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Cassazione penale Sez. VI, 25/09/2025, n. 31907

Massima

È inammissibile il ricorso per cassazione che, pur deducendo formalmente un vizio di motivazione, si risolve in una sollecitazione a un rinnovato esame delle risultanze processuali. La valutazione e interpretazione delle prove, come il contenuto delle intercettazioni, è riservata in via esclusiva al giudice di merito.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione, nel processo penale, disciplinato dagli art. 606 e ss. c.p.c, è un mezzo di impugnazione ordinario, costituzionalmente previsto avverso i provvedimenti limitativi della libertà personale ed esperibile negli altri casi previsti dal codice di procedura penale, tramite il quale l’impugnante lamenta un errore di diritto compiuto dal giudice nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale (c.d. error in iudicando) o di diritto processuale (c.d. error in procedendo).

Legittimata a ricorrere è la parte che vi abbia interesse e conseguentemente le parti necessarie quali l’imputato (a mezzo di difensore abilitato al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori) e il pubblico ministero. Altresì, possono proporre ricorso anche le parti ritualmente costituite come la parte civile, civilmente responsabile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

I giudici della Cassazione possono decidere soltanto nell’ambito dei motivi palesati dal ricorrente, in quanto il giudizio verte sulla fondatezza di tali motivi che devono corrispondere alle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606 c.p.p.:

  • eccesso di potere;
  • error in iudicando;
  • error in procedendo;
  • mancata assunzione di una prova decisiva;
  • carenza o manifesta illogicità della motivazione.

Il ricorso può essere presentato da una parte o da un suo difensore, che deve essere iscritto ad un albo speciale predisposto dalla Corte stessa, (in mancanza viene nominato uno d’ufficio), quindi il Presidente della Cassazione assegna il ricorso ad una delle sei sezioni della Corte a seconda della materia e di altri criteri stabiliti dall’ordinamento giudiziario. Se rileva l’inammissibilità del ricorso, lo assegna alla VII Sezione Penale (c.d. Sezione Filtro), composta dai magistrati di Cassazione delle altre Sezioni Penali che vi si alternano a rotazione biennale. Entro 30 giorni la sezione adìta si riunisce in Camera di Consiglio e decide se effettivamente esiste la causa evidenziata dal Presidente, in mancanza rimette gli atti a quest’ultimo. Come nel procedimento civile, la Cassazione si riunisce a “Sezioni Unite” quando deve decidere una questione sulla quale esistono pronunce contrastanti della Corte di Cassazione stessa o per questioni di importanza rilevante.

Qualora non si proceda in camera di consiglio, l’art. 614 c.p.p. prevede l’ovvia fase dibattimentale. Particolarità è che la sentenza non viene emanata dopo la chiusura del dibattimento, ma subito dopo il termine dell’udienza pubblica. Tuttavia il presidente può decidere di differire la deliberazione ad un’udienza successiva se le questioni sono numerose o particolarmente importanti e complesse.

Sono quattro i tipi di sentenza che la Corte può emettere:

  • di inammissibilità;
  • di rigetto;
  • di rettificazione;
  • di annullamento (con rinvio o senza rinvio).

Come per il procedimento civile, anche nel processo penale è previsto il “ricorso per saltum“, cioè dal primo grado direttamente in Cassazione (art. 569 c.p.p.), è importante precisare che non si può ricorrere per saltum per i motivi alle lettere d) ed e) dell’art. 606 c.p.p. (prove non ammesse in giudizi di grado inferiore e per illogicità o motivazione carente nella sentenza) in quanto la Cassazione ha potere cognitivo di merito molto ristretto.

