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Consiglio di Stato sez. VI, 15/04/2024, n.3427

Massima

La c.d. fiscalizzazione dell’abuso non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione, in quanto trattasi di un sub-procedimento che assume rilievo nella successiva fase di esecuzione della stessa, come chiarito da consolidata giurisprudenza.

Supporto alla lettura

ORDINANZA DI DEMOLIZIONE

L’ordinanza di demolizione (o ingiunzione di demolizione), rappresenta un atto amministrativo mediante il quale il Comune, ordina la demolizione di un edificio non autorizzato, realizzato in modo abusivo o non conforme alla normativa edilizia vigente.

Nell’ambito delle pratiche abusive nel settore edilizio, vi sono diverse tipologie di infrazioni che possono portare all’emissione di un’ordinanza di demolizione:

  • lottizzazione abusiva: divisione di terreni in lotti edificabili senza autorizzazione;
  • lavori eseguiti senza permesso o in difformità edilizia: casi in cui vengono eseguiti lavori edilizi senza ottenere il permesso necessario o in totale difformità da esso senza rispettare la normativa vigente;
  • interventi abusivi su terreni pubblici: interventi eseguiti su terreni di proprietà pubblica senza autorizzazione, che compromettono l’utilizzo corretto del territorio destinato a fini pubblici;
  • difformità delle norme urbanistiche: qualsiasi intervento edilizio realizzato in difformità dalle norme urbanistiche e dai piani regolatori vigenti;
  • violazione di vincoli edilizi: opere eseguite in violazione dei vincoli edilizi imposti da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche, che possono riguardare la destinazione d’uso del terreno, il rispetto di zone inedificabili o la salvaguardia di aree di particolare interesse storico o ambientale.

Secondo quanto stabilito dall’art. 31 del D.P.R. 380/01, è compito del dirigente o del responsabile dell’ufficio comunale esercitare il potere di vigilanza sull’attività urbanistica ed edilizia. Dopo aver accertato l’abuso edilizio, il Comune emette un’ordinanza di demolizione, pubblicata sul sito istituzionale e comunicata anche al Prefetto.

Il destinatario ha 60 giorni per impugnare l’ordinanza davanti al T.A.R. o presentare una richiesta di sanatoria. Se non viene avviato alcun procedimento di sanatoria nei 90 giorni successivi, la Polizia Municipale verifica l’adempimento dell’ordinanza.

Data la natura dell’ordinanza, che impone la demolizione entro 90 giorni e il cui termine, se non prorogato, porta alla confisca automatica del bene, la fase cautelare durante il processo di impugnazione riveste un ruolo fondamentale, infatti, il decorso dei 90 giorni previsti dalla legge, può essere interrotto solo mediante sospensione decisa dal giudice amministrativo su richiesta della parte ricorrente. Questa sospensione congela il termine e impedisce la confisca automatica del bene non demolito.

L’ordinanza di demolizione non sempre viene immediatamente eseguita, e ciò può determinare una serie di implicazioni e difficoltà di cui è essenziale essere consapevoli. Una delle prime conseguenze che possono manifestarsi in caso di mancata esecuzione dell’ordine di demolizione è l’applicazione di sanzioni pecuniarie. Inoltre, secondo quanto sancito dall’art. 31 comma 3 del D.P.R. 380/01, se il responsabile dell’abuso non demolisce conripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni dalla notifica, il bene e l’area su cui è stato costruito illegalmente diventano proprietà gratuita del Comune.

In caso di accertamento di inottemperanza, ossia se l’abuso edilizio non viene rimosso entro il termine di 90 giorni fissato dall’ordinanza demolitoria, le sanzioni pecuniarie previste dal D.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia) possono variare da 2.000 a 20.000 euro.

Dopo aver ricevuto l’ordine di demolizione, è possibile presentare un’istanza di sanatoria per l’abuso edilizio (o accertamento di conformità), per ottenere il permesso di costruire in sanatoria o per richiedere la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA in sanatoria) o la CILA tardiva.

L’istanza di sanatoria può essere presentata anche se è già stato presentato un ricorso al Giudice Amministrativo contro l’ordine di demolizione, entro un termine di 60 giorni dalla notifica del provvedimento. In questo caso, l’ordine di demolizione viene temporaneamente sospeso in attesa del completamento del nuovo e separato procedimento relativo alla sanatoria dell’abuso edilizio.

