Massima

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p., non è necessario che sia impedita in concreto la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, indipendentemente dall’esito positivo o negativo di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un impedimento che ostacoli il compimento dei predetti atti.

 

Supporto alla lettura

RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale si configura quando una persona usa violenza o minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale, cioè colui che esercita una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Le prime due funzioni sono riferibili a parlamentari, consiglieri regionali e giudici; la funzione amministrativa, invece, è riferibile a tutti coloro che dipendono da una pubblica amministrazione (es. medici, cancellieri, docenti, carabinieri, poliziotti ecc.)

Caratteristica fondamentale del reato di resistenza a pubblico ufficiale è che l’atto di ufficio sia già iniziato e che la violenza o la minaccia sia contemporanea allo svolgimento dell’attività.

Perché il reato sia configurabile, è necessario che:

  • la condotta dell’imputato sia attiva: deve esserci un’azione concreta diretta a ostacolare il pubblico ufficiale;
  • l’atto sia intenzionale: l’accusato deve aver agito con la volontà di impedire o ostacolare il pubblico ufficiale;
  • il pubblico ufficiale sia in servizio e stia esercitando le sue funzioni: come un controllo stradale, un arresto o un’operazione di ordine pubblico.

In altre parole, la persona che si oppone al pubblico ufficiale o all’incaricato del pubblico servizio deve influire negativamente sulla libertà di movimento del pubblico funzionario.

Il Codice Penale prevede per questo reato una pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Se vi sono aggravanti, come l’uso di armi o l’aver causato lesioni al pubblico ufficiale, la pena può aumentare. Inoltre, se il reato viene commesso in concorso con altre persone, le sanzioni possono essere ulteriormente aggravate.

Esistono tuttavia circostanze attenuanti, che possono ridurre la pena, ad esempio:

  • se l’atto di resistenza è stato proporzionato e non ha provocato danni gravi;
  • se l’imputato ha agito in stato di necessità o legittima difesa;
  • se la condotta può essere ridimensionata rispetto all’accusa formulata.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza rubricata al n. 6341/23 del R.G. Sent., emessa in data 15/11/2023, il Tribunale penale di Bari, in composizione monocratica, ritenuto l’odierno imputato Pi.Ni. penalmente responsabile dei fatti ascrittigli in imputazione, lo aveva dichiarato colpevole dei reati di resistenza a pubblico ufficiale e oltraggio a pubblico ufficiale.

A tale decisione era giunto il primo giudice sulla scorta dell’istruttoria dibattimentale in aveva avuto luogo l’acquisizione, ai fini probatori, della (Omissis) – con alcune domande a chiarimento al teste CC Ar.Le. – e l’esame dell’imputato.

Procedendo alla ricostruzione dei fatti, nello specifico, in data 7.04 .2020, alle ore 19:30 circa, in Bari, militari della locale stazione CC “Bari Japigia” procedevano al controllo di alcuni cittadini fermati, in ordine sparso, in Piazza (Omissis).

Tra questi vi era l’odierno imputato, già noto all’Ufficio in quanto soggetto pluripregiudicato, il quale si dimostrava insofferente sin da subito al controllo dei militari tant’è che alla richiesta del motivo per cui si trovasse in piazza rispondeva “che vi interessa perché sto qua, io vado dove voglio”. I militari decidevano di effettuare anche una perquisizione personale, sulla scorta dei precedenti dell’imputato (armi e droga) dopo avergli chiesto ed ottenuto i documenti. Il Pi. però, tentava sin da subito di evitare la perquisizione dicendo “non mi potete perquisire per armi e droga io ho 4 figli e posso stare dove voglio vi deve venire a voi il coronavirus non solo addosso ma anche in testa, siete dei trimoni rivestiti di potere se vi prendo da soli uno ad uno vi faccio vedere io che vi combino, dovete fare una brutta fine, ti vengo a prendere, tanto sei uno normale”. Solo in seguito all’intervento di altri militari l’imputato si calmava lasciandosi così perquisire (cfr. annotazione dì servizio CC e verbale Stenot. ud. 3.5.23 teste CC Armenia Leonardo). Nel corso dell’esame, l’imputato dichiarava di avere esibito i documenti personali ai CC da loro richiesti e di essersi lasciato perquisire senza problema, negando minacce e non ricordando di frasi rivolte nei loro confronti (cfr. pagg. 5/7 verbale stenot. Ud. 14.6.23).