Ambito oggettivo di applicazione

SVOLGIMENTO

1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria, con decreto emesso in data 5 maggio 2021, ha disposto il rinvio a giudizio di (Omissis) per il delitto di cui agli artt. 99, 416-bis cod. pen., commesso in R e nei territori limitrofi dal giugno 1997 sino al 31 luglio 2020 (capo 1), per il delitto di cui agli artt. 99, 629, secondo comma, in relazione agli artt. 628, comma 3, n. 3) e art. 416-bis.1 cod. pen., commesso in R, ai danni di B.B., in data prossima al 25 novembre 2014 (capo 2), per il delitto di cui agli artt. 99, cod. pen., artt. 2, 4 e 7 della I. 895/1967, art. 416-bis.1 cod. pen., commesso in R in data anteriore e prossima al 16 giugno 2017 (capo 3), per il delitto di cui agli artt. 99, 612, secondo comma, 416-bis.1 cod. pen., commesso in R, ai danni di C.C., in data anteriore e prossima al 16 giugno 2017 (capo 4), per il delitto di cui agli artt. 110, 56-629, in relazione agli artt. 628, comma 3, n. 3) e art. 416-bis.1 cod. pen., commesso ai danni di D.D. in R sino all’8 dicembre 2012 (capo 5), per il delitto di cui agli artt. 110, 513-bis, 416-bis. cod. pen., commesso ai danni di D.D., in R sino all’8 dicembre 2012 (capo 6), per il delitto di cui agli artt. 99, 110 cod. pen., artt. 2 e 4 della I. 895/1967, art. 416-bis.1 cod. pen., commesso in R il 16 giugno 2017 (capo 7), per il delitto di cui agli artt. 99, 110 cod. pen., artt. 2, 4 e 7 della I. 895/1967, art. 416-ò/’s.l cod. pen., commesso in R il 16 giugno 2017 (capo 8), per il delitto di cui agli artt. 99, 110 cod. pen., artt. 23, commi 1, 3 e 4, L. 110/1975, art. 416-bis.1 cod. pen., commesso in R il 16 giugno 2017 (capo 9), per il delitto di cui agli artt. 110., 648, 416-bis.1 cod. pen., commesso in R il 16 giugno 2017 (capo 10), per il delitto di cui agli artt. 99, 110, 512-bis, 416-bis.1 cod. pen., accertato in R sino al 17 ottobre 2017 (capo 13) e per il delitto di cui agli artt. 99, 110, 512-bis, 416-bis.1. cod. pen. in R il 2 luglio 2012; reati tutti aggravati dalla recidiva specifica e reiterata nel quinquennio.

Secondo l’ipotesi di accusa, C.C. sarebbe stato promotore, dirigente e organizzatore della cosa di ‘ndrangheta “E.E.”, operante in prevalenza nel quartiere (Omissis) di R e nella zone limitrofe; l’imputato, in particolare, avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e dalle condizioni di omertà imperanti nel predetto territorio, avrebbe dato indicazioni operative agli associati, anche in relazione alla detenzione e alla gestione delle armi nella loro disponibilità, avrebbe indicato le imprese da sottoporre ad estorsione, avrebbe deciso in ordine alle “autorizzazioni” per l’apertura degli esercizi commerciali, avrebbe stabilito le strategie criminali per acquisire maggior peso all’interno della cosca di appartenenza, mantenendo i contatti con gli esponenti apicali delle altre cosche reggine, avrebbe posto in essere tentativi di corruzione di magistrati e avrebbe mantenuto rapporti con dipendenti pubblici per apprendere notizie segrete.

 

2. Il Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza emessa in data 27 aprile 2023, ha dichiarato l’imputato responsabile dei reati a lui ascritti ai capi 1), 5) e 12), ritenuto il primo comma dell’art. 416-bis cod. pen. in relazione al capo 1), e riconosciuta la recidiva e la continuazione tra i reati contestati, lo ha condannato alla pena di ventidue anni, due mesi e venti giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Il Tribunale ha, inoltre, dichiarato l’imputato interdetto dai pubblici uffici in perpetuo, ha disposto la confisca delle armi in sequestro e ha condannato l’imputato al risarcimento dei danni, da liquidarsi in sede civile, e alla rifusione delle spese del grado in favore delle parti civili D.D. e Città metropolitana di Reggio Calabria.

Il Tribunale ha, da ultimo, assolto l’imputato dalle residue imputazioni di cui ai capi 2), 3), 4), 6), 7), 8), 9), 10) e 13).

 

3. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, appellata dall’imputato, ritenuta la continuazione con il reato giudicato dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria con sentenza del 23 gennaio 2002, ha rideterminato la pena inflitta in ventidue anni di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata.