Le situazioni in cui un’ordinanza di demolizione può decadere sono le seguenti:

  • se l’ordine di demolizione risulta sproporzionato rispetto alla gravità dell’abuso commesso;
  • se è in corso un processo di regolarizzazione (sanatoria), la demolizione può essere sospesa e poi annullata;
  • in casi in cui il ripristino dello stato originario risulta impossibile senza danneggiare irreparabilmente la parte dell’edificio costruita correttamente (fiscalizzazione dell’abuso edilizio

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
1. (omissis) e (omissis), comproprietari nel comune di Montenero di Bisaccia di un terreno catastalmente identificato al foglio (omissis), sul quale è stato realizzato un fabbricato residenziale di tre piani fuori terra (piano pilotis, piano primo e piano secondo sottotetto), ora identificato catastalmente dalla particella (omissis), avevano ottenuto un permesso di costruire n. 04/14-2018 del 29 luglio 2011 per il condono di alcune opere abusive dagli stessi realizzate su tale manufatto in difformità dal titolo edilizio concessorio del 1991.

Si trattava, in particolare, di opere consistenti nella modifica dei prospetti e degli aggetti esterni, nella modifica di gradinate di accesso ai piani superiori, nella modifica della distribuzione degli spazi interni, nonché nella realizzazione di un piano sottotetto costituito da due unità immobiliari.

1.1 Con sentenza n. 100 del 2017 il T.A.R. per il Molise ha annullato il citato permesso di costruire a condono del 29 luglio 2011, nonché gli atti connessi e, in particolare, i pareri paesaggistici rilasciati dalla Soprintendenza e dalla Regione Molise, sul presupposto che si trattava di abusi realizzati su area sottoposta ex lege a vincolo paesaggistico, quindi non condonabili.

La pronuncia è stata successivamente confermata con sentenza di questo Consiglio n. 2577 del 2018 che ha chiarito, in punto di fatto, che “deve ritenersi provato che l’immobile interessato dagli interventi abusivi insiste su area vincolata paesaggisticamente, in quanto prossima alla riva del mare, e che trattasi di vincolo preesistente alla realizzazione dell’intervento. Ciò si desume, indirettamente, dal fatto che tutti gli interventi che hanno negli anni interessato l’area sono munti di parere di compatibilità ambientale, tanto è vero che anche in riferimento alla pratica di condono oggetto di causa, è stato richiesto ed ottenuto (seppur illegittimamente) il relativo parere di compatibilità paesaggistica”.

1.2 Preso atto delle predette pronunce e del definitivo venir meno del permesso di costruire a condono, con una prima ordinanza (n. 37 del 19 novembre 2018) il Comune di Montenero di Bisaccia ha quindi ordinato ai predetti la demolizione delle opere realizzate in difformità dal titolo edilizio del 1991.

Detta ordinanza di demolizione è stata impugnata da (omissis) con ricorso straordinario al Capo dello Stato, non coltivato tuttavia in sede giurisdizionale a seguito di opposizione da parte del controinteressato.

1.3 Preso atto del consolidamento degli effetti della prima ordinanza demolitoria, con una seconda ordinanza (la n. 39 del 3 settembre 2020) il Comune ha successivamente reiterato l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi in conformità all’originario titolo edilizio.

2. Con ricorso notificato il 21 ottobre 2020 e depositato il 6 novembre 2020 Ce. To. e Lu. To. hanno impugnato dinanzi al T.A.R. per il Molise la prefata ordinanza di demolizione n. 39 del 3 settembre 2020 chiedendone l’annullamento.

2.1 A sostegno del ricorso di primo grado hanno dedotto le censure così rubricate:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell’art. 873 c.c., della L. n. 241/1990, della L. n. 1150/1942, del D.lgs. 42/2004, del DPR 380/2001, del P.R.G. comunale;

2) violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del Trattato UE e dell’art. 1 del protocollo in tema di tutela della proprietà privata allegato alla convenzione europea dei diritti dell’uomoCEDU;

3) eccesso di potere per sviamento, illogicità, contraddittorietà, contrasto con precedenti manifestazioni di volontà, travisamento di fatto, erronea rappresentazione della situazione di fatto e di diritto, difetto di motivazione, carenza d’istruttoria, ingiustizia manifesta, illegittimità derivata.