Alla luce dei fatti esposti dai CC nella loro annotazione di servizio, di cui non vi era ragione di dubitare in quanto chiari e privi di contraddizioni e non essendo emersi motivi di astio precedenti ai fatti in epigrafe tra i verbalizzanti e l’imputato, il giudice di prime cure valutava il Pi. responsabile dei reati a lui ascritti. Al contrario, la ricostruzione fornita dall’imputato appariva tutt’altro che chiara e contraddistinta da troppi “non ricordo ” sulle frasi rivolte ai CC. circostanze che lo rendevano poco credibile.

Per tali motivi il primo giudice riteneva il Pi. responsabile per il reato ex art.337 c.p. in ° quanto aveva rivolto frasi minacciose a dei P.U. per opporsi al compimento di un atto di servizio e ex art. 34) bis c.p. poiché aveva rivolto, sempre all’indirizzo dei citati militari, nel corso della sua perquisizione personale, frasi lesive del loro onore e prestigio, in luogo pubblico e alla presenza di altri cittadini.

Unificati i reati nel vincolo della continuazione e. riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, il Pi. veniva condannato alla pena di anni uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Avverso la sentenza, come descritta in epigrafe, con atto depositato nei termini in data 14/03/2024, ha presentato appello l’avv. Massimo De Iullis, quale difensore di fiducia di Pi.Ni.

La difesa chiedeva:

1) riformare hi sentenza di primo grado e le conclusioni ivi rassegnate e dichiarare la nullità delta medesima per violazione del disposto di cui all’art. 546 c.p.p. comma 1 lettera e) punto 1).

2) riformare la sentenza di primo grado e le conclusioni ivi rassegnate e dichiarare l’assoluzione dell’imputato dal capo di imputazione per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato ex art. 530 c.p.p. o in subordine ex art. 530 cpv c.p.p. perché la prova è insufficiente, contraddittoria o mancante;

3) riformare la sentenza di primo grado e le conclusioni ivi rassegnate e, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, considerare il minimo della pena per i! reato più grave e successivamente effettuare un unico aumento per la continuazione, cosi da quantificare una pena finale inferiore rispetto a quella in sentenza;

4) in estremo subordine affermare il riconoscimento di una condanna a pena sostitutiva, atteso che ricorrono tutte le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive ex art. 35 delia L. 24.11.1981 n.689. prestando il consenso alla sostituzione.

Air odierna udienza del 19.02.2025. svoltasi con trattazione orale su istanza della difesa, era assente l’imputato.

Raccolte le conclusioni delle parti nei termini riportati in epigrafe, la Corte si riuniva in camera di consiglio e procedeva alla decisione come da dispositivo e contestuale motivazione.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

 

Ritiene questa Corte che le doglianze difensive siano infondate e perciò da rigettare per le ragioni di seguito esplicitate.

Con il primo motivo di appello la difesa chiedeva di dichiarare la nullità delia sentenza per violazione del disposto di cui all’art. 546 c.p.p. comma 1 lettera e) punto 1.

Recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha stabilito come la mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione, non determina automaticamente la nullità della sentenza d’appello per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606. comma 1, lett. e), cod. proc. pen., neppure alla luce dell’art. 546 cod. proc. pen., così come riformato dalla legge n. 103 del 2017, se tali prove non risultano decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato per relationem dalla lettura della motivazione. (In motivazione, la Corte ha precisato che la riforma, ad opera della legge indicata, dell’art. 546 cod. proc. pen., che disciplina i requisiti della sentenza, non ha eliso la possibilità per il giudice dell’impugnazione di motivare la sentenza per relationem).1 Nel caso di specie, non vi sono né sono state indicate dall’appellante “Prove contrarie” di cui si lamenta l’omessa motivazione. Ove il gravame intenda riferirsi alle dichiarazioni rese dal Pi. la sentenza contiene specifica motivazione poiché il giudice di primo grado riteneva la ricostruzione dei fatti proposta dall’imputato tutt’altro che chiara in quanto contraddistinta da troppi “non ricordo” sulle frasi da questi rivolte all’indirizzo dei CC; la difesa non allegava, neppure nell’atto di appello, prove contrarie atte a ricostruire alternativamente la vicenda, oltre quanto dichiarato dall’imputato in sede di esame. Appare invece priva di dubbi la versione esposta dai militari nella loro annotazione di servizio poiché chiara e priva di contraddizioni. Non sussiste dunque la dedotta nullità.

Con il secondo motivo di appello la difesa chiedeva di assolvere l’imputato per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato ex art. 530 c.p.p., o in subordine ex art. 530 cpv c.p.p. perché la prova è insufficiente, contraddittoria o mancante. Occorre preliminarmente evidenziare come con l’atto d’appello in realtà non si contesti la materiale attribuibilità del fatto all’imputato, che si ritiene pacifica. Contrariamente a quanto addotto dalla difesa, la condotta del PIPERIS integra il reato ex art. 337 c.p. che punisce chiunque usa violenza o minaccia per opporsi ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza. Ai fini della configurabilità del reato de quo la giurisprudenza di legittimità ha spiegato come non sia neppure necessario che sia impedita in concreto la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento dì un atto di ufficio o di servizio, indipendentemente dall’esito positivo o negativo di tale azione e dall’effettivo verificarsi dì un impedimento che ostacoli il compimento dei predetti atti (Cass. Sez. 6 Sentenza N. 2104/2021). Le frasi ingiuriose poi, “non mi potete

1 Sez. 3, Sentenza n. 8065 del 21/09/2018 Ud. (dep. 25/02/2019) Rv. 275853 -01 Defendant: C. perquisire per anni e droga io ho 4 figli e posso stare dove voglio., vi deve venire a voi il coronavirus non solo addosso ma anche in testa…siete dei trimoni rivestiti di potere se vi prendo da soli uno ad uno vi faccio vedere io che vi combino, dovete fare una brutta fine, ti vengo a prendere, tanto sei uno normale ” proferite dal Pi. avevano come unico obiettivo intralciare la regolarità del completamento dell’attività d’ufficio.

La condotta del Pi. inoltre integra a pieno la fattispecie del concorso formale di reati ex art, 81 ci c.p. con figurabile nella condotta di chi. nel medesimo contesto fattuale, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio (Cass. Sez. LI. Sentenza n. 40981 del 22/02/2018). Le stesse condotte, consistite nelle espressioni sopra indicate (“siete dei trimoni”). rivolte agli operanti per sminuirne l’operato e l’autorità integrano il reato ex art. 341 bis c.p. che punisce chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni o non ad un fantomatico “slang” in uso a soggetti come l’imputato, come eccentricamente proposto della tesi difensiva. Al pari del termine “pirla”, l’espressione pugliese di “trmone” è offensiva della dignità della persona. Sul punto la Suprema corte ha chiarito che l’uso di espressioni linguistiche oggettivamente offensive, del tutto pretestuose e sovrabbondanti rispetto allo scopo che in tesi l’autore si era prefissato, con l’uso di termini quale “pirla” o similari integrano un insulto lesivo del decoro e dell’onore della persona cui è rivolto). Si è trattato di un attacco ingiustificato alla persona offesa, volto ad esporre alla censura e al ludibrio la sua immagine pubblica e al disprezzo la sua persona (v. cass. Sez. 5 Penale Sent. Num. 18481 22/03/2023).

Come stabilito dalla recente giurisprudenza il reato di oltraggio ex art. 341 bis c.p. non è assorbito ma concorre con il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, anche qualora la condotta offensiva sia finalizzata allo scopo di opporsi all’azione del pubblico ufficiale, in quanto la condotta ingiuriosa non è elemento costitutivo del reato previsto dall’art. 337 c.p. (Cass. Sez.6 Sentenza N. 39980 del 17.05.2018). Il motivo proposto è così da rigettare.

Con il terzo motivo di appello, in via gradata, la difesa dell’imputato chiedeva la concessione delle circostanze attenuanti generiche ex art.62 bis c.p., prevalenti sulla contestata recidiva, considerare ii minimo della pena per il reato più grave e successivamente effettuare un unico aumento per la continuazione, così da quantificare una pena finale inferiore rispetto a quella in sentenza.

Occorre rilevare come il giudice di prime cure si sia già attenuto ai minimi edittali ex art. 133 c.p. alla luce della gravità del fatto commesso e alla finalità di reale risocializzazione perseguite dal vigente orientamento costituzionale. La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in prevalenza rispetto alla contestata recidiva è desunta dalla personalità dell’imputato, soggetto gravato da plurimi precedenti penali, tra cui una condanna per reato di stessa indole; la prevalenza non può essere concessa per il divieto di cui all’art.69 co. 4 c.p.

Il terzo motivo è così da rigettare.

Con il quarto motivo di gravame la difesa chiedeva il riconoscimento di una condanna a pena sostitutiva, atteso che ricorrono tutte le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive ex art. 35 della L. 24.11.1981 n. 689.

Il motivo è da rigettare in considerazione della personalità dell’imputato il quale risulta gravato da molteplici precedenti penali e non fornisce alcuna garanzia del rispetto delle prescrizioni.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Bari. Prima Sezione Penale, letto l’art. 605 c.p.p. conferma la sentenza emessa dal Tribunale di Bari in composizione monocratica in data 15.11.2023. appellata dall’imputato Pi.Ni., che condanna al pagamento delle ulteriori spese processuali di questo grado del giudizio.Motivazione contestuale.

Così deciso in Bari il 19 febbraio 2025.

Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2025.

Allegati

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