La Corte di appello ha, inoltre, condannato l’imputato a rifondere alle parti civili D.D. e Città metropolitana di Reggio Calabria le spese del grado.

 

4. Gli avvocati Corrado Politi e Antonino Priolo, difensore di C.C., hanno proposto ricorso avverso tale sentenza e ne hanno chiesto l’annullamento, deducendo cinque motivi e, segnatamente

1 – l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione e il travisamento per omissione delle risultanze delle intercettazioni con riferimento al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa contestata al capo 1).

Erroneamente i giudici di merito avrebbero ritenuto che le dichiarazioni accusatorie del collaboratore di giustizia F.F. avessero trovato conferma e riscontri nelle intercettazioni telefoniche, che, invece, avevano confutato l’ipotesi di accusa.

I giudici di appello, in particolare, avrebbero omesso di considerare il contenuto dell’intercettazione n. 92 (n. 1318/17 R.I.T.) della conversazione intervenuta in data 11 settembre 2017 tra G.G., soggetto intraneo al sodalizio diretto, secondo l’ipotesi di accusa, da C.C., e H.H., compagna di quest’ultimo.

In questa conversazione emergerebbe come C.C. avesse esercitato il recesso dall’associazione mafiosa dopo la sua scarcerazione, in quanto, nel periodo di detenzione, era stato abbandonato dai vertici della cosca; queste frasi, peraltro, sarebbe particolarmente rilevanti, in quanto sono state proferite da un soggetto che era stretto collaboratore di C.C. nel servizio di pompe funebri e, al contempo, intraneo al medesimo sodalizio criminale.

Una significativa conferma sarebbe, peraltro, desumibile dalla conversazione prog. 1034, n. 1318/17 R.I.T., del 20 ottobre 2017, nel corso della quale sarebbe stato proprio C.C. a confermare la propria estraneità alla cosca a G.G., in quanto i propri interessi lavorativi erano ormai confliggenti con quelli della cosca e i loro rapporti erano improntati a una chiara inimicizia.

La Corte di appello, travisando il contenuto di queste intercettazioni, le avrebbe ritenute dimostrative di un ridimensionamento del ruolo di C.C. nella cosca, a causa dei contrasti medio tempore insorti tra il ricorrente e il vertice associativo, e non già di una sua estraneità alla stessa, a partire dalla scarcerazione del 2004.

I giudici di appello avrebbero, dunque, fondato la condanna di C.C. sul pregresso giudicato di condanna per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., quale partecipe della cosca E.E., senza verificare se lo stesso avesse mantenuto il medesimo ruolo all’interno della cosca anche in epoca successiva.

Le dichiarazioni accusatorie rese da F.F., peraltro scarsamente credibile sul periodo successivo alla propria lunga detenzione, dal 2013 sino al 2019, sarebbero connotate da numerose inesattezze e nulla avrebbero aggiunto a quanto già accertato nel precedente processo.

Erronea sarebbe, inoltre, l’interpretazione fornita dai giudici di merito della conversazione captata nell’indagine Teorema Roccaforte nel 2013 tra I.I., considerato reggente di altro schieramento, e la sua compagna J.J., che, in occasione dell’arresto di altro soggetto, non meglio identificato, aveva chiesto se fosse stato arrestato anche C.C.

Fuorviante sarebbe, inoltre, il richiamo operato dalla Corte di appello alla vicenda di B.B., in quanto per la stessa C.C. è stato assolto in primo grado; ancora meno significativa sarebbe, inoltre, la testimonianza resa dal Maresciallo K.K., che avrebbe fatto solo riferimento al servizio giornalistico trasmesso dalla trasmissione televisione “Insider”.

Parimenti irrilevante sarebbe la vicenda (Omissis), richiamata dalla Corte di appello, ma priva di rilevanza penale e non indicativa di alcuna intraneità al sodalizio criminoso.

La Corte, nel ridimensionare il ruolo dell’imputato da promotore a partecipe del sodalizio mafioso, avrebbe, dunque, violato il principio del ragionevole dubbio, che deve governare l’accertamento della responsabilità penale.

