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Cassazione penale Sez. VI, 25/09/2025, n. 31914

Massima

Ai fini dell’applicazione della misura di prevenzione della confisca per la categoria di pericolosità sociale di cui all’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159/2011, la nozione di “vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” non si limita al mero sostentamento quotidiano. Tale concetto deve essere interpretato in senso ampio, includendo tutto ciò che contribuisce a mantenere il “tenore di vita” complessivo del soggetto e del suo nucleo familiare, come gli investimenti immobiliari o finanziari volti a garantire una futura “complessiva agiatezza”.

Supporto alla lettura

CONFISCA

Si tratta di una misura di sicurezza patrimoniale che consiste nell’espropriazione a favore dello Stato dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato (c.d. mezzi di esecuzione del reato) e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.

L’art. 240 c.p. distingue due tipologie di confisca:

  • facoltativa: ha ad oggetto gli strumenti, il prodotto o il profitto;
  • obbligatoria: ha ad oggetto il prezzo, gli strumenti informatici o telematici utilizzati per la commissione di taluni reati specificatamente indicati, le cose il cui uso o detenzione o porto costituisce reato anche se non c’è stata sentenza di condanna.

La L. 300/2000 ha introdotto un’altra tipologia di confisca c.d. per equivalente (disciplinata dall’art. 322 ter c.p.) che deve essere disposta necessariamente dal giudice in caso di condanna o di sentenza di applicazione di pena ex art. 444 c.p., ma anche nel corso delle indagini preliminari con lo strumento del sequestro preventivo.  A tal proposito, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca attualmente opera con una duplice modalità:

  • il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, avente ad oggetto i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato;
  • il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente (o per valore), che interviene laddove non sia possibile procedere alla confisca diretta e che riguarda i beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato senza che sia necessario provare il nesso

Tuttavia, la confisca, a differenza del sequestro che ha natura cautelare provvisoria, comporta l’ablazione definitiva delle utilità patrimoniali in sequestro, secondo il disposto dell’art. 12 bis D.lgs. 74/2000, ed opera quando il procedimento penale viene definito con sentenza di condanna ovvero con applicazione della pena concordata tra le parti (patteggiamento).

L’ istituto in esame è stato esteso ai reati tributari mediante la legge finanziaria del 2008, e in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione fa da modello l’art. 322 ter c.p..

Diverse tipologie di confisca sono previste nel d.lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti. In questo caso l’istituto della confisca si connota in maniera differenziata a seconda del contesto in cui è chiamato ad operare.

Nella legislazione antimafia la confisca è divenuto lo strumento privilegiato di contrasto alla criminalità organizzata e può suddividersi in:

  • confisca di sicurezza (art. 240 c.p.);
  • confisca sanzionatoria (art. 416 bis comma 7 c.p. e 12 sexies D.l. 306/92 per la persona fisica e artt 19 e 24 ter comma 1 d.lgs. 231/2001 per le persone giuridiche);
  • confisca di prevenzione (art 24 d.lgs. 159/11 recante il nuovo codice antimafia e delle misure di prevenzione).

Un’altra figura di confisca è quella c.d. urbanistica (prevista dall’art. 44 d.P.R. 380/2001) che prevede la confisca obbligatoria di terreni e fabbricati oggetto del reato di lottizzazione abusiva.

La L. 157/2019 ha affiancato alle altre ipotesi di confisca la c.d. confisca allargata (o confisca per sproporzione) a carico di coloro che commettono alcune tipologie di reati fiscali.

Ambito oggettivo di applicazione

SVOLGIMENTO

1. Con il decreto impugnato la Corte di appello di Milano ha confermato il decreto del Tribunale di Milano che in data 14 novembre 2023 ha disposto la confisca di prevenzione di plurimi beni immobili di proprietà di (Omissis) Srl, nonché del capitale sociale di (Omissis) di B.B. E C. Snc e del compendio aziendale di tale società, beni ritenuti tutti riconducibili alla disponibilità di Pierino A.A.

 

2. Gli avvocati Marco Pievani e Fulvio Rosari, nell’interesse di Pierino A.A., e l’avvocato Andrea Fares, nell’interesse del terzo interessato Ornella B.B., in proprio e quale legale rappresentante di (Omissis) di B.B. E C. Snc e (Omissis) Srl, hanno proposto ricorso avverso tale decreto, deducendo quattro motivi, e ne hanno chiesto l’annullamento.

 

3. Gli avvocati Marco Pievani e Fulvio Rosari, nell’interesse di Pierino A.A., hanno proposto quattro motivi di ricorso.

 

3.1. Con il primo motivo, i difensori hanno dedotto la violazione degli artt. 16, lett. a), 4), lett. c), e 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in relazione alla ritenuta destinazione dei proventi illeciti al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento del proposto e della sua famiglia.

I difensori premettono che i giudici di merito hanno disposto la confisca nei confronti del patrimonio di A.A., avendo ritenuto dimostrata la ricorrenza nel caso di specie della forma di pericolosità delineata dall’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011 per “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”.

Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, per l’attribuzione della qualità di persona socialmente pericolosa, ai sensi dell’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011, occorre, tuttavia, accertare che nell’arco temporale in cui si è verificato l’incremento patrimoniale che con la confisca di vorrebbe neutralizzare: a) l’esistenza di condotte costituenti delitto, realizzate in modo non episodico, che siano produttive di reddito illecito per il proposto; b) la destinazione di tali redditi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento del proposto e della famiglia.

Questa forma di pericolosità, dunque, sarebbe stata erroneamente ritenuta applicabile nel caso di specie, in quanto dall’istruttoria svolta sarebbe emerso che il proposto e i suoi familiari nel periodo dal 2004 al 2016 hanno percepito redditi di lavoro sufficienti a consentigli “una vita serena”.

L’eventuale percezione di redditi illeciti, dunque, non sarebbe stata destinata al sostentamento del proposto e dei suoi familiari, ma solo all’acquisto di beni immobili.

La pericolosità del proposto, dunque, sarebbe stata affermata dalla Corte di appello in violazione dell’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011, solo sulla base del reinvestimento dei proventi dei reati fiscali accertati a carico degli amministratori delle società ritenute nella disponibilità di A.A.

Nessun rilievo, inoltre, potrebbe assumere la “sperequazione” tra i “redditi ufficiali” e gli investimenti immobiliari effettuati nel periodo di pericolosità ritenuta dai giudici di merito, in quanto questo sindacato sarebbe solo successivo ed eventuale rispetto alla verifica della forma di pericolosità contestata.

 

3.2. Con il secondo motivo, i difensori hanno censurato l’inosservanza dell’obbligo di motivazione sancito dall’art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011 e la violazione degli artt. 16, lett. a), 4, lett. c) e 1 lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011 in relazione alla determinazione del c.d. perimetro di pericolosità sociale.

I giudici di appello illegittimamente avrebbe posto a fondamento del giudizio di pericolosità sociale condanne, riportate dai prestanome C.C. e D.D., per il reato di cui all’art. 10-bis del D.Lgs. 10 marzo 200, n. 74, per fatti risalenti all’anno 2004, in quanto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 175 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23) – nella parte in cui ha inserito le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” nel testo dell’art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e dello stesso art. 10-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 limitatamente alle parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o”.

Per effetto di tali pronuncia, le condotte contestate di violazione dell’art. 10-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 richiamate nel provvedimento impugnato non sarebbero più penalmente rilevanti, in quanto, essendosi risolte nel mero mancato versamento delle ritenute risultanti dal controllo automatizzato delle dichiarazioni mod. 770 per l’anno 2004, come risulta dagli allegati 36 e 28 della nota della Guardia di Finanza del 21 febbraio 2022, costituirebbero meri illeciti amministrativi.

 

3.3. Con il terzo motivo, i difensori hanno eccepito l’inosservanza dell’obbligo di motivazione sancito dell’art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011 e la violazione degli artt. 16, lett. a), 4, lett. c) e 1 lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011.

La Corte di appello, infatti, avrebbe illegittimamente disposto la confisca di beni acquistati dal proposto tra il 2005 nel 2011 sulla base di una fattispecie (l’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011), che, secondo quando statuito dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, ha ricevuto una “tipizzazione giurisprudenziale” soltanto in epoca successiva.

I giudici di appello, peraltro, avrebbe motivato in modo solo apparente su questa censura.

La fattispecie di pericolosità sociale contestata al proposto sarebbe, dunque, stata priva di base legale, per difetto di prevedibilità ai sensi dell’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, anteriormente alla sua “tipizzazione giurisprudenziale”.

Attualmente sarebbero, inoltre, pendenti innanzi alla Corte Edu numerosi procedimenti relativi a questa questione di diritto (ricorso n. 76967/17, Perozzi c. Italia e diciassette altri analoghi ricorsi).

 

3.4. Con il quarto motivo i difensori hanno dedotto l’inosservanza dell’obbligo di motivazione sancito dall’art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011 e la violazione all’art. 24 D.Lgs. n. 159 del 2011, in quanto la Corte di appello non avrebbe motivato in ordine alle censure proposte in grado di appello al fine di assolvere all’onere giustificativo della legittima provenienza dei beni confiscati.

La Corte di appello non avrebbe contrapposto alcun argomento alle conclusioni del consulente di parte, volte a dimostrare che la ristrutturazione del fabbricato rurale, poi adibito a ristorante, e la ricostruzione dell’immobile pertinenziale della Locanda (Omissis) sono state finanziate attingendo a risorse lecite.

Il dr. E.E. ha, inoltre, dimostrato che anche gli immobili siti in Paratico e Telgate sarebbero stati acquistati attingendo a risorse lecite.

I giudici di appello avrebbero travisato le risultanze istruttorie su tali punti e la confisca dovrebbe essere limitata a una sola quota dell’immobile di Paratico pari all’importo della provvista illecita.

 

4. L’avvocato Andrea Fares, difensore e procuratore speciale dei terzi interessati Ornella B.B., in proprio e quale legale rappresentante prò tempore di (Omissis) di B.B. E C. Snc e di (Omissis) Srl, ha proposto due motivi di ricorso.

 

4.1. Con il primo motivo, il difensore ha dedotto la violazione di legge in ordine alla mancata distinzione tra soggetto giuridico utilizzatore del bene e il bene stesso al fine di confisca e all’ablazione di un bene acquistato al di fuori del periodo (tra il 2005 e il 2015) nel quale si è manifestata la pericolosità sociale del proposto.

Il ricorrente premette che la società (Omissis) di B.B. Snc è stata costituita nel 2004 da B.B., moglie di A.A., con fondi propri di provenienza lecita, prima del periodo di manifestazione della pericolosità del A.A.; l’attività di ristorazione è stata svolta in locali affittati con canoni pagati da A.A. e poi dall'(Omissis) srl con ricavi legittimamente ottenuti.

Sarebbe, dunque, irrilevante che i successivi lavori di ristrutturazione e ampliamento dell’immobile siano stati finanziati con fondi di provenienza illecita.

L’attività di impresa esercitata dalla (Omissis) di B.B. E C. Snc tramite la Locanda (Omissis) sarebbe pienamente lecita e da sempre autosufficiente e, dunque, la Corte di appello avrebbe dovuto restituire i conti correnti intestati a questa società e il suo capitale sociale, in luogo della confisca disposta.

I giudici della misura prevenzione, peraltro, non confrontandosi con le censure proposte dalla difesa, non avrebbero operato lo scorporo di quanto sarebbe stato frutto di attività delittuosa e di quanto, comunque, sarebbe derivato dall’esercizio di attività lecita d’impresa nell’immobile della società ricorrente.

Anche qualora i lavori di ristrutturazione e di ampliamento dell’immobile della Locanda (Omissis)fossero stati frutto del reimpiego di risorse di provenienza illecita, la Corte di appello avrebbe dovuto operare lo scorporo, al fine della confisca, di quanto frutto di attività lecita da quanto, invece, provento di attività illecita.

 

4.2. Con il secondo motivo, il difensore ha censurato la violazione di legge quanto alla confisca dell’appartamento sito a Bolgare (BG) e del box di pertinenza, deducendone la provenienza dall’acquirente F.F., madre della ricorrente, e la liceità della provvista utilizzata.

La Corte di appello di Milano non si sarebbe, infatti, confrontata con le censure proposte dalla difesa volti a dimostrare la carenza di pericolosità sociale di A.A. dal 1969 al 2011 e che il reddito non dichiarato era lecito.

 

5. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 10 aprile 2025, il Procuratore generale, (Omissis), ha chiesto di rigettare i ricorsi.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi devono essere dichiarati infondati.

 

2. Con il primo motivo, i difensori hanno dedotto la violazione degli artt. 16, lett. a), 4), lett. c), e 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in relazione alla ritenuta destinazione dei proventi illeciti al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento del proposto e della sua famiglia.

 

3. Il motivo è infondato.

 

3.1. L’art. 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 sancisce che le misure di prevenzione si applicano, tra l’altro, a “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”.

La Corte d’Appello ha ritenuto sussistente, con riferimento al ricorrente, questa forma di pericolosità generica nei confronti del ricorrente, ritenendolo un “evasore fiscale seriale”.

I giudici di appello hanno fatto applicazione del costante principio della giurisprudenza di legittimità che ascrive a questa categoria i soggetti dediti in modo continuativo a condotte di evasione degli obblighi fiscali che assumono rilevanza penale.

La Corte di appello ha, inoltre, disatteso le censure proposte dai difensori del ricorrente, rilevando che nella nozione di “soddisfacimento delle proprie esigenze di vita” rientra non solo il mero sostentamento quotidiano, ma tutto ciò che inerisce alle scelte di vita dell’individuo, compresi gli investimenti finanziari o immobiliari che possano garantire a sé e alla propria famiglia un futuro agiato e privo di preoccupazioni economiche.

 

3.2. Questa interpretazione è corretta.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019 ha precisato, con riferimento alla formulazione all’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011, che ” (L)e “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto”, di cui il Tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito”.

Perché ricorra questa forma di pericolosità sociale occorre, dunque, che il proposto abbia commesso delitti abitualmente, che gli stessi abbiano generato profitti e che questi costituiscano o abbiano costituito in una determinata epoca “l’unico reddito o una componente significativa di tale reddito”.

I giudici di merito hanno fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto hanno rilevato che il ricorrente vive abitualmente dei proventi di reati fiscali e di bancarotta, determinando una tendenziale confusione tra il patrimonio di origine lecita e gli incrementi derivanti da condotte penalmente illecite di evasione tributaria (Sez. U, sent. n. 33451 del 29/05/2014, Repaci e altri, Rv. 260244; Sez. 1, n. 32032 del 10/06/2013, De Angelis, Rv. 2564).

Gli accertamenti reddituali hanno individuato in Euro 95.000 annui la media del reddito familiare nel periodo di pericolosità sociale, ai quali vanno aggiunti i cospicui, documentati investimenti immobiliari realizzati in quel periodo, ampiamente eccedenti la capacità economica del nucleo familiare, che, dunque, secondo il lessico della Corte costituzionale, hanno costituito una “componente significativa” del reddito del proposto.

Sulla base di questi rilievi i giudici di appello hanno motivatamente desunto che i risparmi tributari e gli altri proventi illeciti sono stati destinati alle esigenze familiari, non tanto nel senso di mero sostentamento, quanto nel senso di costruzione di una complessiva agiatezza.

Nella corretta esegesi della Corte dì appello, dunque, nell’accertamento volto a verificare se il proposto viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, non si deve far riferimento solo al sostentamento quotidiano, ma al complessivo reddito che consenta di garantire al proposto e ai propri congiunti uno stile di vita agiato e privo di preoccupazioni economiche.

La stessa formulazione testuale dell’art. 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, del resto, impone al giudice della misura di prevenzione, per verificare se il proposto viva o meno “abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, di riferirsi non già al reddito di sussistenza, ma di tener conto del suo “tenore di vita”.

La giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, precisato che, perché sia integrata la fattispecie di pericolosità delineata dall’art. 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, occorre che la quota di profitti illeciti abbia sostenuto non necessariamente bisogni primari, ma, anche solo in parte, il tenore di vita complessivo, in quanto il profitto illecito concorre nel, seppure parziale, soddisfacimento dei consumi familiari e consente le operazioni di accantonamento di risorse investite (Sez. 1, n. 349 del 15/06/2017, dep. 2018, Bosco, Rv. 271996 – 01, non massimata sul punto, riferita a profitti illeciti derivanti dal delitto di usura).

 

4. Con il secondo motivo, i difensori hanno censurato l’inosservanza dell’art. 10, comma 2, e dell’art. 16, lett. a), 4, lett. c), e la mancanza di motivazione del decreto, anche in relazione alla determinazione del perimetro di pericolosità sociale, ricomprendendo anche condanne, riportate dai prestanome C.C. e D.D., per il reato di cui all’art. 10-bis del D.Lgs. 10 marzo 200, n. 74, per fatti risalenti all’anno 2004, colpite da sopravvenuta abolitici criminis per effetto della sentenza n. 175 del 2022 della Corte costituzionale.

 

5. Il motivo è inammissibile.

La pericolosità sociale del proposto è stata ritenuta sussistente da parte dei giudici di merito sulla base delle sentenze di condanna per “reati lucrogenetici”, commessi dal 2005 al 2016 dall’interessato, da sua moglie e dai prestanome delle società riconducibili al ricorrente e dal medesimo dirette in via di fatto.

La Corte di appello ha, infatti, rilevato che i giudici di primo grado, pur avendo fatto riferimento nel decreto impugnato al 2003 come epoca di manifestazione iniziale della pericolosità sociale di A.A., in realtà hanno circoscritto il perimetro temporale della pericolosità sociale agli anni dal 2005 al 2015.

Coerentemente i giudici di merito hanno rigettato la richiesta di confisca di prevenzione per gli immobili acquistati in epoca antecedente al 2005 o che non hanno usufruito, nel periodo di manifestazione della pericolosità sociale, di incrementi del loro calore per effetto di interventi edilizi pagati con risorse finanziarie di provenienza illecita o, quanto meno, indimostrata.

Posto, pertanto, che nella concorde valutazione dei giudici di merito il periodo di pericolosità sociale decorre dal 2005, risultano irrilevanti, per carenza di interesse, le censure relative alle condanne per il reato, poi depenalizzato, di cui all’art. 10 bis D.Lgs. 74 del 2000, per fatti risalenti all’anno 2004.

 

6. Con il terzo motivo, i difensori hanno eccepito la violazione dell’art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011 e la carenza di motivazione in ordine all’illegittimità della confisca dei beni acquisiti del proposto tra il 2005 nel 2011 sulla base di una fattispecie normativa (art. 1 D.Lgs. n. 159 del 2011) tipizzata in via giurisprudenziale soltanto in via postuma.

 

7. Il motivo è infondato.

 

7.1. Il motivo si incentra su aspetti obiettivamente problematici dell’attuale disciplina delle misure di prevenzione, in relazione ai quali pendono innanzi alla Corte Edu numerosi procedimenti (ricorso n. 76967/17, Perozzi c. Italia e diciassette altri analoghi ricorsi) e sui quali la Corte Edu ha invitato il Governo italiano a presentare osservazioni.

 

7.2. La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza pubblicata il 23 febbraio 2017, pronunciata nel procedimento n. 43395/09, De Tommaso contro Italia, ha affermato che le previsioni degli artt. 1,

3 e 5 della legge n. 1423 del 1956 si pongono in contrasto con l’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU.

