Massima

Le azioni dolose e aggressive del soggetto, come le grida di rifiuto di cambiare cella e l’aggressione agli agenti, insieme alla mancanza di prove che l’incendio del materasso sia stato accidentale, portano a considerarlo responsabile del danneggiamento seguito da incendio.

Supporto alla lettura

INCENDIO E DANNEGGIAMENTO SEGUITO DA INCENDIO

L’ Art. 423 c.p. disciplina il reato di incendio, disponendo che:

“Chiunque cagiona un incendio è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La disposizione precedente si applica anche nel caso di incendio della cosa propria, se dal fatto deriva pericolo per l’incolumità pubblica”

L’ Art. 424 c.p. disciplina la diversa fattispecie del danneggiamento seguito da incendio, secondo la quale:

“Chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 423 bis al solo scopo di danneggiare la cosa altrui, appicca il fuoco a una cosa propria o altrui è punito, se dal fatto sorge il pericolo di un incendio, con la reclusione da sei mesi a due anni.
Se segue l’incendi, si applicano le disposizioni dell’articolo 423, ma la pena è ridotta da un terzo alla metà.
Se al fuoco appiccato a boschi, selve e foreste, ovvero vivai forestali destinati al rimboschimento, segue incendio, si applicano le pene previste dall’articolo 423 bis”.

La differenza fra reato di incendio e reato di danneggiamento seguito da incendio sta nell’ elemento psicologico, in quanto “nel primo l’agente agisce con dolo generico, anche eventuale, volendo o accettando il rischio di cagionare un incendio, nel secondo l’agente agisce con dolo specifico e pertanto, senza prevedere o volere un incendio, impiega il fuoco al solo ed esclusivo fine di danneggiare un bene altrui specificamente individuato “ [Cassazione penale, sentenza n. 10379/2024]

 

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
In data 15.12.2020, il Tribunale di Lecce dichiarava (omissis) colpevole dei reati di cui agli artt. 424, 336 e 81 cpv. – 635 co. 2 n. 1 e, per l’effetto, riconosciuta la contestata recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale e unificate le condotte sotto il vincolo della continuazione, ridotta la pena per il rito, lo condannava alla pena di mesi dieci di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

La sentenza di primo grado. In data 22.8.2018, verso le ore 10.00, presso la Casa Circondariale di Lecce, l’addetto alla vigilanza, durante un giro di controllo, notava l’imputato andare in escandescenza colpendo ripetutamente, con un piede del tavolo precedentemente rotto, il water, il lavandino ed il televisore presenti nella sua camera detentiva, distruggendoli e gridando al contempo di voler essere trasferito in altro istituto penitenziario.

Il giorno successivo, nel corso di un altro giro di controllo, il preposto del reparto notava che dalla camera di pernottamento occupata dal (omissis) usciva del fumo.

Una volta allontanato il detenuto dalla cella, si riscontrava che lo stesso aveva dato fuoco al materasso in dotazione.

Immediatamente dopo, l’imputato tentava di colpire con un pugno l’agente, il quale riusciva a schivare il colpo grazie all’intervento del personale.

A quel punto, il prevenuto iniziava ad inveire contro i presenti pronunciando gravi minacce di morte, del tipo “vi ammazzo tutti se non vengo trasferito e vedete che a scannare le persone sono abituato”.

SÌ procedeva, pertanto, al suo allontanamento, trasferendolo in altra camera singola, non essendo idoneo all’isolamento in quanto soggetto “psichiatrico”.

I quattro agenti intervenuti dovevano fare ricorso alle cure mediche per “stato di nausea, vomito e cefalea in seguito a respirazione di fumi tossici”.

Dalla lettura degli atti estratti dalla cartella clinica carceraria relativi alle annualità 2012, 2015 e 2016 prodotti dalla difesa, emergeva che il Co. era stato più volte sottoposto a visita psichiatrica e colloqui psicologici, atteso il suo umore disforico, lo scarso controllo della propria impulsività ed il deficit delle sue funzioni cognitive, di critica e di giudizio.