2 – l’inosservanza dell’art. 629 cod. pen., in relazione agli artt. 393 cod. pen., 192, 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., e il vizio di motivazione in ordine al delitto di estorsione aggravata contestato al capo 5);

La Corte di appello non avrebbe adeguatamente motivato sulle censure proposte nell’atto di appello dalla difesa in ordine alla credibilità della persona offesa D.D. e alle plurime contestazioni mosse allo stesso dal Pubblico ministero nel corso della deposizione resa in dibattimento su passi determinanti delle proprie dichiarazioni.

La Corte di appello, inoltre, non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite Filardo (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 02), qualificando la condotta contestata al capo 5) quale estorsione e non già quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Le Sezioni unite, infatti, hanno statuito che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si configura nei confronti del terzo nei soli casi in cui questo si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore senza perseguire alcuna diversa finalità ulteriore.

C.C., tuttavia, non avrebbe nutrito alcun interesse proprio nell’avvantaggiare il suo fornitore; anche il ricorrente, come L.L., era, infatti, cliente di M.M.

Erroneamente, inoltre, i giudici di appello avrebbero ritenuto che C.C. avesse mandato G.G. a riscuotere il credito con fare minaccioso.

La richiesta di interessamento di C.C. da parte di M.M., per quanto rappresentato dallo stesso, era derivata dal rapporto di conoscenza che il medesimo aveva sia con C.C. che con L.L. e al fatto che operavano nello stesso settore economico.

L’asserita minaccia, peraltro, non sarebbe stata ritenuta come tale o, comunque, come seria dalla persona offesa.

I giudici di appello, dunque, avrebbero confuso una semplice richiesta di pagamento di un debito con un’estorsione, senza verificare se vi fosse stato un concreto abuso della forza incriminatrice.

I difensori rilevano, inoltre, che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il reato di estorsione non può essere integrato qualora la minaccia non sia idonea a coartare la volontà della vittima, risolvendosi in una mera richiesta di pagamento (e citano in proposito Sez. 6, n. 31432 dell’08/05/2019 e Sez. 2, n. 39872 del 23/06/2015).

3 – l’erronea applicazione dell’art. 512-bis cod. pen. in relazione agli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., e il vizio di motivazione in ordine al delitto di trasferimento fraudolento di valori al capo 12);

La Corte di appello ha ritenuto, senza una adeguata motivazione, che l’intestazione dei beni delle imprese di onoranze funebri Croce Granata e Croce Amaranto fosse diretta ad eludere l’applicazione della disciplina delle misure di prevenzione, ma non avrebbe fornito alcuna sufficiente spiegazione in ordine all’idoneità delle stessa a realizzare tale fine.

La Corte di appello avrebbe ravvisato a fondamento del trasferimento della titolarità di queste aziende vicende processuali (l’arresto di C.C. e il pignoramento dei locali aziendali), senza indagare le cause economiche di tali negozi.

Il passaggio da un’impresa all’altra, pur se intestate a soggetti formalmente diversi, peraltro, non sarebbe sufficiente a configurare un’operazione elusiva delle misure di prevenzione.

I beni dell’impresa Croce Granata, peraltro, non deriverebbero da attività illecite, tali da giustificare l’applicazione di misure di prevenzione, e, dunque, non sarebbero stati effettivamente suscettivi di confisca.

4 – la violazione dell’art. 99 cod. pen., e il vizio di carenza e di illogicità della motivazione sulla recidiva con riferimento al delitto di partecipazione ad un’associazione mafiosa.

Questa aggravante postula una pluralità di fatti di reato, distinti e temporalmente separati, e, dunque, non sarebbe compatibile con un reato di durata, che non si esaurisce in un singolo atto, ma si protrae nel tempo, come statuito da Sez. 6, n. 13421 del 26/02/2008.

La partecipazione ad associazione criminosa per la quale il ricorrente è stato condannato con sentenza passata in giudicato non integrerebbe un fatto distinto, ma il medesimo fatto contestato nel presente procedimento e, dunque, non potrebbe essere considerato un reato separato idoneo a fondare la contestazione della recidiva.