Tali norme di legge non presenterebbero, in particolare, i requisiti di “chiarezza, precisione e completezza precettiva” richiesti dalla CEDU, e precluderebbero pertanto al cittadino di comprendere “quali condotte debba tenere e quali condotte debba evitare per non incorrere nella misura di prevenzione”, e quali condotte integrino la “violazione delle prescrizioni connesse all’imposizione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza”.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 13 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, l’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, nel testo vigente sino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1).

La fattispecie, censurata nella sola parte in cui consente l’applicazione delle misure di prevenzione indicate a “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi”, è affetta da radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza della Corte EDU (de Tommaso) del 2017, secondo la quale le misure di prevenzione disciplinate dall’ordinamento italiano sono legittime in quanto sussista un’idonea base legale, una finalità legittima, e la necessità della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti.

Alla giurisprudenza, infatti, non è stato possibile riempire di significato certo, e ragionevolmente prevedibile ex ante per l’interessato, il disposto normativo in esame, poiché sul punto convivono due contrapposti indirizzi interpretativi, che definiscono – in modo generico e tutt’altro che congruente – il concetto di “traffici delittuosi” e pertanto non appaiono in grado di selezionare, nemmeno con riferimento alla concretezza del caso esaminato dal giudice, i delitti la cui commissione possa costituire il ragionevole presupposto per un giudizio di pericolosità del potenziale destinatario della misura. Né siffatte nozioni di “traffici delittuosi”, dichiaratamente non circoscritte a delitti produttivi di profitto, potrebbero mai legittimare dal punto di vista costituzionale misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti, difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione dì ragionevole origine criminosa dei beni, che costituisce la ratio di tali misure (C. cost., sent. n. 29 del 27 febbraio 2019).

La Corte costituzionale, con la medesima sentenza, ha, invece, rigettato le eccezioni di legittimità costituzionale, riferite complessivamente agli artt. 13, 25, secondo comma, 42 e 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 1 del Prot. addiz. CEDU – nella parte in cui consentono di applicare le suddette misure di prevenzione ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lett. b), del D.Lgs. n. 159 del 2011, ossia a “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”.

Infatti, secondo la Corte costituzionale, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza della Corte EDU (de Tommaso) del 2017, risulta possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie censurata, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” – oltre che in quali “modi” – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.

 

7.3. La pronuncia della Corte costituzionale ha, tuttavia, lasciato insoluto il tema dell’efficacia delle misure di prevenzione, personali e reali, disposte con riferimento a forme di pericolosità sociale accertata anche con riferimento a periodi anteriori a quello nel quale è intervenuta l’interpretazione tassativizzante della giurisprudenza, tema specificamente proposto dai difensori del ricorrente.

 

7.4. La Corte di appello di Milano ha rigettato le censure proposte sul punto dai difensori del proposto, precisando che l’originaria carenza di determinatezza della tassatività della fattispecie di pericolosità sociale che ha legittimato l’applicazione della confisca di prevenzione nei confronti di A.A., ritenuta superata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, ad opera dell’opera di chiarificazione e di progressiva tassativizzazione della giurisprudenza di legittimità, non rileva, in quanto in questa materia non opera il principio di irretroattività; alle misure di prevenzione patrimoniale non si applica il principio della conoscibilità e della prevedibilità della propria condotta, quale corollario dei principi di legalità e irretroattività della legge penale, sancito dall’art. 2 cod. pen., in quanto le stesse, come le misure di sicurezza, sono disciplinate dalla legge vigente al momento della loro applicazione o esecuzione ai sensi dell’art. 200 cod. pen.

 

7.5. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, ha rilevato che “(Nelle numerose occasioni in cui la Corte EDU ha sinora esaminato censure relative all’applicazione della confisca di prevenzione, mai è stata riconosciuta natura sostanzialmente penale alle misure di prevenzione ed è “stato conseguentemente escluso che ad essa possano applicarsi gli artt. 6, nel suo volet pénal, e 7 CEDU; e si è invece affermato che la misura rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1, Prot. addiz. CEDU, in ragione della sua incidenza limitatrice rispetto al diritto di proprietà (ex multis, Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; decisione 15 giugno 1999, Prisco contro Italia; sentenza 22 febbraio 1994, Raimondo contro Italia)”.

Secondo la Corte costituzionale, “pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU). Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente -: a) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU)…”.

La Corte Edu ha anche recentemente ribadito che la confisca di prevenzione prevista dall’ordinamento italiano non ha natura sanzionatoria, ma ripristinatoria rispetto all’arricchimento ingiustificato, in quanto priva il proposto e/o i terzi interessati dei profitti delle attività illecite presumibilmente commesse dal proposto stesso nel periodo di pericolosità; l’applicazione di tale misura non rientra, pertanto, nella sfera di operatività dell’art. 7 CEDU, né, tantomeno, implica la formulazione di un’accusa penale, cosicché non operano le garanzie della presunzione di innocenza di cui all’art. 6, par. 2, CEDU e del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. 7 CEDU (Corte EDU, 21 gennaio 2025, Garofalo e altri c. Italia).

La giurisprudenza della Corte Edu, con riferimento alla protezione del diritto di proprietà, ha, del resto, rilevato che perché una misura limitativa o privativa della proprietà, come la confisca, sia convenzionalmente legittima e conforme all’art. 1 Prot. 1 CEDU, occorre che vi sia un’adeguata “base legale”; la conformità del potere esercitato nel caso di specie alla base legale comprende tanto il diritto di origine legislativa, quanto quello giurisprudenziale, che deve esprimere regole “accessibili” e “precise”, che consentano al singolo di prevendere le conseguenze del proprio comportamento (ex piurimis: Corte EDU, 28 giugno 2018, G.I.E.M. Srl e altri c. Italia, par. 242 e par. 246M; Corte EDU, 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia, par. 76-78; Corte EDU, 30 maggio 2005, Belvedere Alberghiera c. Italia, par. 57; Corte EDU, 5 gennaio 2000, Beyeler c. Italia, par. 109).

 

7.6. Il tema posto dalla difesa, tuttavia, non attiene all’applicazione del divieto di irretroattività delle disposizioni penali alle misure di prevenzione, ma alla prevedibilità dell’ingerenza statuale sul diritto di proprietà del proposto costituita dalla confisca di prevenzione, in conformità alla CEDU.

L’argomentazione della Corte di appello di Milano, dunque, non considera che, fermo restando la natura non penale delle misure di prevenzione, il ricorrente, ha censurato il difetto di base legale (prevedibile e certa) per l’applicazione della confisca disposta nei propri confronti, in quanto fondata su una diagnosi di pericolosità operata con riferimento ad un ambito temporale anteriore alla progressiva tipizzazione operata dalla giurisprudenza di legittimità.

 

7.7. Ritiene, tuttavia, il Collegio che il difetto di prevedibilità censurato dal ricorrente non sia ravvisabile nel caso di specie.

La giurisprudenza di legittimità ha rilevato che, in tema di misure di prevenzione, la lettura “tassativizzante” della categoria di pericolosità generica di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 6 settembre 2011 n. 159, affermata nella sentenza della Corte cost. n. 24 del 2019, alla luce dei principi espressi dalla Corte Edu, Grande Camera, nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, trova applicazione anche con riferimento alle condotte antecedenti alla pronuncia del giudice delle leggi, la quale ha recepito l’interpretazione consolidata che la Corte di cassazione ha dato del contenuto della norma, consacrandola quale diritto vivente, sulla cui base sono state ritenute la sufficiente determinatezza della fattispecie, nonché la prevedibilità delle conseguenze della violazione (Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559 – 01; Sez. 6, n. 20557 del 10/06/2020, Dezi, Rv. 279556 – 01).

La sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, nella parte in cui ha ritenuto la compatibilità dell’art. 1 D.Lgs. n. 159 del 2011 con la Costituzione e con la Convenzione Edu, ha preso atto di un percorso giurisprudenziale pluriennale, avviato prima della pronuncia De Tommaso v. Italia, e conclusosi dopo la sua pronuncia, che ha definito in modo tassativo i parametri utili per la valutazione della condizione di pericolosità: tale sentenza non ha infatti individuato alcuna cesura temporale tra un ipotetico periodo in cui la norma era “generica” e quello successivo in cui la interpretazione giurisprudenziale avrebbe definito la base legale per le valutazioni in ordine alla sussistenza della condizione di pericolosità (Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv, 283559 – 01).

Ritiene, peraltro, il Collegio che con riferimento alle condotte illecite contestate al ricorrente e poste a fondamento della diagnosi di pericolosità sociale non sia ravvisabile alcun difetto di base legale.

La progressiva tipizzazione delle categoria di coloro che vivono “abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, operata dalla giurisprudenza di legittimità è venuta in rilievo per le “fattispecie di confine”, di incerta ascrizione all’ambito applicativo del precetto, e non già per gli autori seriali di condotte di evasione e di frode fiscale, ascritti dalla giurisprudenza di legittimità senza incertezze alla categoria di pericolosità contestata al proposto anche in epoca largamente anteriore alla pronuncia della Corte Edu De Tommaso.

La giurisprudenza di legittimità ha statuito che colui che è dedito in modo continuativo a condotte di evasione degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosità sociale che lo colloca nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, potendo pertanto essere oggetto di confisca i beni a lui derivanti dal reinvestimento della provvista finanziaria così ottenuta, i quali possono essere considerati provento del delitto (ex plurimis: Sez. 1, n. 53636 del 15/06/2017, Gargano, Rv. 272167-91, in motivazione la Corte ha precisato che il reinvestimento in attività commerciali dei proventi dell’evasione fiscale abituale determina una confusione tra attività lecite ed illecite che la normativa in materia di misure di prevenzione intende evitare e che cresce nella successione dei periodi d’imposta).

La giurisprudenza di questa Corte ha, peraltro, chiarito che, in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il mero status di evasore fiscale non è sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima l’applicazione della confisca, considerato che i requisiti di stretta interpretazione necessari per l’assoggettabilità a tale misura sono indicati dagli artt. 1 e 4 del D.Lgs. n. 159 del 2011, e concernono i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi e che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, requisiti non automaticamente e necessariamente sovrapponibili all’evasore fiscale, in sé e per sé considerato, (Sez. 5, n. 6067 del 06/12/2016, dep. 2017, Malara, Rv. 269026 – 01, nella specie la Corte, dopo aver precisato che anche i delitti tributari possono consentire l’applicazione delle misure di prevenzione, ha annullato il decreto di confisca dei beni del proposto, adottato senza precisare, tra l’altro, il superamento delle soglie di punibilità nel corso del tempo e in relazione alle norme in allora vigenti contemplate per diversi delitti; cfr. anche Sez. 5, n. 9226 del 19/09/2014, non massimata).

Questa Corte, inoltre, nella decisione Sez. 1, n. 32032 del 10/06/2013, De Angelis, Rv. 256450 – 01 si è pronunziata sul tema, ritenendo il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi tributari “(scrivibile” nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011, in quanto il soggetto dedito – in modo massiccio e continuativo – a condotte elusive degli obblighi contributivi realizza, in tal modo, una provvista finanziaria che è indubbiamente da considerarsi quale “provento” di delitto.

Anche ove la quota indebitamente trattenuta venga successivamente reinvestita in attività dì tipo commerciale, i profitti di tale attività risultano inquinati dalla metodologia di reinvestimento della frazione imputabile alle pregresse attività elusive; pertanto, ove il proposto tragga mezzi di sostentamento – anche in via di fatto – da tali attività, può senza dubbio affermarsi che costui “viva abitualmente, anche in parte” con i proventi di attività delittuose, in ciò risultando integrato il presupposto di legge (Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264322-01; sez. 1, n. 39204 del 17/5/2013, Ferrara ed altro, Rv. 256140; sez. 1, n. 31209 del 24/3/2015, Scagliarini, Rv. 264321, per il quale il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosità sociale che lo colloca nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 159 del 2011).

Le Sezioni unite di questa Corte hanno, inoltre, affermato che “la confisca di prevenzione persegue un più ampio fine di interesse pubblico volto all’eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta provenienza illegittima – siccome appartenenti a soggetti abitualmente dediti a traffici illeciti dai quali ricavano i propri mezzi di vita – che sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto, a prescindere non solo dal perdurare a suo carico di una condizione di pericolosità sociale attuale, ma anche dall’eventuale provenienza dei cespiti da attività sommerse fonte di evasione fiscale…Il soggetto dedito – in modo massiccio e continuativo – a condotte elusive degli obblighi contributivi realizza, in tal modo, una provvista finanziaria che è indubbiamente da considerarsi quale “provento” di delitto inteso quale sostanziale vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato, secondo l’insegnamento di Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni Samir, Rv. 205707. Ora, lì dove la quota indebitamente trattenuta venga successivamente reinvestita in attività di tipo commerciale (come nel caso di specie) è al contempo evidente che i profitti di tale attività risultano inquinati dalla metodologia di reinvestimento della frazione imputabile alle pregresse attività elusive. In caso di evasione fiscale si attua inevitabilmente reimpiego delle utilità che ne siano frutto nel circuito economico dell’evasore, con una confusione di utilità lecite – illecite che è proprio quello che la normativa vuole impedire, confusione che si implementa nelle successione dei periodi d’imposta (con una sorta di “anatocismo dell’illecito” per l’inevitabile effetto moltiplicatore)” (Sez. U. n. 33451 del 29/5/2014, Repaci, Rv. 260244).

Anche sotto il vigore della disciplina previgente, la giurisprudenza di legittimità ha univocamente considerato pericoloso ai sensi dell’art. 1 della I. 27 dicembre 1956, n. 1423) il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi contributivi e che reinvesta i relativi profitti in attività commerciali, vivendo così abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (Sez. 1, n. 32032 del 10/06/2013, De Angelis, Rv. 256450 – 01) e ha ritenuto assoggettabili a confisca di prevenzione anche i beni derivanti da illeciti di natura diversa rispetto a quelli di associazione mafiosa, compresi quelli tributari (Sez. 6, n. 258 del 23/01/1998, Bonanno, Rv. 210834 – 01; Sez. 1, n. 265 del 05/02/1990, Montalto, Rv. 183641 – 01).

 

7.8. Sulla base di questi rilievi, dunque, non è ravvisabile alcun difetto di prevedibilità della confisca disposta nei confronti del proposto che, come il ricorrente, si sia reso autore seriale di delitti di frode fiscale, di bancarotta, di truffa e riciclaggio.

 

8. Con il quarto motivo i difensori hanno dedotto la violazione dell’art. 10, comma 2, in relazione all’art. 24 D.Lgs. n. 159 del 2011, in quanto la Corte di appello non avrebbe motivato in ordine alle censure proposte in grado di appello al fine di assolvere all’onere giustificativo della legittima provenienza dei beni confiscati.

 

9. Il motivo è fondato.

Il provvedimento impugnato ha considerato tutte le censure proposte dalla difesa relativamente agli immobili in uso alla Locanda (Omissis) e a quelli acquistati da (Omissis) srl, confutandole espressamente e motivatamente.

