpc le preliminari eccezioni di inammissibilità, assorbite dal tribunale nel rigetto di merito della domanda, in particolare quella di intervenuta decadenza dalla garanzia, per aver gli appellanti lasciato decorrere inutilmente il perentorio termine di giorni otto dalla scoperta del presunto vizio redibitorio o della sussunta carenza delle qualità essenziali della res promessa, prescritto per la denuncia dall’art. 1495 cc., applicabile sia all’ azione ex art. 1490 c.c. che alla azione ex art. 1497 cc.; nel merito contestano le deduzioni avverse insistendo per la conformità alla normativa urbanistica dei tre immobili compromessi in vendita, come risulta dai certificati di abitabilità rilasciati dall’U.T.C. di Brindisi il 16.9.1998 sub nn. 6460, 6461, 6462 ed eccependo, altresì, la novità, e dunque l’inammissibilità ex art. 345 cpc, dell’allegazione concernente la “qualificazione del bene promesso quale aliud pro alio”.

Sulle conclusioni come innanzi precisate, la causa è stata riservata in decisione ai sensi dell’art. 190 cod. proc. civ., con i termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

L’appello è infondato e deve essere rigettato.

Ed invero, quanto al primo motivo di gravame occorre chiarire preliminarmente che la domanda proposta in primo grado dagli appellanti era finalizzata alla declaratoria di inadempimento delle obbligazioni assunte con il preliminare, per non avere i beni promessi “le caratteristiche essenziali allo scopo” per cui il contratto era stipulato ed in ogni caso “per essere gli stessi viziati, in assenza dei parametri minimi necessari a garantire il diritto alla salute”.

In tema di garanzia per vizi della cosa venduta, il giudice, chiamato a pronunciarsi su una domanda di accertamento dei vizi della cosa venduta, ha il compito di qualificare d’ufficio l’azione proposta in termini di vendita di bene privo delle qualità essenziali ovvero, sulla base delle circostanze acquisite al processo a tal fine rilevanti, di vendita di “aliud pro alio”, la quale dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione o di inadempimento ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizioni previsti dall’art. 1495 c.c..

In tale senso recentissima Cassazione civile sez. II, 14/10/2021, n.28069

La qualificazione giuridica quale vendita di bene privo di qualità essenziali ovvero vendita di un aliud pro alio rientra tra i compiti del giudice di qualificazione dell’azione proposta, il quale innanzi alla proposizione di una domanda di accertamento dei vizi, può qualificare d’ufficio l’azione come accertamento della vendita di un aliud pro alio, ove le circostanze a tal fine rilevanti siano state acquisite nel processo. Il tribunale ha inteso riportare la questione nell’ambito della domanda di garanzia per vizi della cosa venduta ex art. 1490 e ss ovvero in quella di mancanza di qualità essenziali ex art. 1497 cc.. a fronte di una azione che era fondata – contrariamente agli assunti dell’appellante – sia sulla garanzia per vizi, sia sulla inidoneità dei beni all’uso convenuto per mancanza di qualità essenziali. Con riferimento a tale prospettazione difensiva, la domanda era pertanto da inquadrarsi nella disciplina di cui all’art. 1497 cc. La qualificazione operata dal tribunale – che esclude quindi la inammissibilità per novità ex art. 354 cpc della censura nella misura in cui l’appellante chiede la qualificazione della vicenda piuttosto nell’ambito dell’aluid pro alio – appare corretta e condivisibile, posto che la consegna di aliud pro alio richiede che il bene venduto sia non solo privo di qualità essenziali, ma anche quando sia completamente diverso da quello pattuito, rivelandosi così funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico sociale della cosa venduta e quindi a fornire l’utilità richiesta.

L’assunto esposto in primo grado sulla mancanza di qualità essenziali nel bene -e non già su una divergenza da quanto pattuito – rende corretta la qualificazione operata in sentenza. Il vizio redibitorio (art. 1490 c.c.) e la mancanza di qualità promesse o essenziali (1497 c.c.), pur presupponendo l’appartenenza della cosa al genere pattuito, si differenziano in quanto il primo riguarda le imperfezioni e i difetti inerenti il processo di produzione, fabbricazione, formazione e conservazione della cosa, mentre la seconda è inerente alla natura della merce e concerne tutti gli elementi essenziali e sostanziali che influiscono, nell’ambito di un medesimo genere, sull’appartenenza ad una specie piuttosto che a un’altra; entrambe le ipotesi differiscono comunque dalla consegna di “aliud pro alio” che si ha quando la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso o presenti difetti che le impediscano di assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti, facendola degradare in una sottospecie del tutto diversa da quella dedotta in contratto. Non essendo stata neppure dedotta nella citazione di primo grado una siffatta situazione, e cioè di una totale incapacità del bene ad assolvere alla sua funzione economico sociale, il vizio del bene promesso comunque non può esser inteso come ascrivibile alla ipotesi di aliud pro alio, né tanto può discendere dalla asserita situazione di insalubrità dell’ammezzato, che è ipotesi inquadrabile come mancanza di qualità essenziali ex art. 1497 cc.. anche se l’assenza dei requisiti igienico-sanitari ed edilizi utili all’uso abitativo renderebbe l’immobile stesso – a dire degli appellanti- incommerciabile ed inadatto alla realizzazione della sua funzione economico sociale, giustificando sotto tale profilo una pronuncia di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno; va detto, più in particolare, che l’assenza di agibilità (o l’assenza dei requisiti fattuali e giuridici per l’ottenimento della stessa), configura effettivamente un “aliud pro alio”, ovvero il reflusso del bene in un genere del tutto diverso da quello oggetto del contratto, poiché privo delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell’acquirente o con difetti che lo rendono inutilizzabile rispetto alla sua funzione naturale, con il corollario che la vendita di tali beni è svincolata dall’osservanza dei termini di prescrizione e decadenza di cui all’art. 1495 c.c.

Tuttavia, non può il Collegio esimersi dal considerare in via dirimente che l’immobile – anche alla luce del carteggio prodotto in atti – è fornito di agibilità, che è conferita espressamente anche per l’ammezzato, e tanto esclude di per sé solo la qualificabilità della fattispecie traslativa in scrutinio come afferente un aliud pro alio, in difetto di elementi certi che possano consentire alla Corte una disapplicazione di tale atto amministrativo, difettandone i presupposti per l’esercizio di un tale potere, come si vedrà meglio infra. La vendita di un immobile munito di certificazione di abitabilità solo per una porzione non integra, infatti, la fattispecie dell’aliud pro alio ma quella della mancanza delle qualità essenziali o promesse ex art. 1479 c.c., atteso che non ricorre un’ipotesi di difetto assoluto del titolo di abitabilità né è possibile desumere sic et simpliciter l’insussistenza delle condizioni necessarie ad ottenerne un futuro rilascio. Anche la c.t.u. non soccorre perché se evidenzia alcune irregolarità urbanistiche con riferimento ad alcuni dei locali del vano ammezzato ( vano letto e vano soggiorno) non evidenzia la illegittimità della agibilità rilasciata all’immobile.

Cassazione civile sez. VI, 27/09/2021, n.26150

Va evidenziato che nella specie, al di là di tutte le precedenti considerazioni, comunque non ricorre una ipotesi di aliud pro alio. La vendita di aliud pro alio è categoria di matrice giurisprudenziale che ricorre nei casi in cui venga venduto un bene completamente diverso da quello pattuito. La fattispecie di aliud pro alio è desumibile anche avuto riguardo alla vendita di un bene che presenti difetti tali da impedire allo stesso di assolvere la sua naturale funzione economico-sociale oppure quella che eventualmente le parti abbiano ritenuto essenziale ai fini della conclusione dell’accordo. Non si ravviserebbe, in tal guisa, un mero vizio nell’esecuzione del contratto, costituente inesatto adempimento delle obbligazioni assunte dal venditore ma un’autentica violazione dell’accordo, che non soddisferebbe neanche in minima parte l’interesse di colui che acquista. Trattasi, dunque, di inadempimento contrattuale in conseguenza del quale parte acquirente può agire per la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1453 e successivi c.c. L’inidoneità del bene venduto ad assolvere finanche la propria funzione essenziale, dunque la sostanziale diversità dello stesso rispetto all’oggetto contrattualmente divisato dalle parti, connoterebbe, pertanto, la fattispecie dell’aliud pro alio, differenziandola da quella della mancanza delle qualità essenziali o promesse ex art. 1497 c.c. per cui all’acquirente è attribuito il diritto di chiedere la risoluzione del contratto.

Orbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la vendita di un immobile munito della certificazione di abitabilità di un solo piano e, dunque, di una mera porzione del cespite rispetto al bene oggetto di compravendita non possa integrare un’ipotesi di consegna di aliud pro alio, aderendo quindi anche di recente il giudice della nomofilachia al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la fattispecie dell’aliud pro alio andrebbe ravvisata esclusivamente ove sia stata posta in essere la vendita di un bene destinato ad uso abitativo, ma distinto, quest’ultimo, da difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero dall’insussistenza delle condizioni necessarie ad ottenerne il rilascio. Il certificato di abitabilità costituisce, infatti, requisito giuridico essenziale dell’immobile compravenduto poiché contribuisce a incidere sull’attitudine del bene ad assolvere la sua funzione economico-sociale assicurandone, così, il legittimo godimento e la commerciabilità. Da ciò, tuttavia, non deriva che il mancato rilascio della licenza di abitabilità integri de plano un inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio, dovendo, per converso, verificarsi caso per caso quando tale difetto pregiudichi in modo dirimente l’equilibrio delle reciproche prestazioni (Cass. civ., Sez. II, 13 agosto 2020 n. 17123). È, peraltro, orientamento costante della Suprema Corte quello in forza del quale un eventuale successivo rilascio del certificato di abitabilità esclude a priori la possibilità stessa di configurare l’ipotesi di vendita di aliud pro alio (in tal senso, Cass. civ., Sez. II, 18 marzo 2010 n. 6548).

Nella specie il rilascio della agibilità per tutti e tre gli immobili oggetto di preliminare porta ad escludere la possibilità di qualificare il bene promesso come “aliud pro alio”.

Da tanto discende, quale corollario, in primo luogo la fondatezza della eccezione di inammissibilità della domanda di inadempimento per mancanza di qualità essenziali ex art. 1497 cc e quella di garanzia per vizi della cosa oggetto di un contratto preliminare, perché nel caso di preliminare di vendita, secondo un orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente, se pure obiettivamente non univoco, cui comunque il Collegio non intende discostarsi, non trovano applicazione le norme sulla garanzia della cosa venduta, perché dette norme hanno come loro presupposto l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, mentre il contratto preliminare è caratterizzato, invece, dalla mancanza dell’effetto traslativo. Prima della stipula dell’atto definitivo, la presenza di vizi nella cosa consegnata abilita il promissario acquirente – senza che sia necessario il rispetto del termine di decadenza di cui all’art. 1495 c.c. per la denuncia dei vizi della cosa venduta – ad opporre la exceptio inadimpleti contractus al promittente venditore, che gli chieda di aderire alla stipulazione del contratto definitivo e di pagare contestualmente il saldo del prezzo, e lo abilita, altresì, a chiedere, in via alternativa, la risoluzione del preliminare per inadempimento del promittente venditore, ovvero la condanna di quest’ultimo ad eliminare a proprie spese i vizi della cosa.

Da ultimo, in tal senso Cassazione civile sez. II, 16/02/2015, n.3029, e, in parte, anche Cassazione civile sez. II, 26/01/2010, n.1562.

L’eccezione preliminare di inammissibilità della domanda principale va quindi accolta, con effetto assorbente di ogni altra questione dedotta dagli appellanti con riferimento a tale motivo di gravame.

Ne viene che anche le istanze istruttorie- nello specifico quella di una nuova c.t.u., che sia estesa a tutti gli immobili oggetto di preliminare – restano assorbite.

Per completezza, va evidenziato che dalle prove acquisite in atti emerge come comunque gli appellanti, che abitano nello stesso immobile ai piani superiori a quelli oggetto di vendita, ben conoscevano le vicende inerenti la abusiva realizzazione dell’ammezzato e la sua successiva sanatoria, posto che in atti è corposo carteggio intercorso sin dal 1997 fra gli appellanti ed il Comune, con cui i sigg. C. T. e Africa ripetutamente sollecitavano interventi della A. C. di Brindisi e della P.M. per accertare e sanzionare gli abusi posti in essere anche per “l’effettiva altezza dell’ammezzato” ( nota dell’8.9.2008 all. n. 16 fra le altre). Tanto esclude anche sotto tale profilo che alcuna circostanza inerente la agibilità e la conformità urbanistico-edilizia del bene sia mai stata taciuta a parte acquirente, o non sia stata a questa nota, tale da giustificare la tutela invocata.

Ulteriore elemento che si rinviene dal preliminare e che rafforza tale decisione è inerente il fatto che, in seno a detto contratto, le parti si davano atto che, con la stipula del definitivo, sarebbero state definite anche “tutte le questioni giudiziali e stragiudiziali” pendenti fra le stesse, con reciproca rinuncia ai giudizi ed alle spese di lite: alla luce di tanto non può sostenersi che le parti intendevano acquistare un bene del tutto diverso da quello poi effettivamente promesso, perché invece i promissari acquirenti intendevano acquistare proprio quell’immobile, così come era stato realizzato, con tutte le criticità di cui erano perfettamente a conoscenza, anche al fine di porre termine ad un annoso contenzioso di cui le parti stesse danno atto. Non ricorre, pertanto, anche sotto tale profilo e per tutto quanto già detto, la fattispecie dell’aliud pro alio.

In presenza di un valido certificato di agibilità pur in presenza di una situazione dell’immobile non del tutto conforme alle norme urbanistiche, neppure la risoluzione parziale del contratto potrebbe essere dichiarata, quantomeno in via gradata per il solo l’ammezzato ( immobile sub 2 del preliminare ) perché l’unico affetto da tali denunciati vizi, perché – a tacere ogni alta considerazione – tale istanza non è mai stata formulata in primo grado e proposta in appello integra comunque una domanda nuova, su cui non si è formato in primo grado il contraddittorio.

Parimenti infondato è il secondo motivo di gravame.

Va precisato che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia. In particolare, va precisato, la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia si coglie nel senso che, nella prima, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, mentre, nel caso dell’omessa motivazione, l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne la domanda o l’eccezione direttamente, bensì una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi su uno dei tatti principali della controversia.

Nella specie effettivamente la sentenza non ha esaminato la domande subordinate pure sottoposte all’esame del tribunale sulla annullabilità del contratto per errore e di nullità per impossibilità dell’oggetto.

Tale omissione impone alla Corte di provvedervi.

L’omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, invero, costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., con il correttivo secondo il quale l’omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile; peraltro, l’omessa pronuncia su una o più censure proposte non configura un error in procedendo, tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 354 cpc, ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa.

Entrambe le domande subordinate sono infondate.

Non sussiste alcun vizio del consenso per errore, su qualità essenziali che non sia facilmente riconoscibile: la rilevanza dell’errore, come causa di annullamento del negozio, è caratterizzata dal duplice profilo della sua essenzialità e della riconoscibilità, intesa, quest’ultima, come capacità di rilevazione di esso da parte di una persona di media diligenza, in relazione sia alle circostanze del contratto, che alle qualità dei contraenti. A tale riconoscibilità è legittimamente assimilabile, “quoad effectum”, la concreta ed effettiva conoscenza dell’errore da parte dell’altro contraente, attesa la “ratio” della norma di cui all’art. 1431 c.c., volta a tutelare il solo affidamento incolpevole del destinatario della dichiarazione negoziale viziata nel processo formativo della sottostante determinazione volitiva. Nella specie per quanto già detto, non ricorre tale situazione di invalidità connessa all’abusiva realizzazione dell’immobile perché le parti promissarie acquirenti erano già dal 1997 a conoscenza di tale abuso, oltre che del fatto che l’abuso era stato sanato e che l’ammezzato avesse avuto anche la certificazione di agibilità.

Quanto alla nullità per impossibilità dell’oggetto del contratto, collegata alla mancanza di agibilità dell’ammezzato, perché quella concessa dalla amministrazione comunale andrebbe ritenuta tamquam non esset, va ribadito che in presenza di un atto amministrativo l’unica possibilità, concessa al giudice ordinario, in caso di ritenuta erroneità è la disapplicazione dell’atto, non potendo diversamente ignorarsi sic et simpliciter detto atto. Tuttavia, il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario, che non può essere esercitato nei giudizi in cui sia parte la P.A., ma unicamente nei giudizi tra privati, come quello di specie, è consentito nei soli casi in cui l’atto illegittimo venga in rilievo, non già come fondamento del diritto e/o della pretesa dedotta in giudizio, bensì come un mero antecedente logico, sicché la questione venga a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico. Nella specie la declaratoria di nullità per impossibilità dell’oggetto del contratto è preclusa proprio dalla agibilità dell’ammezzato, sicché non può provvedersi alla sua disapplicazione per dichiarare nullo il contratto, perché l’atto amministrativo non è un mero antecedente logico, ma il presupposto per la legittimità del contratto preliminare; in ogni caso, difettano gli elementi di erroneità dell’atto da cui trarne motivi per una sua disapplicazione, sicché la dedotta impossibilità dell’oggetto non sussiste.

In ogni caso la nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto non sussisterebbe comunque, perché si verte in tema di preliminare, e deve comunque ritenersi valido il preliminare di compravendita di un bene la cui conformità urbanistica non sia ancora accertata, se questa non sia impossibile da conseguirsi in modo assoluto. ( in parte anche Cassazione civile sez. II, 30/09/2008, n.24313). Nella specie non solo la agibilità è stata conseguita, ma ove non lo fosse, potrebbero in futuro essere sanate le asserite irregolarità, che la renderebbero errata l’agibilità già rilasciata dal Comune, secondo gli assunti di parte appellante, in presenza di fatti ostativi, che paiono comunque emendabili.

Infondato è infine anche il terzo motivo di appello, con cui si afferma che la sentenza è errata laddove ha accolto la domanda di recesso in realtà inesistente, proposta in via riconvenzionale dai promissari venditori. Tanto perché il recesso di fatto non è mai avvenuto, essendo intervenuta la risoluzione di diritto, né è stata formulata domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno, che però avrebbe imposto alla parte di affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo, per il danno subito per effetto dell’inadempimento, non potendo i promissari venditori trattenere la caparra, la cui funzione è di una liquidazione anticipata e convenzionale del danno, limitata alla ipotesi di recesso.

L’assunto, che poggia sul rilievo in fatto che il contratto si sarebbe già risolto di diritto fra le parti, sicché non poteva essere chiesto l’accertamento del recesso, è poco convincente e non intacca il passaggio della motivazione in cui il giudice, invece, ritiene che di dover dichiarare lo scioglimento del contratto per recesso con conseguente diritto dalla parte a ritenere la caparra.

Ed infatti. Va osservato che in contratto il termine per il versamento della seconda trance del prezzo era fissato al 15.1.2013, data indicata ” entro e non oltre”. L’essenzialità del termine per l’adempimento, ex art.1457 cc però non può essere desunta solo dall’uso dell’espressione “entro e non oltre”, riferita al tempo di esecuzione della prestazione, ma implica un accertamento più pregnante, da cui emerga inequivocabilmente, alla stregua dell’oggetto del negozio o di specifiche indicazioni delle parti, che queste abbiano inteso considerare perduta, decorso quel lasso di tempo, l’utilità prefissatasi ( recentissima Cassazione civile sez. II, 05/04/2022, n.11068), sicché per termine essenziale si intende quel termine alla scadenza del quale il creditore perde l’interesse all’ottenimento della prestazione da parte del suo debitore, con la conseguenza che, venuto meno ogni interesse a ottenere l’esecuzione del contratto, questo si risolverà di diritto.

Nel caso di specie, deve escludersi che sia avvenuta una risoluzione di diritto del contratto ex arti 1457 del Cc, per assenza di essenzialità nel termine fissato in contratto, non emergendo una volontà delle parti, in tal senso al di là della formula ( entro e non oltre) utilizzata, per attribuire decisività a detta scadenza ai fini del mantenimento del sinallagma. Né la situazione muta per il fatto che i promissari venditori abbiano chiesto espressamente il rispetto di tale termine “essenziale” con la diffida inviata in data 15.1.2013, assegnando alla controparte un termine per adempiere ex art. 1454 cc. poi decorso infruttuosamente; tanto, che non milita nel senso di dimostrare, per fatti successivi, la volontà delle parti di prefissare come essenziale il termine del 15.1.2013, perché è iniziativa unilaterale, certamente comporta che il mancato adempimento nel suddetto termine abbia portato alla risoluzione di diritto del contratto, non già ex 1457 c.c., ma, all’esito della diffida ad adempiere, ex artt. 1454 e 1455 cc.

Nel contratto preliminare in scrutinio la somma di € 50.000 è stata corrisposta quale una caparra confirmatoria, e quindi, a fronte all’inadempimento di una parte, l’altra ha come rimedi alternativi il recesso con ritenzione di caparra e/o la risoluzione del contratto con il risarcimento del danno. Entrambi hanno quale presupposto l’accertamento dell’inadempimento della controparte, ma le due domande proposte congiuntamente sono incompatibili.

La risoluzione di diritto però – contrariamente agli assunti degli appellanti – non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, anche l’esercizio della facoltà di recesso ai sensi dell’art. 1385 c.c. per ottenere, invece del risarcimento del danno, il cui ammontare dev’essere provato, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio, poiché dette domande – recesso e ritenzione caparra – se pure ontologicamente diverse, hanno una minore ampiezza, rispetto a quella di risoluzione e possono perciò essere proposte, anche nel caso in cui si sia verificata la risoluzione di diritto del contratto.

Ne viene che la parte adempiente, che si sia avvalsa della facoltà di provocarne la risoluzione mediante diffida ad adempiere, ai sensi dell’art. 1454 c.c., (come nella specie), può sempre agire in giudizio esercitando il diritto di recesso ex art. 1385, comma 2, c.c., e in tal caso, ove abbia ricevuto la caparra, ha diritto di ritenerla definitivamente ( mentre, ove l’abbia versata, ha diritto di ricevere la restituzione del doppio di essa), con esclusione del diritto al risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento che ha giustificato il recesso.

In tal senso Cassazione civile sez. II, 03/11/2017, n.26206, Cassazione civile sez. II, 06/06/2017n.14014.

In realtà, gli appellati in primo grado, deducendo che il contratto si era già risolto di diritto o comunque era da dichiarare risolto ex art. 1453 cc per inadempimento dei promissari acquirenti ( che non avevano versato la restante parte del prezzo pur diffidati a farlo e che con nota del 28.1.2013 esprimevano la volontà di non darvi esecuzione ) hanno chiesto sia darsi atto che il contratto del 15.9.2012 era privo di efficacia per intervenuto recesso, con diritto a trattenere la caparra ex art. 1385 cc, ovvero era risolto di diritto ex art. 1457 cc oppure da risolvere ex art. 1453 cc per inadempimento dei promissari acquirenti, con diritto al risarcimento del danno.

La parte promittente venditrice– nonostante la già intervenuta risoluzione di diritto del contratto preliminare di compravendita, prodottasi in via stragiudiziale attraverso l’inutile decorso del termine fissato nella diffida ad adempiere (art. 1454 c.c., comma 3). – ha chiesto appunto l’accertamento dell’intervenuto scioglimento del vincolo negoziale per recesso, e tanto, al di là della intervenuta risoluzione, al solo fine di poter trattenere la caparra, come correttamente ha disposto il tribunale.

La sentenza di primo grado va quindi confermata anche in relazione all’accoglimento della riconvenzionale, laddove dichiara lo scioglimento del contratto preliminare, ma anche laddove autorizza gli appellanti a trattenere l’importo versato di € 50.000,

La soluzione adottata dal primo giudice è in linea con l’orientamento espresso dalla recentissima Cassazione civile sez. II, 08/06/2022, n.18392.

La suprema Corte conclude nel senso che sia protetto dal diritto positivo l’abbinare la ritenzione della caparra all’effetto risolutorio scaturente non dal recesso, bensì dalla diffida ad adempiere, cui si congiunge l’inutile decorso del termine. La disposizione da applicare è l’art. 1385 c.c., comma 2, nella sua prima parte: “se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra”.

Tale pronuncia, dando seguito ai principi affermati dalla precedente sentenza a Sezioni Unite (Cass. SU 553/2009), si attaglia al caso in esame nel prevedere che ” conseguita attraverso la diffida ad adempiere la risoluzione di un contratto cui è acceduta la prestazione di una caparra confirmatoria, l’esercizio del diritto di recesso è definitivamente precluso e la parte non inadempiente che limiti fin dall’inizio la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra (o alla corresponsione del doppio di quest’ultima), in caso di controversia, è tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio” e cioè la parte non inadempiente, che in presenza dell’inadempimento della controparte (poi accertato in giudizio) si è giovata dell’effetto risolutorio del contratto attraverso la diffida ad adempiere, cui si è congiunto l’inutile decorso del termine, non deve perciò perdere il diritto di ritenere la caparra in funzione di liquidazione del danno predeterminata, forfettaria e sganciata dall’onere della prova. Non deve perderlo sol perché non può più esercitare una facoltà (quella di recedere dal contratto), che non ha più bisogno di esercitare.

” Limpida è l’interpretazione dell’art. 1385 c.c., comma 2, di cui siffatta aspettativa di senso dispone per incontrare protezione giuridica. È quella che, facendo leva sul gerundio nella sua connessione di coordinazione temporale con la proposizione principale, scarta il gerundio subordinato e libera così la ritenzione della caparra dall’esercizio del diritto di recesso come sua condizione esclusiva” .

Pertanto se la domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione di diritto del contratto per inadempimento del promittente compratore nel termine assegnato a norma dell’art. 1454 c.c. (…) non è accompagnata dall’istanza di risarcimento del danno integrale ai sensi dell’art. 1453 c.c., e dell’art. 1385 c.c., comma 3, non è precluso alla parte adempiente di instare per la ritenzione della caparra come azione risarcitoria semplificata rispetto a quella che consegue all’azione di risarcimento integrale giudiziale per la risoluzione costitutiva (Cass. 21838/2010), ” essendo potere-dovere del giudice di qualificare l’azione esercitata secondo la vicenda sostanziale e cioè come accertamento della legittimità del recesso già esercitato e contestato e non già risoluzione giudiziale, tanto più che il contraente adempiente non chiede di conseguire un maggiore risarcimento rispetto all’ammontare della caparra, ma dichiara invece di limitare il risarcimento nella corrispondente misura, (cosicché) affermare l’impossibilità dello ius retinendi della caparra in base al rilievo che l’art. 1385 c.c., comma 2, disciplina l’esercizio stragiudiziale del diritto di recesso e non la risoluzione giudiziale, ancorché dichiarativa e di diritto, con conseguente onere, aleatorio, di dimostrare an e quantum del danno a norma dell’art. 1385 c.c., comma 3, significa attribuire al nomen risoluzione un significato esasperatamente formale. ”

Alla luce di tale orientamento del giudice di legittimità e considerato in fatto che con nota del 28.1.2013 gli appellanti hanno dichiarato la volontà di una ” irrevocabile accettazione della risoluzione del preliminare”, la risoluzione di diritto del contratto per inadempimento del promittente compratore nel termine essenziale ex art. 1457 cc ovvero nel assegnato a norma dell’art. 1454 c.c. accompagnata dall’istanza di risarcimento del danno integrale ai sensi dell’art. 1453 c.c., e dell’art. 1385 c.c., comma 3, non preclude alla parte adempiente di instare per la ritenzione della caparra come azione risarcitoria semplificata rispetto a quella che consegue all’azione di risarcimento integrale giudiziale per la risoluzione costitutiva, giacché ” conseguita attraverso la diffida ad adempiere la risoluzione di un contratto, cui è acceduta la prestazione di una caparra confirmatoria, l’esercizio del diritto di recesso è definitivamente precluso e la parte non inadempiente che limiti fin dall’inizio la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra (o alla corresponsione del doppio di quest’ultima), in caso di controversia, è tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio.” ( sempre Cassazione civile sez. II, 08/06/2022, n.18392).

La sentenza va quindi confermata.

Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo, con importo prossimo ai minimi tariffari previsti per lo scaglione di riferimento della causa, considerato il valore come dichiarato del giudizio ( € 300.000) e la complessità delle questioni trattate.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della parte appellante, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il gravame, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte d’Appello, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da C. T. e A. J. con atto di citazione notificato il 6.11.2020 nei confronti di L. G.B. e G. M.A. avverso la sentenza del Tribunale di Brindisi n. 1137/2020 in data 29.09.2020 , così provvede:

1. Rigetta l’appello;

2. Conferma integralmente la sentenza appellata;

3. Condanna la parte appellante al pagamento, in favore degli appellati L. G.B. e G. M.A., in solido fra loro, delle spese del presente grado del giudizio, che liquida in € 7500, oltre accessori di legge e di tariffa questi nella misura del 15 %;

4. dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte degli appellanti, in favore dell’erario, di un importo ulteriore, pari a quello del contributo unificato previsto per il gravame, se dovuto.

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