La recidiva, peraltro, non può essere applicata automaticamente, ma deve pur sempre essere valutata sulla base della specificità del reato contestato e delle circostanze che lo caratterizzano.

5 – l’inosservanza dell’art. 416-bis.1 cod. pen. e il vizio di manifesta illogicità della motivazione sul punto.

La Quinta sezione penale, con sentenza n. 44747 del 22 ottobre 2024, sul ricorso proposto dal concorrente C.C., giudicato nelle forme del rito abbreviato, ha escluso l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., contestata in relazione al delitto di intestazione fittizia di beni di cui al capo 12), ritenendo che mancassero sufficienti indizi per ritenere che tale delitto fosse stato commesso con modalità mafiose o per agevolare un’associazione mafiosa.

L’annullamento parziale di questa sentenza pronunciato con riferimento ad un coimputato, dunque, secondo quanto affermato dalle Sezioni unite n. 30372 del 12/06/2012, avrebbe dovuto comportare il riesame della valutazione espressa dalla Corte di appello in relazione al ricorrente e l’esclusione di questa aggravante anche nel presente processo, per evitare conflitti tra giudicati.

Non vi sarebbe alcuna prova che l’intestazione fittizia sia stata realizzata mediante il ricorso a intimidazioni o al metodo mafioso e che sia stata posta in essere al fine di agevolare la cosca E.E. o sottrarre beni all’applicazione delle misure di prevenzione.

La Corte di appello, infatti, si sarebbe limitata ad una enunciazione generica del contesto criminale, senza operare alcuna specifica valutazione delle modalità di commissione del reato.

6 – la violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., e il vizio di carenza e di illogicità della motivazione sul punto, in quanto la Corte di appello avrebbe motivato gli aumenti di pena inflitti in attuazione della disciplina della continuazione in ragione del ruolo apicale assunto nel sodalizio mafioso dall’imputato.

Questo ruolo, tuttavia, non troverebbe conferma nelle risultanze processuali e, dunque, sarebbe ingiustificato l’aumento della pena per la continuazione nella misura determinata dalla Corte di appello nella sentenza impugnata.

Nel processo “Larice 2”, peraltro, non sarebbe stato attribuito al ricorrente il ruolo di apicale, ma solo quello di partecipe dell’associazione di tipo mafioso.

Illogica sarebbe, peraltro, il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche per lo meno nella misura dell’equivalenza con le contestate aggravanti, in quanto la condotta associativa del ricorrente nel processo “Larice 2” non giustificava un tale aumento di pena.

 

5. Gli avvocati Corrado Politi e Antonino Priolo, con istanze depositate rispettivamente in data 26 marzo e 8 marzo 2025, hanno chiesto la trattazione orale del ricorso.

 

6. Con nota integrativa depositata in data 6 maggio 2025 l’avvocato Corrado Politi ha depositato la sentenza n. 44747 emessa in data 22 ottobre 2024 dalla Quinta sezione penale di questa Corte sul ricorso proposto dal figlio del ricorrente, C.C.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso deve essere rigettato, in quanto i motivi proposti sono complessivamente infondati.

 

2. I difensori, con il primo motivo, hanno dedotto l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione e il travisamento per omissione delle risultanze delle intercettazioni.

 

3. Il motivo, nella parte in cui deduce il travisamento per omissione delle intercettazioni, è infondato, in quanto la conversazione prog. 1034 (n. 1318/17 R.I.T.) del 20 ottobre 2017 non è menzionata nell’atto di appello e la conversazione prog. 92 intervenuta in data 11 settembre 2017 (n. 1318/17 R.I.T.) è stata considerata dai giudici di appello e interpretata in una prospettiva diversa da quella suggerita dai difensori, ma non certo manifestamente illogica.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 – 01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D’Andrea, Rv. 268389 – 01).

Tali intercettazioni, peraltro, non assumono una valenza tale da sovvertire l’impianto della motivazione della sentenza impugnata, fondato su un coacervo di prove ben più ampio e significativo di quello censurato dai difensori del ricorrente, come risulta dalla saldatura delle due decisioni di merito, che fondando un unico corpo argomentativo, in quanto concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi dì prova (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 2574595; Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145).