3. Ad esito del relativo giudizio il T.A.R. adito, assorbite le eccezioni preliminari proposte dalle parti convenute, ha respinto il ricorso.

4. Con ricorso notificato il 17 novembre 2021 e depositato il 18 novembre 2021, (omissis) hanno proposto appello avverso tale sentenza chiedendone la riforma.

5. Nelle date, rispettivamente, del 17 dicembre 2021 e del 14 gennaio 2022, si sono costituiti in giudizio, per resistere avverso l’appello, (omissis) ed il Comune di Montenero di Bisaccia.

6. In data 19 febbraio 2024 gli appellanti e (omissis) hanno depositato memorie difensive.

La difesa di (omissis) ha, in limine, riproposto le eccezioni di inammissibilità ed improcedibilità già sollevate nell’ambito del primo giudizio, deducendo che:

– il Comune di Montenero di Bisaccia, con ordinanza n. 37/2018, ha emesso un’ordinanza di demolizione avente il medesimo contenuto dell’ordinanza n. 39/2020 impugnata in prime cure;

– avverso l’ordinanza di demolizione n. 37/2018, in data 25 marzo 2019, è stato promosso ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ritualmente opposto e non riassunto;

– ciò avrebbe costituito acquiescenza dell’odierna parte appellante rispetto all’ordinanza di demolizione in questa sede impugnata;

– in conseguenza dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 37/2018 divenuta inoppugnabile si sarebbe verificata l’acquisizione ex lege al patrimonio comunale delle opere abusive realizzate, con conseguente perdita, da parte del trasgressore (in quanto non più titolare del bene abusivo), della legittimazione a proporre qualsivoglia istanza relativamente a tale compendio.

7. Nelle date del 28, 29 febbraio e 1 marzo 2024 le parti hanno depositato memorie in replica.

Anche il Comune appellato ha eccepito l’inammissibili/irricevibilità dell’azione poiché non è stato riassunto, a seguito di opposizione, il detto ricorso straordinario.

8. All’udienza pubblica del 21 marzo 2024 la difesa di parte appellante, in corso di discussione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione. La causa è stata, quindi, introitata per la decisione.

Diritto
1. L’appello è infondato e va respinto.

Tanto consente di ritenere assorbite, in applicazione del criterio della ragione più liquida, le eccezioni in rito sollevate dagli appellati.

2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha respinto il primo motivo d’impugnativa, ritenendo inapplicabile l’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 in zone vincolate.

Secondo parte appellante il T.A.R. avrebbe frainteso detta doglianza la quale sarebbe stata riferita solo all’aspetto edilizio della questione e con cui sarebbe stata contestata l’ingiunzione di demolizione dell’intero fabbricato pur avendo accertato il Comune le opere come eseguite in difformità e non già senza titolo od in variazione essenziale.

2.1 La censura appare mal calibrata.

Il giudice di primo grado bene ha colto la portata del motivo di impugnazione proposto in primo grado chiarendo opportunamente che la demolizione ingiunta non riguarda l’intero fabbricato ma solo le parti abusive rispetto all’originario titolo concessorio.

Non si ravvisa, peraltro, nell’ordinanza impugnata la lamentata contraddizione posto che, pur avendo la stessa accertato lievi difformità, ha ad oggetto un bene pacificamente ricadente in zona vincolata (come pure accertato con sentenza di questo Consiglio n. 2577 del 2018) sicché trova applicazione il disposto dell’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui gli interventi di cui al comma 1 della medesima disposizione, “effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico, ambientale e idrogeologico, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44”.

3. Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha dichiarato inammissibile il secondo motivo di ricorso relativo alla violazione delle distanze legali in quanto aspetto non trattato dal provvedimento impugnato.

Osserva, sul punto, parte appellante che l’ordinanza di demolizione gravata in primo grado richiama espressamente le sentenze del T.A.R. per il Molise n. 100/2017 e del Consiglio di Stato n. 2577/2018, che hanno annullato il condono edilizio del 2011 accertando anche la violazione delle distanze prescritte dal piano particolareggiato del 2006 allora vigente, con la conseguenza che tale aspetto verrebbe ad integrare in modo esplicito la motivazione provvedimentale.