Le condotte poste in essere dall’imputato, così ricostruite, conducevano il primo giudice a ravvisare la sussistenza degli elementi costitutivi dei reati di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, di danneggiamento seguito da incendio e di danneggiamento di cose esistenti in stabilimento pubblico allo stesso ascritti.

Avverso la citata sentenza, proponeva tempestiva impugnazione il difensore dell’imputato, articolando i seguenti motivi:

1. l’assoluzione dell’imputato da tutte le ipotesi delittuose contestategli con la formula ritenuta di giustizia o, quantomeno, ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.;

2. in subordine, la rideterminazione della pena inflitta mediante l’esclusione della contestata recidiva e la concessione delle circostanze attenuanti generiche.

In particolare, l’appello verteva su tre motivi:

a) Insussistenza dei reati di cui agli artt. 424 e 635 c.p.

Secondo la difesa, dagli atti di indagine non sarebbe emersa la prova della natura dolosa e volontaria del principio di incendio.

Non veniva compiuto alcun accertamento in merito, né rilevata la presenza di elementi indiziari che presentassero i requisiti richiesti dall’art. 192 c.p.p.

L’agente di polizia penitenziaria aveva implicitamente ma inequivocabilmente riconosciuto di non aver assistito alla scena del supposto appiccamento del fuoco, asserendo che il (omissis) lo avesse acceso volontariamente. Siffatta affermazione, tuttavia, sarebbe rimasta priva di elementi di supporto.

Parimenti, non rileverebbero le condotte asseritamente attuate il giorno precedente all’incendio e subito dopo l’uscita dalla cella. Esse, infatti, non avrebbero potuto assolutamente comprovare la volontarietà e, quindi, anche la natura dolosa di quel principio di incendio.

Inoltre, il primo giudice avrebbe totalmente omesso di valutare e valorizzare anche la grave compromissione psichica, costituita dal diagnosticato ritardo mentale, ampiamente documentata dalla relazione di sintesi e dalla cartella sanitaria prodotta all’udienza del 17.11.2020.

Di fatti, proprio siffatto deficit cognitivo, soprattutto in assenza di prove certe in ordine alla natura dolosa dell’incendio, avrebbe portato l’imputato a non adottare le regole di prudenza e diligenza tipiche dell’uomo medio nel l’utilizzo di strumenti potenzialmente idonei a scatenarlo.

Pertanto, non sarebbe stato provato dall’accusa il dolo specifico richiesto dall’art. 424 c.p., ovverosia il fine di danneggiare la cosa altrui. Né era onere della difesa dimostrare la natura accidentale e fortuita del principio di incendio.

Parimenti, con riferimento all’art. 635 c.p., non sarebbe emersa la prova della diretta percezione del supposto danneggiamento ed ancor meno della sua natura dolosa. A maggior ragione, ove si tenga conto del grave ritardo mentale che affliggerebbe il (omissis) e della circostanza che, i giorni in cui sarebbero avvenuti i fatti, l’imputato era in preda ad una crisi psichiatrica che aveva portato il medico a condurre per l’inidoneità all’isolamento e per l’indispensabilità dell’alta sorveglianza.

b) Insussistenza del reato di cui all’art. 336 c.p.

Con riferimento all’elemento materiale del reato, secondo l’appellante, la frase “vi ammazzo tutti se non vengo trasferito e vedete che a scannare le persone sono abituato” non avrebbe rilevanza penale.

Si tratterebbe, infatti, di una frase intrinsecamente ipotetica, generica, astratta e indeterminata.

E un’espressione decontestualizzata da qualsivoglia atto d’ufficio e finanche da qualsivoglia istanza del detenuto, in relazione alla quale potesse ravvisarsi il tentativo di coartare il potere del pubblico ufficiale.