 

3.1. Il motivo è, invece, inammissibile nella parte restante, in quanto, pur deducendo il vizio di manifesta illogicità della motivazione, si risolve in una sollecitazione a un rinnovato esame delle risultanze processuali.

Per il disposto dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione deve essere desumibile dalla lettura del provvedimento impugnato, nel senso che esso deve essere “interno” all’atto-sentenza e non il frutto di una rivisitazione in termini critici della valutazione del materiale probatorio, perché in tale ultimo caso verrebbe introdotto un giudizio sul merito valutativo della prova che non è ammissibile nel giudizio di legittimità (explurimis Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 – 01).

È, dunque, inammissibile il ricorso per cassazione che, offrendo al giudice di legittimità frammenti probatori o indiziari, solleciti quest’ultimo ad una rivalutazione o ad una diretta interpretazione degli stessi, anziché al controllo sulle modalità con le quali tali elementi sono stati raccolti e sulla coerenza logica della interpretazione che ne è stata fornita (ex plurimis Sez. 5, n. 34149 del 11/06/2019, E., Rv. 276566; Sez. 5, n. 44992 del 09/10/2012, Aprovitola, Rv. 253774).

Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944).

 

3.2. La Corte di appello di Reggio Calabria, peraltro, con motivazione adeguata e logica, ha ritenuto attendibili e oggettivamente riscontrate le dichiarazioni accusatorie rese da Stefano Liuzzo sulla base di plurime risultanze probatorie specificamente esaminate e logicamente interpretate.

I giudici di appello hanno, inoltre, rilevato che l’ampio compendio probatorio raccolto nel giudizio di primo grado ha dimostrato, dopo il periodo di detenzione patito dal ricorrente in esecuzione della condanna nel processo “Larice 2″, un ridimensionamento del suo ruolo nel contesto associativo”, per effetto di dinamiche organizzative e di antagonismi interni allo stesso, ma non già un’estraneità del C.C. allo stesso.

Questo apprezzamento, in quanto espresso con motivazione congrua e non manifestamente illogica, si sottrae al sindacato di legittimità.

 

4. Con il secondo motivo i difensori hanno dedotto l’inosservanza dell’art. 629 cod. pen. e il vizio di motivazione sul punto, in quanto la Corte di appello non avrebbe adeguatamente motivato sulle censure proposte nell’atto di appello dalla difesa in ordine alla credibilità della persona offesa D.D. e in ordine alla qualificazione del fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non già estorsione.

 

5. Il motivo, quanto al dedotto vizio di motivazione, è inammissibile, in quanto si risolve in una sollecitazione ad un rinnovato esame delle risultanze istruttorie non consentito nel giudizio di legittimità.

Sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 11/02/2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 5456 del 4/11/2020, F., Rv. 280601-1; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).

Parimenti è infondata la censura relativa all’erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen. denunciata dal ricorrente.

Le Sezioni unite di questa Corte hanno statuito che il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 02).

La Corte di appello ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con motivazione congrua e logica, che si sottrae al sindacato di questa Corte, ha rilevato che C.C. nel richiedere con minacce gravi a D.D. il pagamento del debito che questo aveva nei confronti di L.L. ha perseguito un interesse proprio ad avvantaggiare il suo fornitore,

Il ricorrente, dunque, era animato non solo dall’intento di poter ottenere condizioni di favore (in termini di sconti o di altre agevolazioni nei pagamenti) nei propri rapporti contrattuali con G.G., ma anche un vantaggio derivante dall’affermazione della sua autorità mafiosa sul territorio.

Nella valutazione non illogica dei giudici di appello, infatti, le modalità di intervento nei confronti di L.L. per ottenere il pagamento del debito di G.G. erano state tipicamente mafiose, in quanto connotate da gravi minacce di violenza alla persona e di danneggiamento al proprio esercizio commerciale, anche mediante il riferimento al controllo del territorio esercitato dalla cosca.

 

6. Con il terzo motivo i difensori hanno eccepito l’erronea applicazione dell’art. 512-bis cod. pen. e il vizio di motivazione sul punto.

 

7. Il motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte di appello ha motivato congruamente sulla finalità elusiva dell’applicazione delle misure di prevenzione posta a fondamento delle condotte di intestazione fittizia.

La Corte di appello ha rilevato la pluralità di elementi probatori dai quali è risultata sinergicamente dimostrata la titolarità sostanziale da parte del ricorrente e del suo socio M.M. delle due imprese Croce Amaranto e Croce Granata, formalmente intestate a N.N. e a C.C., e la pervasiva signoria esercitata sulle stesse.

Parimenti l’intestazione fittizia, nella valutazione certamente non illogica dei giudici di merito, era dovuta all’intento di eludere l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale, in quanto, dopo l’arresto dell’intestatario fittizio C.C., l’impresa era stata colpita da interdittiva antimafia.

 

8. Con il quarto motivo i difensori hanno dedotto la violazione dell’art. 99 cod. pen., e il vizio di carenza e di illogicità della motivazione sulla recidiva, in quanto questa aggravante non sarebbe compatibile con un reato di durata, che non si esaurisce in un singolo atto, quale il delitto di associazione di tipo mafioso.

 

9. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., in quanto censura una violazione di legge non dedotta con i motivi di appello.

Il motivo è, peraltro, anche manifestamente infondato.

La recidiva non è strutturalmente incompatibile con i reati di durata e, pertanto, può essere applicata anche ai reati permanenti, come il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso.

La giurisprudenza di legittimità costantemente ribadisce che, ai fini della configurabilità della recidiva reiterata, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che le precedenti condanne siano divenute irrevocabili, in quanto l’autore del nuovo crimine deve essere in condizione di conoscere tutte le conseguenze derivanti dal proprio status di recidivo reiterato Sez. 3, n. 57983 del 25/9/2018, C, Rv. 274692; Sez. 6, n. 16149 del 3/4/2014, Madeddu, Rv. 259681; Sez. 2, n. 41806 del 27/9/2013, ladonisi e altri, Rv. 257242; Sez. 3, n. 7302 del 17/5/1994, Pietra, Rv. 198204).

È comunque sufficiente che, successivamente a detta irrevocabilità, sia posta in essere anche solo una minima parte del nuovo reato (Sez. 3, n. 10219 del 15/01/2021, Rossi, Rv. 281381 – 01; Sez. 3, n. 7302 del 17/5/1994, Pietra, Rv. 198204); di conseguenza, in tema di reato associativo, la Corte ha ritenuto pienamente legittima la sentenza che abbia riconosciuto la recidiva in un caso in cui le precedenti condanne erano divenute definitive in epoca antecedente alla cessazione della permanenza del reato associativo (Sez. 3, n. 10219 del 15/01/2021, cit.).

Nel caso di specie, peraltro, non è ravvisabile alcuna violazione della disciplina della recidiva, in quanto il delitto di associazione a delinquere di cui al capo A), che peraltro non è l’unico reato che ha fondato la recidiva, è stato contestato come commesso dal giugno 1997 sino al 31 luglio 2020, data di esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare, e, dunque, in epoca ampiamente successiva alla prima condanna, divenuta definitiva, riportata dal ricorrente per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., relativa all’arco temporale intercorrente tra il 1985 e il giugno 1997.

La recidiva, dunque, è stata integrata in epoca ampiamente antecedente alla cessazione della permanenza del reato associativo contestato nel presente processo.

Generiche e apodittiche sono le censure mosse dai difensori alla diagnosi di recidiva operata nella sentenza impugnata e nella sentenza di primo grado, in piena aderenza ai principi di diritto statuiti dalle Sezioni unite nella sentenza Calibè (Sez. U, n. 35378 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247838-01).

 

10. Con il quinto motivo i difensori hanno censurato l’inosservanza dell’art. 416-bis.1 cod. pen. e il vizio di manifesta illogicità della motivazione sul punto con riferimento alla sentenza n. 44747 emessa in data 22 ottobre 2024 dalla Quinta sezione penale di questa Corte che, pronunciandosi sul ricorso proposto dal concorrente C.C., giudicato nelle forme del rito abbreviato, ha escluso l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., contestata in relazione al delitto di intestazione fittizia di beni di cui al capo 12).

 

11. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., in quanto censura una violazione di legge non dedotta con i motivi di appello.

La sentenza della Quinta sezione penale n. 44747 del 22 ottobre 2024 invocata dai difensori del ricorrente è, peraltro, successiva alla sentenza impugnata, essendo stata pronunciata in data 22 ottobre 2024 e depositata in data 5 dicembre 2024 e, comunque, riguarda imputati giudicati con diverso rito (il giudizio abbreviato).

Il contrasto di giudicati rilevante ai fini della revisione di una sentenza definitiva, infatti, non ricorre nell’ipotesi in cui lo stesso verta sulla valutazione giuridica dello stesso fatto operata da giudici diversi, ma nel caso di una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze (ex plurimis Sez. 5, n. 633 del 06/12/2017, dep. 2018, Boschetti, Rv. 271928 – 01; Sez. 6, n. 34927 del 17/04/2018, Delbono, Rv. 273749 – 01).

Il motivo è, peraltro, aspecifico, in quanto i difensori non hanno dedotto sotto quale profilo possa essere considerata comune (e, dunque, esiga un trattamento uniforme) la posizione di (Omissis) a quelle del figlio O.O., che avevano diversi ruoli all’interno del sodalizio mafioso.

 

12. Con il sesto motivo i difensori hanno dedotto la violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., e il vizio di carenza e di illogicità della motivazione sul punto, in quanto la Corte di appello avrebbe riconosciuto all’imputato un ruolo apicale nel sodalizio mafioso che non troverebbe conferma nelle risultanze processuali.

 

13. Il motivo relativa all’eccessività della pena inflitta è infondato.

 

13.1. La graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (ex plurimis Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243 – 01; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrario, Rv. 259142).

Muovendo da queste premesse, deve rilevarsi che la Corte di appello ha determinato la pena per il reato associativo nel minimo edittale di dieci anni di reclusione, tenuto conto dell’aumento di due terzi per la recidiva.

Gli ulteriori aumenti di pena per i reati satellite (dieci mesi per il delitto di estorsione di cui al capo 5), dieci mesi per il delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 12), sono stati operati in misura non certo arbitraria o illogica dalla Corte di appello, in ragione della gravità delle condotte accertate e delle aggravanti contestate e ritenute sussistenti.

L’aumento di pena di quattro anni e un mese di reclusione per la continuazione con il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. giudicato nel processo “Larice 2” non è censurabile in sede di legittimità, in quanto congruamente motivato.

La Corte di appello ha motivato questo aumento di pena, precisando che “la condotta associativa (era) connotata da particolare gravità, per la posizione apicale rivestita e la durata, pari a dodici anni”.

I ricorrenti hanno eccepito che nel processo “Larice 2” al ricorrente non è stata riconosciuta una qualifica apicale, ma non hanno documentato questa circostanza.

I difensori, inoltre, non si sono confrontati con la seconda ratio decidendi, autonoma e autosufficiente, posta dai giudici di appello a fondamento di questa statuizione e, segnatamente, con la durata della condotta associativa accertata in quella sentenza.

L’aumento di pena operato dalla Corte di appello per tale delitto, infatti, non essendo particolarmente elevato è pienamente compatibile anche con la condotta di mera partecipazione in sodalizio mafiosa, protratta per dodici anni.

 

13.2. Parimenti infondato è il motivo concernente la mancata concessione delle attenuanti generiche.

La decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, che nell’esercizio del relativo potere agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico-giuridici.

Per principio di diritto assolutamente consolidato ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (ex plurimis Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane ed altri, Rv. 248244; cfr. anche Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 26582601).

Tale obbligo, peraltro, nel caso di specie è stato pienamente assolto, in quanto la Corte di appello ha congruamente motivato il diniego delle attenuanti generiche, con riferimento alla gravità delle condotte accertate e all’inidoneità del memoriale prodotto dall’imputato a costituire un valido contributo alla ricostruzione dei fatti contestati.

 

14. Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve essere rigettato.

Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

Conclusione

Così deciso in Roma il 6 maggio 2025.

 

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2025.

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