Tanto chiarito parte appellante deduce nuovamente che:

– tale piano particolareggiato del 2006 risulta decaduto e non più efficace per decorso del termine legale di validità scadente nel 2019, anche volendo considerare la proroga legale automatica per effetto dell’art. 30, comma 3- bis, della l. n. 98/2013;

– la nuova ordinanza di demolizione del 2020, successiva alla decadenza del suddetto piano, avrebbe dovuto valutare ab origine il rispetto della disciplina delle distanze secondo la legge applicabile, oggi individuata nel solo art. 873 c.c. (nel silenzio del P.R.G. e del regolamento edilizio in merito) che prescrive il rispetto della distanza minima tra costruzioni di 3 metri, ossia 1,50 metri a carico di ciascuna delle due proprietà coinvolte, per cui, nel caso in esame, posto che l’edificio degli appellanti si troverebbe a circa 2,50 metri dal confine di proprietà, non è in alcun modo irregolare;

– ciò avrebbe reso necessario un ulteriore approfondimento istruttorio che prendesse atto della nuova situazione regolamentare venutasi a determinare, in relazione alla sopravvenuta decadenza del piano particolareggiato del 2006.

3.1 Anche la censura in esame non coglie nel segno.

In disparte dall’assorbente rilievo che l’ordinanza gravata non prende in considerazione in alcun modo, neppur implicitamente, il tema delle distanze legali (sicché parte appellante non pare in condizione di trarre alcuna concreta utilità dall’accoglimento della lagnanza in scrutinio), è sufficiente evidenziare che l’originaria ordinanza di demolizione n. 37 del 19 novembre 2018 (di cui la successiva ordinanza di demolizione n. 39 del 3 settembre 2020 ha costituito mera reiterazione) non si è fondata sul riscontro della loro violazione ma, come più volte ribadito, in via esclusiva ed autosufficiente, sulla accertata difformità rispetto al permesso di costruire a suo tempo assentito.

4. Con il terzo motivo di appello si censura, sotto altro profilo, la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha escluso la possibilità di applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 nelle zone vincolate, ritenendo inoltre come l’impatto delle modifiche apportate sia rilevante rispetto al contesto paesaggistico tutelato ed escludendo affidamenti ingenerati dal precedente parere paesaggistico del 2008, anch’esso annullato dal giudice amministrativo unitamente al condono edilizio del 2011.

Osserva, in proposito, parte appellante che il giudice di prime cure avrebbe dato un’interpretazione rigida e formalistica dell’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 che, al contrario, se letto nel combinato disposto con le norme di tutela paesaggistica ex artt. 146 e 167 del d.lgs. n. 42/2004, potrebbe prestarsi ad essere interpretato in senso estensivo in caso di interventi, come quelli in esame, che sono obiettivamente inidonei a provocare un vulnus al contesto tutelato.

Si aggiunge che, seppur la sentenza del giudice amministrativo del 2018 passata in giudicato sembrerebbe aver annullato anche il parere paesaggistico del 2008 reso sul condono edilizio del 2011, ciò non significherebbe affatto che il giudizio di compatibilità paesaggistica delle opere in questione ivi trasfuso debba ritenersi automaticamente anch’esso travolto dalle dette pronunce.

Si sostiene, pertanto, che una ragionevole interpretazione dell’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, in combinato disposto con l’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, condurrebbe a ritenere che lavori eseguiti in parziale difformità rispetto al progetto assentito possano essere ricondotti nell’alveo applicativo del successivo art. 34 se è dimostrato, come accaduto nella vicenda odierna, che tali opere sono compatibili paesaggisticamente con il contesto tutelato.

Diversamente opinando si finirebbe per ordinare la demolizione di un’opera che potrebbe essere poi riedificata tale e quale, il che nuovamente appare contrario ai principi di proporzionalità ed adeguatezza dell’azione amministrativa.

Nel dettaglio, si deduce che le opere in questione sono chiaramente indicative di una lieve parziale difformità:

– non avrebbero introdotto alcun cambio d’uso rispetto a quanto autorizzato, avendo semplicemente apportato una redistribuzione interna degli spazi al piano primo e secondo con una lieve ed impercettibile modifica delle facciate e dei prospetti ed aggiunta di una scala esterna, sicché alcun rilevante aumento di volumetria si sarebbe verificato avendo compensato il maggior volume dello spazio coperto del terrazzo con la diminuzione delle altezze alle quote di gronda;

– la traslazione dell’edificio sarebbe lieve e comporterebbe solo uno slittamento parziale verso il confine, ma non viola le distanze ex art. 873 c.c., le uniche oggi rilevanti dopo la decadenza del piano particolareggiato ed anche considerando che il Comune di Montenero di Bisaccia non ha mai acquisito al demanio comunale la strada laterale;

– la tipologia dell’intervento rimarrebbe la medesima di quanto autorizzato, trattandosi sempre di una palazzina residenziale con vari appartamenti.

4.1 La censura non coglie nel segno.

Ad apparire in radice mal calibrato è, in particolare il richiamo all’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.

In disparte dalla sussistenza o meno delle sue condizioni di operatività (invero non sussistenti per ciò che si è detto supra al punto 2.1), la consolidata giurisprudenza anche di questa Sezione ha, infatti, da tempo chiarito che la c.d. “fiscalizzazione” dell’abuso non condiziona la legittimità della ordinanza di demolizione, trattandosi di sub-procedimento che assume rilievo nella successiva fase di esecuzione della stessa.

In particolare, si è condivisibilmente affermato che “L’applicabilità della sanzione pecuniaria può essere decisa dall’Amministrazione solo nella fase esecutiva dell’ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico. La valutazione, cioè, circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire. Con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell’ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l’accertamento delle conseguenze derivanti dall’omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell’incidenza della demolizione sulle opere non abusive” (così ex multis Cons. Stato, sez. VI , 10/12/2021 , n. 8240; in termini anche Cons. Stato, sez. II, 8 ottobre 2020, n. 5985 e Cons. Stato, sez. VI, n. 4855 del 2016).

Tanto depriva, peraltro, di rilevanza la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 per violazione degli artt. 3 e 97 Cost., sollevata per la prima volta da parte appellante nel corso dell’udienza di discussione del 21 marzo 2024.

5. Con il quarto motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha ritenuto inapplicabile al caso in esame l’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001 in quanto tale norma si riferirebbe solo alle ipotesi di esercizio dell’autotutela amministrativa e non già ai casi di annullamento giudiziale del titolo in sanatoria.

Secondo parte appellante detta statuizione sarebbe errata in quanto:

– la lettera della norma dispone la possibilità di ricorrere all’istituto della fiscalizzazione dell’abuso nei casi di annullamento del titolo senza specificare se la rimozione dello stesso si configuri nell’ambito di un procedimento amministrativo di autotutela piuttosto che giudiziale con sentenza di annullamento;

– l’istituto in esame non distingue tra titolo originario o in sanatoria, trattandosi pur sempre di atti abilitanti l’edificazione, ma mirerebbe unicamente a salvaguardare l’affidamento del privato sulla regolarità delle opere assentite.

5.1 La doglianza è priva di giuridico pregio.

E, infatti, anche prescindendo dalla specifica questione sollevata da parte appellante in ordine alla latitudine operativa della disposizione, è sufficiente fare applicazione dell’insegnamento espresso dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 17 del 2020) a mente del quale, ancor più in radice, “i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”, e non anche quelli di carattere sostanziale, come quello che viene in rilievo nel caso di specie (id est l’accertata difformità rispetto al titolo edilizio rilasciato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico).

Con la conseguenza, per quanto qui interessa, che la statuizione resa sul punto dal giudice di prime cure appare, in ogni caso, nella sostanza, corretta.

6. Per le ragioni sopra esposte l’appello è infondato e va respinto.

7. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. la soccombenza e sono da porre integralmente a carico di parte appellante.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.Condanna gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento, a titolo di spese processuali, in favore di (omissis) e del Comune di Montenero di Bisaccia, in persona del Sindaco pro tempore, in misura della metà per ciascuno, della somma complessiva di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre gli accessori di legge (se dovuti).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2024 con l’intervento dei magistrati:

(omissis)

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 15 APR. 2024.

Allegati

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