È, altresì, genericamente ed astrattamente rivolta a una platea indeterminata di soggetti e non certo ad un pubblico ufficiale e men che meno ad uno in particolare.

Inoltre, predetta frase si connoterebbe per essere priva di qualsivoglia serietà, sfornita quantomeno di un’astratta probabilità per poter trovare concretizzazione, anche alla luce della personalità dell’autore della minaccia.

Proprio la grave compromissione psichica, anche ove non le si volesse attribuire valenza scriminante, costituirebbe, comunque, elemento da valutare e valorizzare ai fini dell’esatto accertamento del fatto.

La “cornice” patologica descritta suggella, ulteriormente, quell’assenza di serietà della minaccia.

Semmai, l’espressione proferita dal prevenuto avrebbe integrato l’ipotesi di una reazione genericamente minatoria sintomatica di sentimenti ostili, probabilmente verso l’ambiente carcerario, non rilevanti, però, ai fini dei requisiti richiesti dall’art. 336 c.p.; circostanza corroborata dal casellario giudiziale del (omissis) già condannato per atteggiamenti ostili verso il mondo carcerario.

c) In subordine, l’appellante chiedeva la riduzione della pena previa esclusione della contestata recidiva e concessione delle circostanze attenuanti generiche.

11 primo giudice avrebbe fondato entrambe le decisioni sul mero dato del casellario giudiziale, ignorando il fondamentale dato del comprovato disturbo d’adattamento che compromette seriamente la capacità di autodeterminazione e controllo degli impulsi da parte del (omissis).

Tale disturbo costituirebbe – di per se solo – elemento idoneo non soltanto alla mitigazione del trattamento sanzionatorio ma alla neutralizzazione della portata probatoria del casellario giudiziale, visto che la stragrande maggioranza delle iscrizioni sono sempre conseguenza delle gravi patologie psichiatriche che affliggono l’imputato.

L’appello è fondato soltanto con riferimento alla parte relativa al trattamento sanzionatorio e, pertanto, può trovare parziale accoglimento per le ragioni di seguito indicate.

Con riferimento ai primi due motivi di appello relativi alla sussistenza dei reati contestati, contrariamente all’assunto difensivo, la Corte, condividendo le argomentazioni addotte dal giudice di prime cure, reputa provata oltre ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità dell’imputato per i reati a lui ascritti.

A tal proposito, gli assunti difensivi sono confutati dalla stessa documentazione acquisita in virtù del rito prescelto.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, infatti, dalla lettura della relazione di servizio, emerge la piena prova che l’imputato abbia posto in essere le condotte contestate al fine di coartare la volontà dei pubblici ufficiali ed ottenere il trasferimento in altro istituto.

Pertanto, in assenza di prova contraria a supporto di una diversa ricostruzione dei fatti, deve ritenersi veritiero quanto riportato dagli agenti di polizia penitenziaria nella relazione di servizio, del cui contenuto e della cui ufficialità non vi è motivo di dubitare.

In particolare, è vero che il preposto, Ass. (omissis). non aveva assistito personalmente alla scena dell’appiccamento del fuoco, perché interveniva in un momento immediatamente successivo, attirato dal fumo che fuoriusciva dalla camera di pernottamento.

Deve, però, rilevarsi che egli era l’unico ad occupare quella cella, sicché il fatto non poteva essere ascritto ad altri.

Peraltro, il giorno precedente, il (omissis) era stato visto dall’Ass. (omissis) andare in escandescenza, colpendo ripetutamente, con un piede del tavolo precedentemente rotto, le suppellettili presenti nella sua camera detentiva, distruggendole.

Il detenuto, gridando, dichiarava di non voler andare in nessun’altra sezione e minacciava di continuare a spaccare tutto fino a quando non sarebbe stato trasferito in altro istituto penitenziario.