Da un lato, la Corte di appello ha richiamato l’analitica disamina e la conseguente decisione dei giudici di primo grado, cui già erano state indirizzate medesime censure, dall’altro ha formulato proprie osservazioni, concludendo per l’inattendibilità delle osservazioni del perito di parte e per la provenienza illecita dei beni, sia quanto agli immobili siti in Trescore Balneario in uso a Locanda (Omissis) Srl conferiti da A.A. in (Omissis) srl nel dicembre del 2010, che gli immobili acquistati da (Omissis) srl tra il 2006 e il 2011.

Una volta dimostrata la sproporzione tra redditi e investimenti -come occorso nel caso in esame, l’onere difensivo della dimostrazione della legittima provenienza di un bene non può essere assolto dalla mera allegazione di una plusvalenza derivante dalla operazione commerciale di acquisto e rivendita di altro bene di proprietà del destinatario della misura, ove manchi la giustificazione della provenienza delle risorse utilizzate per l’acquisizione del bene stesso.

Il vizio di mera apparenza della motivazione denunciata dal ricorrente è, dunque, insussistente.

Nel procedimento di prevenzione, peraltro, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575, e ribadito dall’art. 10, comma terzo, del D.Lgs. 159 del 2011; ne consegue che, in tale ambito, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n. 1423 del 56, il caso della motivazione inesistente o meramente apparente (ex plurimis: Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; Sez. 2, n. 20968 del 06/07/2020, Noviello, Rv. 279435 – 01; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Pandico, Rv. 266365).

Il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione è, dunque, limitato alla violazione di legge e non si estende al controllo dell’iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto assente (ex plurimis: Sez. 6, n. 35044 del 08/03/2007, Bruno, Rv. 237277), e non può essere dedotta come vizio di motivazione mancante o apparente la sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o che, comunque, risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246).

 

10. L’avvocato Fares, con il primo motivo proposto nell’interesse dei propri assistiti, ha dedotto la violazione di legge in ordine alla mancata distinzione tra soggetto giuridico utilizzatore del bene e il bene stesso al fine di confisca e all’ablazione di un bene acquistato al di fuori del periodo nel quale si è manifestata la pericolosità sociale del proposto.

 

11. Il motivo è infondato.

 

La Corte di appello ha, infatti, motivatamente rilevato che, anche se l’acquisto è avvenuto nel 2004, fuori dal periodo di pericolosità, il complesso immobiliare è stato ristrutturato successivamente con capitali illeciti, acquistando un notevole incremento di valore, come accertato dalla Guardia di Finanza.

I giudici di appello hanno, inoltre, motivato sulla richiesta di scorporo, rilevando che lo stesso non è ammissibile, in quanto l’intera attività economica svolta dalla Locanda (Omissis) era risultata “inquinata” dall’origine illecita delle risorse finanziarie nella stessa investite da A.A.

La Corte di appello ha, dunque, motivato compiutamente e congruamente sul punto e i rilievi addotti dalla difesa sono, invero, intesi a pervenire ad una diversa valutazione delle risultanze probatorie, non consentita in sede di legittimità.

 

12. Con il secondo motivo, il difensore ha censurato la violazione di legge quanto alla confisca dell’appartamento sito a Bolgare, deducendone la lecita provenienza dall’acquirente F.F. (madre della ricorrente) e la liceità della provvista utilizzata.

 

13. Anche questo motivo è infondato.

I giudici di merito hanno accertato che l’acquisto dell’immobile in Bolgare è stato realizzato con denaro proveniente da un conto corrente intestato alla suocera di A.A., ma alimentato da risorse finanziarie del predetto e di sua moglie (condannata per riciclaggio) nel periodo di pericolosità sociale di A.A.

Anche sul punto, dunque, i giudici della prevenzione hanno effettivamente motivato, disconoscendo la legittima provenienza dell’immobile.

Inammissibili sono, peraltro, le censure svolte dalla ricorrente, quale terza interessata, in ordine all’assenza di pericolosità sociale di A.A.

Le Sezioni unite di questa Corte, infatti, all’udienza del 27 marzo 2025, sono state chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: “se, in caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittiziamente intestati a un terzo, quest’ultimo possa rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità e la proprietà dei beni confiscati ovvero sia legittimato a contestare anche i presupposti per l’applicazione della misura, quali la condizione di pericolosità, la sproporzione fra il valore del bene confiscato e il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso”.

Le Sezioni unite, secondo quanto risulta dall’informazione provvisoria n. 3 del 2025 diffusa all’esito della camera di consiglio, hanno statuito che “in caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittiziamente intestati a un terzo, quest’ultimo può rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità dei beni confiscati”.

 

14. Alla stregua di tali rilievi, i ricorsi devono essere rigettati.

I ricorrenti devono, pertanto, essere condannati, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

Conclusione

Così deciso in Roma il 6 maggio 2025.

 

Depositata in Cancelleria il 25 settembre 2025.

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