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Cassazione penale sez. VI, 26/05/2022, n.31378

Massima

Commette reato di peculato l’amministratore di sostegno che si appropria del denaro dell’amministrato

Supporto alla lettura

Si tratta di un reato proprio, potendo essere commesso da un soggetto che riveste la quali fica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Presupposto del reato è il possesso o la disponibilità di beni mobili altrui per ragione del proprio ufficio o servizio. Per possesso la dottrina è concorde nel ritenerlo quale potere di fatto sul bene, direttamente collegato ai poteri e ai doveri funzionali dell’incarico ricoperto. La previsione anche della disponibilità del bene rinvia alla possibilità di disporre della cosa a prescindere dalla materiale detenzione della stessa. Anche la mera disponibilità giuridica è idonea ad integrare, sussistenti gli altri elementi, il reato in esame. Sia il possesso che la detenzione devono trovare la loro ragione nell’ufficio o nel servizio svolto dal soggetto pubblico. Si postula, dunque, che l’agente pubblico, in relazione al bene, sia titolare di poteri e doveri nel momento in cui realizza la condotta tipica. Il peculato è reato plurioffensivo, nel senso che ad essere lesi dalla condotta sono sia il rego lare e buon andamento della P.A. che gli interessi patrimoniali di quest’ultima e dei privati, pur incentrandosi il disvalore essenziale della condotta nell’abuso delle facoltà connesse alla qualifica pubblica rivestita in ordine alla destinazione di risorse di cui si dispone per ragione del proprio ufficio o servizio. L’elemento psicologico è rappresentato dal dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà dell’appropriazione. Il reato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione dell’oggetto materiale altrui da parte dell’agente, la quale si realizza con una condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede, a prescindere dal verificarsi di un danno patrimoniale, trattandosi di condotta comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 c.p., che si identifica nella lega lità, imparzialità e buon andamento della P.A. La seconda parte dell’art 314 cp ha ad oggetto il peculato d’uso. A differenza della forma che abbiamo definito poc’anzi e che consiste nella appropriazione definitiva di un bene, il peculato d uso ha ad oggetto la condotta del Pubblico ufficiale che si impossessa del denaro o della cosa per farne un uso momentaneo e la restituisca immediatamente.
Si tratta per questo motivo di un reato meno grave, punito, come vedremo, con una pena decisamente meno severa.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

  1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Torino ha confermato quella emessa dal Tribunale della stessa città in data 7 maggio 2021 che, in esito a rito abbreviato, aveva condannato P.M. alla pena di anni tre di reclusione per i reati di peculato ex art. 314 c.p. e per il reato di cui al D.Lgs. n.231 del 21 novembre 2007 art. 55, con l’interdizione dai pubblici uffici per la stessa durata della pena principale e l’applicazione della confisca per equivalente ai sensi dell’art. 322-ter c.p..

Per quanto qui di interesse, l’imputata è stata ritenuta responsabile del delitto di peculato continuato per essersi appropriata, nella qualità di amministratore di sostegno della cognata B.M.L., della somma di Euro 28.771,76.

  1. Avverso il provvedimento in premessa indicato ricorre P.M., a mezzo del difensore di fiducia, avv. Simone Vallese, deducendo, con un unico ma in realtà plurimo – motivo, inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 314 c.p. e vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato di peculato.

La difesa deduce che la ricorrente non abbia agito in veste di pubblico ufficiale, avendo conseguito l’autonoma disponibilità del patrimonio della B. a far data dal 16 gennaio 2012, in forza di procura generale rilasciata dalla persona offesa con atto notarile, dunque ben prima di essere nominata amministratore di sostegno con provvedimento del Giudice tutelare del Tribunale di Asti del 18 febbraio 2015.

Difetterebbe la consapevolezza in capo alla P. del mutamento del proprio ruolo in rapporto alla gestione del patrimonio della persona offesa e della rilevanza pubblicistica dell’incarico di amministratore.

La buona fede della ricorrente sarebbe evincibile dalla mancata presentazione del rendiconto.

  1. Il procedimento è stato trattato nell’odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all’D.L. n. 137 del 28 ottobre 2020, art. 23, commi 8 e 9, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati, da ultimo, dal D. L. n. 228 del 30 dicembre 2021 art. 16, convertito dalla L. n. 15 del 25 febbraio 2022.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
  2. Sono reiterative e manifestamente infondate le deduzioni della difesa relative alla assenza di legame funzionale della condotta appropriativa oggetto di addebito con la qualifica pubblicistica di amministratore di sostegno ricoperta dall’imputato, per avere la ricorrente agito in veste di procuratore generale della parte.

Questa Corte di legittimità, anche in sede civile, ha da tempo stabilito che la figura dell’amministratore di sostegno, introdotta nell’ordinamento dalla L. n. 6 del 9 gennaio 2004, art.3, eserciti una funzione di utilità collettiva volta alla protezione degli interessi di soggetti fragili, sia pure con infermità o problematiche di minore intensità di quelle residualmente tutelabili con gli istituti della interdizione e della inabilitazione.

La relativa attività trova la propria disciplina regolativa in un complesso di disposizioni del codice civile (che vanno dall’obbligo di prestazione del giuramento, all’obbligo annuale di rendiconto, alle limitazioni alla capacità di ricevere per testamento e per donazione, al regime delle autorizzazioni e degli atti dispositivi vietati), che ne consentono la assimilazione al munus publicum del tutore, da cui l’istituto in questione si distingue essenzialmente per la maggiore flessibilità e l’agilità della relativa procedura applicativa (Cass. Civ., Sez. 1 n. 13584 del 12/06/2006 Rv. 589525; Cass. civ., Sez. 1 4866 del 1 marzo 2010, Rv. 611912).

Di qui (‘esegesi consolidata, che attribuisce all’amministratore di sostegno la qualifica di pubblico ufficiale, con la conseguenza che integra il delitto di peculato la condotta con cui egli si appropri del danaro giacente sui conti correnti intestati alla persona sottoposta all’amministrazione (in tal senso Sez. 6, n. 29617 del 19/05/2016, Piermarini, Rv. 267795; Sez. 6, n. 50754 del 12/11/2014, Insolera, Rv. 261418, che ha precisato come il reato non sia ravvisabile a seguito del solo mancato rispetto delle procedure previste per l’effettuazione delle spese nell’interesse dell’amministrato, postulando una condotta appropriativa o, comunque, che si risolva nell’uso dei fondi o dei beni per finalità estranee agli interessi dell’amministrato).

Nella presente vicenda processuale, le conformi decisioni di merito hanno coerentemente stimato, come dimostrativi di interversio possessionis:

–la mancata giustificazione da parte della imputata delle singole operazioni di prelievo, compiute, con cadenza serrata, mediante la carta di credito e la carta bancomat della B., e dei bonifici sui conti di lei, eseguiti per fini personali della P. e comunque estranei al mandato ricevuto;

— il mancato pagamento, a decorrere dal 2016, delle rette per la struttura residenziale ove l’anziana era ricoverata;

– -il mancato accredito sui conti intestati alla assistita della somma di Euro 61.000,00, riveniente dalla vendita di un cespite immobiliare;

– -la mancata presentazione di rendicontazione.

Dunque, un munus publicum che di fatto è stato svuotato di contenuti; ciò che, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, non può trovare giustificazione nel fatto che la ricorrente avesse, in precedenza, ricevuto l’investitura a gestire in autonomia il patrimonio della assistita.

Sul presupposto che l’imputata è chiamata a rispondere del delitto di peculato esclusivamente in rapporto alle operazioni successive all’assunzione della qualifica di amministratrice di sostegno, senza distonie logiche si è evidenziato dalla Corte di appello come la duplice investitura della P. ammesso che la procura generale non sia stata superata dall’instaurarsi della procedura di amministrazione di sostegno – non possa avere alcuna ricaduta in termini di esonero dalla responsabilità per il reato di peculato, atteso che la procura, quale atto privatistico attributivo di poteri, sebbene consenta di operare in nome e per conto del delegante, non determina alcun effetto traslativo della proprietà dei beni di questi in favore del delegato, lì dove in concreto la P. ha operato uti domina sui detti beni.

  1. Sotto il profilo dell’elemento psicologico, sono le connotazioni dello strumento assistenziale che, sia per la pubblicità della procedura di nomina dell’amministratore, sia per la necessaria interazione periodica con l’autorità giudiziaria, non permettono di ritenere l’inconsapevolezza da parte della P. del mutamento dei propri compiti e delle correlate responsabilità, che discendono per forza di legge dalla prestazione dell’ufficio.

Costituisce un puro enunciato difensivo, del tutto generico, che una tale inconsapevolezza emerge dall'”incarto processuale” ed è parossistico che la mancata presentazione del rendiconto, elemento specialmente valorizzato dai Giudici quale sintomatico di interversio possessionis, diventi, nella ribaltata prospettiva della ricorrente, dimostrativa della inconsapevolezza del proprio mutamento di ruolo.

  1. Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché della somma, determinata in via equitativa nella misura di Euro tremila, in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 13/06/2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa della ammende.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2022.

 

Allegati

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