Le preannunciate azioni dolose e la mancanza di prova della natura accidentale dell’incendio (l’imputato non avrebbe mai spiegato in quale fortuito modo le fiamme avrebbero divampato. D’altro canto è difficile immaginare che il materasso, oggetto per sua natura non collegato a combustibili o ad oggetti atti a generare fuoco – quali fornelli – possa prendere fuoco in maniera accidentale) inducono a ritenere provato il contributo doloso dell’appellante.

A fronte di ciò, del tutto ininfluente è il fatto che l’imputato non fosse stato visto appiccare il fuoco.

Con riferimento, infine, alla sussistenza del reato di cui all’art. 336 c.p., non ricorrono possibili diverse interpretazioni della frase pronunciata dal (omissis). Li ammazzo tutti se non vengo trasferito e vedete che a scannare le persone sono abituato”, ove si consideri che, pochi istanti prima, egli stesso aveva cercato di colpire con un pugno l’Ass. (omissis).

Si tratta, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, di una frase tutt’altro che ipotetica, generica, astratta e indeterminata.

Non è un’espressione decontestualizzata da qualsivoglia atto d’ufficio e da qualsivoglia istanza del detenuto, evidente essendo il tentativo di coartare il potere dei pubblici ufficiali al fine di ottenere il trasferimento.

Non è, inoltre, genericamente ed astrattamente rivolta a una platea indeterminata di soggetti, in quanto i destinatati erano proprio gli operanti intervenuti.

Infine, predetta frase è tutt’altro che priva di qualsivoglia serietà, alla luce della tentata violenza fisica compiuta poc’anzi e della caratura criminale dell’imputato, soggetto tutt’altro che innocuo, già condannato per tentato omicidio, rapina e porto abusivo d’armi.

Sono ampiamente provate, pertanto, sia la sussistenza degli elementi materiali delle condotte contestate, che la sussistenza del dolo specifico.

Il (omissis), infatti, poneva in essere predette azioni al fine di essere trasferito in altro istituto penitenziario e non, come sostenuto dalla difesa, per generici motivi di ostilità e insofferenza verso l’ambiente carcerario.

Venendo ora al trattamento sanzionatorio, questa Corte ritiene di riconoscere le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulla contestata recidiva.

La condizione psicologica risultante dagli atti acquisiti su richiesta della difesa -se inidonea a fondare un giudizio di incapacità di intendere e volere dell’appellante al momento dei fatti – può essere valutata positivamente al fine del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, trattandosi di elemento che attenua il dolo.

Dalla lettura degli atti prodotti dalla difesa all’udienza del 17.11.2020, infatti, emerge una condizione di forte disagio psicologico del Co., connotato da umore disforico, scarso controllo della propria impulsività e deficit delle funzioni cognitive, di critica e di giudizio.

Tale condizione è verosimilmente aggravata dall’ambiente carcerario, verso il quale l’imputato ha manifestato più volte la propria avversione, ma ha radici ben più profonde, da ricercare nel difficile contesto familiare, sociale, economico e culturale in cui lo stesso è nato e cresciuto.

La valutazione di tali elementi induce ad una benevola mitigazione della pena inflitta che quindi sarà la seguente:

pb mesi sei di reclusione (nella stessa misura indicata dal primo giudice e coincidente con il minimo edittale), aumentata di mesi tre di reclusione per reato di cui al capo a) e di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo c), ridotta per il rito alla pena finale di mesi sette e giorni dieci di reclusione.

Il carico di lavoro giustifica la riserva della motivazione nel termine indicato in dispositivo.

P.Q.M.
Visto l’art. 605 c.p.p.,in riforma della sentenza del Tribunale di Lecce, in data 15.12.2020, appellata da (omissis), concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, ridetermina la pena in mesi sette e giorni dieci di reclusione.

Liquida con separato e contestuale decreto gli onorari spettanti al difensore dell’imputato, ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

Conferma nel resto l’impugnata sentenza.

Termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.

Così deciso in Lecce il 10 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 29 luglio 2024.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi