Massima

È illegittimo l’atto amministrativo del Ministero della Giustizia che, in assenza di una specifica determinazione in tal senso del Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.), dispone unilateralmente la cessazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano e l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali in capo a un magistrato ordinario confermato in collocamento fuori ruolo per l’assunzione di un incarico presso un organismo dell’Unione europea.

Supporto alla lettura

ATTO AMMINISTRATIVO

Si tratta di un atto giuridico posto in essere da un’autorità amministrativa nell’esercizio di una sua funzione amministrativa. Espressione di un potere amministrativo, produttivo di effetti indipendentemente dalla volontà del soggetto o dei soggetti cui è rivolto, è:

  • unilaterale;
  • esterno;
  • nominativo.

Si distinguono i suoi requisiti in:

  • requisiti di legittimitàla cui mancanza comporta l’annullabilità dell’atto amministrativo;
  • requisiti di efficacia: necessari invece perché l’atto produca concretamente i suoi effetti.

Un atto amministrativo, generalmente, presenta una struttura formale composta da:

  • intestazione (autorità da cui emana l’atto); errore o mancanza: irregolarità
  • preambolo (contiene le norme di legge e gli articoli in base ai quali l’atto è stato adottato); errore o mancanza: illegittimità
  • motivazione (valuta comparativamente gli interessi, indicando le ragioni per le quali si preferisce soddisfare un interesse in luogo di un altro); errore o mancanza: illegittimità
  • dispositivo (è la parte precettiva, che costituisce l’atto di volontà della pubblica amministrazione)
  • luogo; errore o mancanza: irregolarità
  • data; errore o mancanza: irregolarità
  • sottoscrizione (firma dell’autorità che emana l’atto o di quella delegata).

Rispetto al contenuto dell’atto amministrativo si distinguono invece elementi:

  • essenziali: la cui mancanza determina la nullità dell’atto amministrativo, mentre la mancanza di un requisito determina l’annullabilità dell’atto amministrativo, cioè la possibilità che sia annullato, su istanza di parte o d’ufficio da parte della Pubblica Amministrazione;
  • accidentali: applicabili soltanto agli atti amministrativi negoziali; infatti rispetto agli atti amministrativi gli elementi accidentali non hanno ragion d’essere. Devono essere possibili e leciti, quelli accidentali illeciti o impossibili non comportano la nullità o l’annullabilità dell’atto amministrativo, ma si considerano come non apposti;
  • naturali: si considerano sempre inseriti nell’atto, anche se non apposti espressamente, in quanto previsti dalla legge per il tipo astratto di atto.

Un atto amministrativo può essere invalido perché contrario a norme giuridiche, e allora si tratta di un atto amministrativo illegittimo, oppure perché è contrario al principio costituzionale della buona amministrazione (art. 97 Cost.), e allora si tratta di un atto amministrativo inopportuno. L’atto illegittimo può essere viziato in modo più o meno grave, dando luogo a due categorie di invalidità degli atti amministrativi:

  • atto nullo: se c’è incompetenza assoluta (es. colui che ha emanato l’atto non aveva potere di farlo); manca uno degli elementi essenziali (es. inesistenza o indeterminabilità del soggetto o dell’oggetto, illegittimità del contenuto, mancanza di finalità intesa come interesse pubblico, ecc.); violazione o elusione del giudicato (es. quando il nuovo atto emanato dalla pubblica amministrazione, a seguito di sentenza, riporta i medesimi vizi già censurati, ovvero tenti di aggirare il giudicato);
  • atto annullabile: quando c’è incompetenza relativa (es. l’organo che ha emanato l’atto è competente, ma non colui che se ne è occupato perché inferiore gerarchicamente a chi ne aveva il potere); violazione di legge (es. l’atto va contro una legge dello Stato); eccesso di potere (es. disparità di trattamento, illogicità della motivazione, ingiustizia manifesta, ecc.).

La differenza tra le due categorie sta nel fatto che l’atto amministrativo annullabile perde efficacia se la parte che ne ha diritto chiede e ottiene l’annullamento, quello nullo è privo di efficacia sin da quando nasce.

Ambito oggettivo di applicazione

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9870 del 2011, proposto dal dottor (omissis), rappresentato e difeso dall’avvocato (omissis), con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (omissis),

contro

il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12,

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. (omissis), resa tra le parti, concernente la cessazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano con l’obbligo di versare l’importo dei contributi e delle trattenute previdenziali a seguito di nomina quale Garante europeo aggiunto per la protezione dei dati.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2019 il Cons. (omissis) e uditi per le parti l’avvocato (omissis) e l’Avvocato dello Stato (omissis);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Il dott. (omissis), magistrato ordinario, collocato fuori ruolo in quanto Segretario generale dell’Autorità per il trattamento dei dati personali, a seguito della partecipazione alla procedura di selezione, indetta ai sensi dell’art. 42 del Regolamento 45/01 e dell’art. 3 della decisione 1247/CE del 1° luglio 2002, con atto del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 14 gennaio 2009, è stato nominato Garante europeo aggiunto per la protezione dei dati.

Per il compimento di tale incarico, di durata quinquennale, il Consiglio superiore della magistratura con delibera del 14 gennaio 2009, ha confermato il collocamento fuori ruolo, senza disporre alcunché in ordine al trattamento economico del magistrato.

Con decreto del Ministro della giustizia del 15 febbraio 2009 è stata disposta la conferma del fuori ruolo, sulla base della delibera del Consiglio superiore. Neppure il decreto del Ministro ha disposto nulla in ordine al trattamento spettante al magistrato.

Il 26 febbraio 2009, il Direttore generale della Direzione Magistrati del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del Personale e dei Servizi del Ministero della Giustizia, con atto comunicato con nota del 27 aprile 2009, facendo riferimento alla decisione CE 1247/2002, con cui “il Parlamento europeo, il Consiglio dell’Unione europea e la Commissione hanno fissato di comune accordo lo statuto e le condizioni generali di esercizio delle funzioni di garante europeo per la protezione dei dati e di garante aggiunto, in particolare la retribuzione, le indennità e il trattamento di quiescenza, equiparando il garante europeo e il garante aggiunto rispettivamente ad un giudice e alla cancelliere della Corte di Giustizia UE, con attribuzione ad entrambi del medesimo trattamento economico”, ha disposto la cessazione del trattamento economico prima erogato in favore del dott. -OMISSIS-a carico dello Stato italiano con obbligo di versamento dei contributi previdenziali a carico del magistrato.

Avverso tale atto è stato proposto ricorso davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio formulando le seguenti censure:

– violazione di legge ed eccesso di potere; insufficienza e contraddittorietà intrinseca della motivazione; violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, violazione dell’art. 210 dell’ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), come modificato ed integrato dal d.l. 16 settembre 2008, n. 143, convertito dalla l. 13 novembre 2008, n. 181.

– eccesso di potere; erroneità dei presupposti, contraddittorietà della motivazione e violazione dell’art. 3 della l. n. 241/90; disparità di trattamento in relazione alla normativa sul collocamento fuori ruolo; violazione dell’art. 23 bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e dell’art. 210 o.g.; contraddittorietà tra provvedimenti dell’Amministrazione; erronea applicazione della legge 27 luglio 1962, n. 1114;

– violazione dell’art. 7 della l. n. 241/90 per la mancata comunicazione di avvio del procedimento; eccesso di potere per mancata instaurazione del contraddittorio procedimentale.

Successivamente, con nota n. 0028177.U del 18 maggio 2009, comunicata il 3 giugno 2009, il Ministero della giustizia, Direzione generale bilancio e contabilità del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del Personale e dei Servizi, ha comunicato di aver sospeso la partita stipendiale, disponendo il recupero della somma di € 15.799,97, corrispondente alla erronea corresponsione degli stipendi di gennaio, febbraio, marzo e aprile 2009, non dovuti, nonché ha richiesto il pagamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, ammontanti per ciascun mese a € 1042,24, facendo riferimento, per tale richiesta, alla legge 27 luglio 1962, n. 1114.

Avverso tale atto sono stati proposti motivi aggiunti, deducendo il totale difetto di motivazione, la violazione delle norme procedimentali e la illegittimità della norme nazionali applicate, ovvero la legge n. 1114 del 1962 che si riferisce al personale contrattualizzato.

Con la sentenza di primo grado sono stati respinti i gravami affermando, con riferimento al difetto di motivazione e alla mancata partecipazione al procedimento, che si tratta di norme non applicabili alla fattispecie, relativa non a provvedimenti, ma ad atti paritetici; nel merito è stata ritenuta corretta l’applicazione della legge n. 1114 del 1962, in quanto applicabile a tutto il personale pubblico per gli incarichi in organismi stranieri.

Con il presente atto di appello sono stati proposti i seguenti motivi relativi alla erroneità della sentenza di primo grado sotto vari profili:

– violazione degli articoli 3 e 7 della legge n. 241 del 1990 rispetto alla qualificazione degli atti impugnati come atti paritetici con esclusione dell’obbligo di motivazione e delle garanzie procedimentali;

– erronea qualificazione del rapporto, erronea disapplicazione di provvedimento amministrativo autoritativo, falsa applicazione dell’art. 210 dell’ordinamento giudiziario per la mancata considerazione dei provvedimenti di conferma del collocamento fuori adottati dal C.S.M. e dal Ministro della Giustizia, rispetto a cui gli atti impugnati sono in contraddizione per la mancata applicazione della disciplina del collocamento fuori ruolo prevista dall’art. 210 dell’ordinamento giudiziario e l’erronea applicazione della legge n. 1114 del 1962, anche in ordine al regime previdenziale, in contrasto altresì con quanto previsto dall’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001, almeno in ordine al regime più favorevole relativo ai contributi previdenziali.

Il Ministero della Giustizia si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dell’appello.

All’udienza pubblica del 7 maggio 2019 l’appello è stato trattenuto in decisione

DIRITTO

Viene alla decisione del Collegio la questione relativa alla legittimità degli atti con cui il Ministero della Giustizia, in particolare la Direzione generale magistrati del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, e poi la direzione generale del Bilancio e della contabilità del medesimo Dipartimento ministeriale, ha disposto la cessazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano in favore del magistrato ordinario dott. (omissis), già fuori dal ruolo organico della magistratura in quanto Segretario generale dell’Autorità per il trattamento dei dati personali, confermato in fuori ruolo per l’assunzione dell’incarico di Garante europeo aggiunto per la protezione dei dati con delibera del C.S.M. del 14 gennaio 2009 e decreto del Ministero della Giustizia del 15 gennaio 2009.

Il provvedimento del Direttore generale che ha disposto la cessazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano e l’obbligo a carico dell’odierno appellante di versare i contributi previdenziali è basato sul solo riferimento alle disposizioni istitutive dell’Autorità europea per la protezione dei dati, con cui sono stati fissati la retribuzione, le indennità, il trattamento di quiescenza ed ogni altro compenso sostitutivo del Garante e del Garante aggiunto, equiparando il Garante aggiunto al cancelliere della Corte di Giustizia.

Le note della Direzione generale Bilancio, che hanno sospeso la partita di stipendio, disposto i recuperi delle somme nel frattempo percepite dal gennaio 2009 e richiesto il versamento dei contributi previdenziali, contengono il riferimento alla legge n. 1114 del 1962, quale fonte del diritto dell’Amministrazione ad operare in tal senso.

La sentenza di primo grado ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti sulla base della natura paritetica degli atti impugnati, che non richiedevano quindi né motivazione né partecipazione al procedimento, e ritenendo applicabili alla fattispecie le disposizioni della legge n. 1114 del 1962.

Con il primo motivo di appello si sostiene la erronea qualificazione degli atti impugnati come atti paritetici, in quanto, nel caso di specie, la situazione del dott. (omissis) è invece regolata proprio da atti autoritativi adottati dall’Autorità amministrativa nell’esercizio di un potere espressamente attribuito in funzione dell’interesse pubblico. In particolare, si tratta del provvedimento di collocamento fuori ruolo e della sua conferma adottata con delibera del C.S.M. del 14 gennaio 2009 e disposta con decreto del Ministro della Giustizia del 15 gennaio 2009.

Il motivo è fondato.

Il Collegio non condivide, infatti, la ricostruzione operata dal giudice di primo grado, che ha escluso l’obbligo di motivazione e la necessità di previa comunicazione di avvio del procedimento, in relazione alla natura “paritetica” degli atti, in quanto atti relativi ai diritti patrimoniali del pubblico dipendente regolati da leggi statali, di cui sarebbe stata fatta mera applicazione vincolata.

A prescindere dalla circostanza che anche nell’ambito dei rapporti di lavoro privati vigono i principi generali di correttezza e buona fede da cui, in generale, si fanno discendere obblighi di trasparenza e di avviso in capo al datore di lavoro, la nozione di atti paritetici è intesa, nell’ambito del pubblico impiego non privatizzato, con riferimento ad atti per i quali “l’accertamento del diritto, è realizzabile indipendentemente dalla intermediazione di un provvedimento amministrativo”, per cui il giudizio ha oggetto immediatamente la fondatezza della pretesa sostanziale (cfr. di recente Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2019, n. 1470; id., 29 ottobre 2018, n. 6156); in particolare, la nozione di atti paritetici (a far data dalla “storica” decisione Cons. Stato, sez. V, 1° dicembre 1939, n. 795) viene in considerazione “allorché l’amministrazione, tenuta per legge a far fronte ad un obbligo in ragione di un rapporto di diritto pubblico avente natura patrimoniale, si veda attribuito – da una legge o altra fonte normativa – il potere di definire unilateralmente detto rapporto e, quindi, di determinare essa stessa l’entità dei propri obblighi e dei correlativi diritti (tipico è il caso della determinazione di stipendi, assegni, emolumenti, etc.), in base ad una mera attività accertativa. Tali atti non possono essere ricompresi, a rigore, tra i provvedimenti amministrativi, poiché in tale ambito l’amministrazione non esercita un potere di supremazia nei confronti del privato, bensì utilizza strumenti del diritto civile che la pongono sullo stesso piano della controparte. Il rapporto paritetico tra amministrazione pubblica datoriale ed impiegato pubblico (con rapporto non contrattualizzato) si caratterizza per l’assenza di esercizio di potere autoritativo da parte dell’amministrazione, rispetto alla quale la norma di riferimento non ha attribuito affatto la supremazia propria dell’autoritatività dell’agire, neppure attraverso un esercizio di potere vincolato limitato alla mera verifica della sussistenza dei presupposti per la realizzazione di quanto è previsto dalla fonte normativa del proprio agire. Al contrario, quando la fonte normativa primaria, nell’attribuire all’amministrazione datoriale un potere autoritativo nell’ambito della gestione del lavoro pubblico, indipendentemente dall’ampiezza dell’esercizio discrezionale (o, all’opposto, vincolato) di detto potere, le attribuisce anche (e soprattutto) un compito di preventiva indagine sull’an dell’adozione degli atti nei quali si estrinseca l’esercizio del potere, il compito dell’ente datoriale non può dirsi ridotto ad una mera applicazione doverosa di quanto è previsto dalla norma, ma si traduce in un vero e proprio onere di indagine valutativa preventiva, quanto meno sull’esistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché la posizione soggettiva dell’impiegato va qualificata quale interesse legittimo e l’atto dell’amministrazione datoriale va considerato quale provvedimento amministrativo” (Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 2018, n. 5944). In tal senso si è espressa anche la sentenza della Sezione V, 5 febbraio 2018, n. 743, citata dall’Avvocatura erariale a sostegno delle proprie argomentazioni, che ha affermato “come la nozione di atti paritetici venga in considerazione allorché l’amministrazione, tenuta per legge a far fronte ad un obbligo in ragione di un rapporto di diritto pubblico avente natura patrimoniale, si veda attribuito – da una legge o altra fonte normativa – il potere di definire unilateralmente detto rapporto e, quindi, di determinare essa stessa l’entità dei propri obblighi e dei correlativi diritti (tipico è il caso della determinazione di stipendi, assegni, emolumenti, etc.), in base ad una mera attività accertativa. Tali atti non possono essere ricompresi, a rigore, tra i provvedimenti amministrativi, poiché in tale ambito l’amministrazione non esercita un potere di supremazia nei confronti del privato, bensì utilizza strumenti del diritto civile che la pongono sullo stesso piano della controparte. L’assenza di un potere di supremazia (che avrebbe comportato il cd. “affievolimento” del diritto soggettivo) determina correlativamente il venir meno delle esigenze – di carattere procedimentale e formale, a garanzia del privato – sottese all’adozione dei provvedimenti amministrativi, a pena di illegittimità degli stessi, con la conseguenza che tali vizi non potranno essere validamente dedotti ai fini di un’eventuale invalidazione giudiziale dell’atto” facendo riferimento ad una ipotesi in cui il rapporto giuridico era compiutamente disciplinato dalla legge “ facendo valere il ricorrente un diritto soggettivo derivante da un rapporto paritetico, il cui esercizio non è soggetto ai termini di decadenza”.

Sulla base di tali tradizionali orientamenti giurisprudenziali ribaditi, anche di recente, da questo Consiglio di Stato, ritiene il Collegio di osservare che, nel caso di specie, il riferimento agli atti paritetici è escluso dalla circostanza che gli atti impugnati, determinando la cessazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano e l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali a carico del magistrato, non hanno fatto diretta applicazione di alcuna specifica norma di legge, da cui sarebbe comunque discesa la cessazione del trattamento economico, ma hanno inciso in maniera autoritativa e unilaterale sulla situazione giuridica dell’odierno appellante, che, come rilevato nell’atto di appello, era fino ad allora regolata da un provvedimento di collocamento fuori ruolo (più precisamente di conferma del fuori ruolo), che nulla disponeva in ordine al trattamento economico del magistrato collocato fuori ruolo.

I provvedimenti ministeriali non si pongono quindi come atti meramente esecutivi né delle norme di legge né dei provvedimenti adottati dal Consiglio superiore della magistratura, ma hanno modificato in peius la situazione giuridica del destinatario, disponendo in via autoritativa, altresì i recuperi delle somme già erogate; ciò, inoltre, sulla base di una disciplina normativa che non contemplava espressamente i magistrati ordinari, e in contrasto con i provvedimenti adottati dall’unico organo competente a disporre sullo status del magistrato.

Ritiene il Collegio, infatti, sotto tale profilo, che solo il Consiglio superiore della magistratura potesse disporre sulla situazione giuridica del magistrato, comprensiva indubitabilmente, in base alla consolidata interpretazione della Corte costituzionale, anche del suo trattamento economico.

La costante giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, afferma che l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico (sentenze n. 1 del 1978; n. 42 del 1993; n. 223 del 2012, per cui, inoltre, nell’assetto costituzionale, il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo ed indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto).

Avendo il Consiglio deliberato il collocamento fuori ruolo (e non secondo quanto previsto dall’art. 23 bis del Testo Unico 30 marzo 2000, n. 165, anche con espresso riferimento agli incarichi presso organismi internazionali, l’aspettativa senza assegni), ritiene il Collegio che il Ministero non potesse autonomamente disporre la cessazione del trattamento economico a carico di un magistrato, né a ciò potesse condurre l’art. 1 della legge n. 1114 del 1962 e, in ogni caso, che l’applicazione di tale norma non fosse un effetto automatico del collocamento fuori ruolo disposto; anzi sulla base del provvedimento di collocamento fuori ruolo deliberato dal C.S.M. e disposto dal decreto del Ministro, l’unico atto discendente direttamente dalla legge sarebbe stato, se mai, il mantenimento della partita stipendiale a carico dello Stato italiano.

Ciò conduce all’accoglimento anche degli ulteriori motivi di appello relativi alla falsa applicazione dell’art. 210 dell’ordinamento giudiziario e all’erronea applicazione della legge n. 1114 del 1962, in contrasto altresì con quanto previsto dall’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001.

Ai sensi dell’art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195, spetta al Consiglio superiore deliberare sulle assunzioni in magistratura, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti e promozioni e su ogni altro provvedimento sullo “stato” dei magistrati.

In base all’art. 210 dell’ordinamento giudiziario, “sono collocati fuori del ruolo organico della magistratura i magistrati ai quali dal Ministro di grazia e giustizia, o col suo consenso, sono conferiti incarichi non previsti da leggi o da regolamenti, se per tali incarichi debbano sospendere il servizio giudiziario per un periodo maggiore di due mesi”. In particolare, ai sensi del terzo comma, “Essi conservano il trattamento economico del proprio grado”.

L’art. 15 della legge n. 195 del 1958 prevede, altresì, il potere del Consiglio di disporre il collocamento fuori ruolo per incarichi presso il Ministero della Giustizia e per altri incarichi.

Il Consiglio superiore ha nel corso del tempo proceduto a disciplinare analiticamente i procedimenti relativi agli incarichi dei magistrati e al collocamento fuori ruolo.

Al momento di adozione degli atti impugnati, era vigente la circolare del 16 dicembre 1987, con le modifiche successivamente intervenute, che si riferiva anche agli incarichi conferiti dall’Unione europea, prevedendo l’autorizzazione del Consiglio circa la compatibilità dell’incarico con il prestigio del magistrato e i requisiti di autonomia e indipendenza, facendo altresì riferimento espresso alla disciplina dell’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001; nonché la circolare del 25 novembre 2008, successiva alle modifiche successive intervenute con il d.l. 16 settembre 2008, n. 143, e la relativa legge di conversione, 13 novembre 2008, n. 181, che hanno disciplinato nel ruolo organico della magistratura espressamente il numero massimo di magistrati collocabili fuori ruolo nel numero di duecento. Tale circolare, come anche la precedente circolare del 6 febbraio 2008, contiene l’espresso riferimento agli incarichi per compiti e funzioni previsti da norme dell’Unione europea, escludendo inoltre per gli incarichi presso organismi internazionali i limiti temporali di periodo di fuori ruolo previsti.

Da tale disciplina deriva, in primo luogo, che, in base all’ordinamento della magistratura ordinaria, il collocamento fuori ruolo è, comunque, consentito per l’assolvimento degli incarichi internazionali, ovviamente qualora il Consiglio ne valuti la compatibilità, e che, in base alla norma generale dell’art. 210 dell’ordinamento giudiziario, l’istituto del fuori ruolo organico della magistratura comporta il mantenimento del proprio trattamento economico.

Ciò, del resto, è confermato anche dalla disciplina dell’art. 23 bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n, 165, introdotta dall’art. 7 delle legge 15 luglio 2002, n. 145 (la medesima legge n. 145, all’art. 8 ha modificato la legge n. 1114 del 1962 , introducendo il testo applicato dal Ministero), per cui “in deroga all’articolo 60 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, i dirigenti delle pubbliche amministrazioni, nonché gli appartenenti alla carriera diplomatica e prefettizia e, limitatamente agli incarichi pubblici, i magistrati ordinari, amministrativi e contabili e gli avvocati e procuratori dello Stato sono collocati, salvo motivato diniego dell’amministrazione di appartenenza in ordine alle proprie preminenti esigenze organizzative, in aspettativa senza assegni per lo svolgimento di attività presso soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale, i quali provvedono al relativo trattamento previdenziale. Resta ferma la disciplina vigente in materia di collocamento fuori ruolo nei casi consentiti. Il periodo di aspettativa comporta il mantenimento della qualifica posseduta. E’ sempre ammessa la ricongiunzione dei periodi contributivi a domanda dell’interessato, ai sensi della legge 7 febbraio 1979, n. 29, presso una qualsiasi delle forme assicurative nelle quali abbia maturato gli anni di contribuzione. Quando l’incarico è espletato presso organismi operanti in sede internazionale, la ricongiunzione dei periodi contributivi è a carico dell’interessato, salvo che l’ordinamento dell’amministrazione di destinazione non disponga altrimenti”.

Sulla base della disciplina posta dall’ art. 23 bis , deve ritenersi che, rispetto all’incarico che il dott. (omissis) andava a ricoprire, i due provvedimenti adottabili, conformemente alle norme regolatrici del particolare rapporto di lavoro proprio dei magistrati ordinari, fossero o il collocamento fuori ruolo (con conservazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano) o, proprio al fine di evitare la doppia retribuzione, in base all’esigenza di bilancio posta a base dei provvedimenti impugnati, l’aspettativa “senza assegni”, con perdita del trattamento economico a carico dello Stato italiano, espressamente prevista in tal caso dalla disposizione di legge, ma con pagamento dei contributi a carico dell’organismo di destinazione.

Ritiene, peraltro, il Collegio che la decisione in ordine al regime concretamente applicabile, in relazione al tipo di incarico, anche con riferimento al trattamento economico, spettasse unicamente al Consiglio, secondo le norme di legge e la disciplina posta dalle proprie norme interne, potendo fare applicazione anche dell’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001 (essendo, inoltre, un tale regime di aspettativa “senza assegni” anche giustificato dalla circostanza citata dal Ministero nelle memorie difensive che l’interessato avrebbe percepito una retribuzione presso l’Istituzione europea).

Non avendo il Consiglio superiore disposto l’aspettativa “senza assegni” e comunque avendo provveduto a confermare il collocamento fuori ruolo del dott. Buttarelli, senza alcuna previsione sul trattamento economico dell’interessato, il Ministero in alcun modo poteva incidere su tale trattamento, in assenza di una determinazione del C.S.M. in tal senso e senza una specifica disciplina legislativa che consentisse la cessazione del trattamento economico per i magistrati in fuori ruolo.

Infatti, la norma che avrebbe consentito la cessazione del trattamento economico a carico dello Stato italiano è proprio l’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001, che comporta la sospensione dello stipendio erogato dallo Stato italiano, ma con mantenimento del relativo trattamento a carico dell’organismo di destinazione (con trattamento previdenziale più favorevole di quello applicato dagli uffici ministeriali).

Non avendo il C.S.M. fatto espressa applicazione dell’art. 23 bis, o comunque disposto sul trattamento economico del magistrato, gli uffici ministeriali non avevano alcun potere di incidere autonomamente su tale trattamento economico nonché previdenziale del magistrato. Di fronte al provvedimento di conferma del fuori ruolo avrebbero potuto segnalare al C.S.M. la problematica stipendiale, sollecitando una riconsiderazione della questione ai fini dell’applicazione dell’aspettativa ai sensi dell’art. 23 bis del T.U. n. 165/2001, ma non applicare di propria iniziativa l’art. 1 della legge 27 luglio 1962, n. 1114, norma citata solo negli atti esecutivi della Direzione generale bilancio e contabilità.

Ai sensi dell’art. 1 della legge 27 luglio 1962, n. 1114 (“Disciplina della posizione giuridica ed economica dei dipendenti statali autorizzati ad assumere un impiego presso Enti od organismi internazionali o ad esercitare funzioni presso Stati esteri”), nel testo vigente al momento di adozione degli atti impugnati, introdotto dall’art. 8 delle legge 15 luglio 2002, n. 145 (mentre l’art. 7 della medesima legge ha introdotto l’art. 23 bis al T.U. n. 165 del 2001), “ il personale dipendente delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 previa autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica, con decreto dell’amministrazione interessata, d’intesa con il Ministero degli affari esteri e con il Ministero dell’economia e delle finanze può essere collocato fuori ruolo per assumere un impiego o un incarico temporaneo di durata non inferiore a sei mesi presso enti o organismi internazionali, nonché esercitare funzioni, anche di carattere continuativo, presso Stati esteri. Il collocamento fuori ruolo, il cui contingente non può superare complessivamente le cinquecento unità, è disposto per un tempo determinato e, nelle stesse forme, può essere rinnovato alla scadenza del termine, o revocato prima di detta scadenza. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 32 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

In base all’art. 2 delle legge “dalla data di decorrenza del collocamento fuori ruolo cessa il trattamento economico a carico dello Stato italiano. L’impiegato è tenuto, a decorrere da quella stessa data, a versare all’Amministrazione cui appartiene l’importo dei contributi o delle ritenute a suo carico di cui all’art. 57 del citato testo unico”.

Ai sensi dell’art. 3 “per determinati Paesi, ove venga a svolgersi la loro attività, agli impiegati collocati fuori ruolo ai sensi dell’art. 1 può essere concesso un assegno integrativo secondo i criteri con le modalità previste dall’art. 21 della legge 4 gennaio 1951, n. 13, sul trattamento economico del personale diplomatico-consolare servizio all’estero”.

Già dal dato testuale della norma, e prescindendo per ora dal richiamo all’art. 32 del T.U. n. 165/2001, che riguarda le “esperienze del proprio personale presso le istituzioni europee”, risulta evidente che si tratta di disciplina non applicabile ai magistrati ordinari e alle categorie ad essi equiparate (magistrati amministrativi, contabili, avvocati e procuratori dello Stato), in mancanza di una specifica norma ad essi riferita.

Infatti, sul piano testuale, l’art. 1 della legge n. 1114 del 1962 si riferisce al “personale dipendente delle Amministrazioni pubbliche indicate dall’art. 1, comma 2, del T.U. 165 del 2001” che indica “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI”.

Il riferimento a tutte le Amministrazioni dello Stato, tramite il rinvio all’art. 1, comma 2, del T.U. n. 165/2001, in senso lato, potrebbe ricomprendere anche le categorie in regime di diritto pubblico, come ritenuto dal giudice di primo grado.

Peraltro, si deve tenere presente che le indicazioni relative alle magistrature e al personale in regime di diritto pubblico, nello stesso Testo Unico n. 165, contengono l’esplicito riferimento a tali categorie, come risulta dal successivo art. 3 (per cui “rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287”) nonché dal citato art. 23 bis, che riguarda i “i dirigenti delle pubbliche amministrazioni, nonché gli appartenenti alla carriera diplomatica e prefettizia e, limitatamente agli incarichi pubblici, i magistrati ordinari, amministrativi e contabili e gli avvocati e procuratori dello Stato”. Inoltre, una specifica disciplina del collocamento fuori ruolo relativa a “magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, gli avvocati e procuratori dello Stato” è anche contenuta nella legge 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, commi 68 e segg., che prevede il limite complessivo di periodo fuori ruolo, escludendone l’applicazione ai componenti delle “Corti internazionali comunque denominate”. Tale disciplina è successiva agli atti impugnati, ma ad avviso del Collegio utilizzabile, quale ulteriore ausilio interpretativo, circa la specificità delle indicazioni legislative relative a tali categorie di dipendenti pubblici, con riferimento, in particolare, alla disciplina del fuori ruolo, espressamente disciplinato per i magistrati ordinari anche dalle disposizioni del d.l. n. 143 del 2008, convertito nella legge n. 181 del 2008 e dalle disposizioni del C.S.M..

Ritiene, dunque, il Collegio che, non essendo espressamente indicati i magistrati dall’art. 1 della legge n. 1114 del 1962, non si possa ritenere immediatamente applicabile tale disciplina, nel caso di specie, essendo, inoltre, tale particolare categoria di dipendenti pubblici espressamente considerata nell’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001, introdotto poi dalla medesima legge n. 145 del 2002 (che conteneva il testo dell’art. 23 bis all’art. 7 e quello della legge n. 1114 del 1962 all’art. 8).

A conferma di tale interpretazione soccorre, altresì, il riferimento contenuto nello stesso art. 1 della legge n. 1114 del 1962 al numero complessivo di unità di personale in fuori ruolo, individuato in cinquecento, mentre tale numero per i magistrati ordinari è autonomamente disciplinato dalla tabella allegata al d.l. 16 settembre 2008, n. 143, conv. nella legge 13 novembre 2008, n. 181, nel numero di duecento, con espressa esclusione dal numero complessivo, in base alle delibere del Consiglio, tra l’altro, del computo degli incarichi assunti in organismi internazionali.

Inoltre, anche l’art. 2 della legge n. 1114 del 1962 conferma tale interpretazione, prevedendo l’applicazione “all’impiegato collocato fuori ruolo ai sensi dell’art. 1” delle norme contenute nel testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Da tale rinvio risulta evidente che il personale contemplato nella disciplina della legge n. 1114 del 1962 sia il personale con rapporto di lavoro privatizzato, per il quale in mancanza di tale norma non sarebbe applicabile la disciplina del Testo Unico n. 165, applicabile invece al personale in regime di diritto pubblico.

Ulteriore conferma si trae dall’ articolo 5 della legge che ne estende le disposizioni “anche agli altri dipendenti civili di ruolo dello Stato il cui ordinamento non è regolato dal testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, salvo che la materia non sia diversamente disciplinata con norme speciali”.

Inoltre, l’art. 6 prevede l’estensione di tale regime “nei confronti degli ufficiali e dei sottufficiali in servizio permanente dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica che, previa autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro per la difesa ed il Ministro per gli affari esteri, assumano un impiego presso enti od organismi internazionali, anche se per tale impiego esercitino funzioni, anche di carattere continuativo, presso Stati esteri. Per essi cessa la corresponsione del trattamento economico a carico dello Stato italiano (…) Nei confronti degli ufficiali richiamati dall’ausiliaria che, autorizzati nei modi suddetti, assumano un impiego presso enti od organismi internazionali o presso Stati esteri, nella forma di cui al primo comma, cessa la corresponsione del trattamento economico a carico dello Stato italiano. Il personale di cui al presente articolo è tenuto a versare all’Amministrazione italiana di appartenenza l’importo dei contributi e delle ritenute che, per legge, avrebbe gravato sul trattamento economico che sarebbe allo stesso spettato a carico dello Stato italiano.

Le disposizioni dei commi precedenti si applicano, per quanto compatibile, anche al personale dei Corpi della guardia di finanza, delle guardie di pubblica sicurezza e degli agenti di custodia, nonché al personale militare in genere in forma volontaria o rafferma”.

La estensione espressa del regime della legge n. 1114 del 1962 ai militari rafforza ulteriormente la interpretazione seguita dal Collegio, per cui la norma speciale applicabile ai magistrati è costituita dalla disposizione dell’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001, che si riferisce, indicandole espressamente, alle altre categorie in regime di diritto pubblico (“appartenenti alla carriera diplomatica e prefettizia e, limitatamente agli incarichi pubblici, magistrati ordinari, amministrativi e contabili e gli avvocati e procuratori dello Stato”) e non ai militari, in quanto, evidentemente solo questi compresi nella disciplina della legge n. 1114 del 1962, tramite il rinvio operato espressamente dall’art. 6.

Peraltro, l’art. 1 della legge n. 1114 del 1962 fa anche salva l’applicazione dell’art. 32 del T.U. n. 165 del 2001 che, riguarda espressamente il servizio svolto presso istituzioni e altri organi dell’Unione europea. Ne deriva che se mai si ritenesse applicabile l’art. 1 della legge n. 165 del 2001, si dovrebbe, comunque, fare prima riferimento a tale speciale disciplina dettata per le istituzioni europee, che, nel testo vigente al momento di adozione degli atti impugnati prevedeva: “i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, a seguito di appositi accordi di reciprocità stipulati tra le amministrazioni interessate, d’intesa con il Ministero degli affari esteri ed il Dipartimento della funzione pubblica, possono essere destinati a prestare temporaneamente servizio presso amministrazioni pubbliche degli Stati membri dell’Unione europea, degli Stati candidati all’adesione e di altri Stati con cui l’Italia intrattiene rapporti di collaborazione, nonché presso gli organismi dell’Unione europea e le organizzazioni ed enti internazionali cui l’Italia aderisce”.

In base al secondo comma dell’art. 32, “il trattamento economico potrà essere a carico delle amministrazioni di provenienza, di quelle di destinazione o essere suddiviso tra esse, ovvero essere rimborsato in tutto o in parte allo Stato italiano dall’Unione europea o da una organizzazione o ente internazionale”.

In ogni caso, nel caso di specie, sul piano concreto, il procedimento previsto dall’art. 1 della legge n. 1114 del 1962, neppure è stato seguito, in quanto il collocamento fuori ruolo non è stato disposto con provvedimento del Presidente del Consiglio di Ministri, con l’intesa con il Ministro degli Esteri, ma con decreto del Ministro della Giustizia previa delibera del C.S.M., secondo le norme che disciplinano il collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari.

Ne deriva, anche sotto tale profilo, che l’Amministrazione ministeriale non solo ha fatto applicazione di una norma di legge non applicabile ai magistrati ordinari, essendo se mai applicabile l’aspettativa di cui all’ art. 23 bis del T.U. n. 165/2001 (con conservazione del trattamento previdenziale a carico dell’organismo di destinazione); ma ha dato esecuzione ad un provvedimento con modalità incompatibili con il modello prefigurato dal legislatore, sostanzialmente elaborando autonomamente un regime giuridico ed economico applicabile ai magistrati ordinari collocati fuori ruolo per assumere incarichi in organismi internazionali.

Rispetto alla tipicità degli atti e provvedimenti configurata in questa materia dal legislatore, ritiene, infatti, il Collegio che, in presenza di specifiche norme, quali quelle sopra citate, relative al collocamento fuori ruolo e all’aspettativa senza assegni dei magistrati ordinari, sia illegittima l’applicazione di una norma generale relativa al personale dipendente dalle amministrazioni statali, che non contempla in alcuna sua parte né i magistrati ordinari né il personale delle altre magistrature equiparati per status e trattamento economico, o comunque il personale in regime di diritto pubblico (se non i militari per cui è previsto un richiamo espresso dall’art. 6 della legge n. 1114 del 1962), e la cui disciplina testuale conduce anzi ad escludere una tale possibilità di applicazione. I provvedimenti adottati risultano dunque illegittimi.

Non possono, infatti, trovare accoglimento la argomentazioni difensive dell’Avvocatura dello Stato, che, nella memoria depositata per l’udienza pubblica, richiama un principio, immanente nell’ordinamento anche europeo, di unicità del trattamento economico stipendiale.

Secondo la ricostruzione dell’Amministrazione, poiché quella attribuita dalla istituzione europea è indicata come retribuzione in base all’art. 43 del Reg 45/2001 che indica la fissazione di una “retribuzione” per il Garante europeo per la protezione dei dati personali e dell’art. 2 della decisione 1247 CE del 2002, che equipara il Garante aggiunto al cancelliere della Corte di Giustizia per quanto riguarda “la retribuzione, le indennità, il trattamento di quiescenza e ogni altro compenso sostitutivo”, non potrebbe essere percepita una doppia retribuzione, anche considerato che alla spesa per il funzionamento delle istituzioni europee lo Stato italiano già contribuisce in base alla disciplina del Trattato.

Tali argomentazioni non possono essere condivise.

In primo luogo, da tali disposizioni deriva che la doppia retribuzione sarebbe a carico dello Stato italiano solo indirettamente, tramite il finanziamento delle istituzioni europee.

Inoltre, nel caso di specie, lo strumento per evitare la percezione di una doppia retribuzione da parte dell’appellante era espressamente previsto dall’ordinamento tramite l’istituto dell’aspettativa senza assegni di cui all’art. 23 bis del T.U. n. 165 del 2001, che, comunque, avrebbe comportato per l’appellante un regime previdenziale più favorevole di quello disposto con i provvedimenti impugnati.

Sotto tale profilo neppure può, dunque, rilevare l’ulteriore argomentazione difensiva relativa alla disciplina espressa contenuta nell’art. 2, comma 26, della legge 3 agosto 2009, n. 108, per il Kosovo, che, peraltro, è una norma solo relativa alla copertura finanziaria della missione (tanto più irrilevante nel caso di specie, in quanto la partita stipendiale dell’appellante è già inserita nelle spese ordinarie del Ministero della Giustizia), trattandosi, comunque, in tal caso, di materia specificamente disciplinata dalle leggi che hanno autorizzato la relativa missione internazionale.

In conclusione l’appello è fondato e deve essere accolto con annullamento dei provvedimenti impugnati e salva la ulteriore attività amministrativa, circa l’effettivo trattamento economico e previdenziale spettante al magistrato collocato fuori ruolo presso organismi dell’Unione europea; in sede di riesercizio del potere, l’Amministrazione dovrà verificare, in relazione agli atti concretamente adottati dal C.S.M., il regime effettivamente applicabile.

In considerazione della particolarità e novità della questione sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in accoglimento del ricorso di primo grado, annulla i provvedimenti impugnati, salve le ulteriori determinazioni dell’Amministrazione secondo quanto indicato in motivazione.

Spese di entrambi i gradi compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità o di qualsiasi altro dato idoneo a identificare l’appellante.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:

(omissis)

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