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Cassazione penale sez. VI – 25/09/2018, n. 58412

Massima

In tema di abuso d’ufficio, l’ingiustizia del danno non può essere desunta implicitamente dell’illegittimità della condotta, in quanto il requisito della doppia ingiustizia presuppone l’autonoma valutazione degli elementi costitutivi del reato.

Supporto alla lettura

L’abuso d’ufficio è reato proprio potendo essere commesso dal pubblico ufficiale e, a seguito della riforma del 1990, dall’incaricato di pubblico servizio, nozioni per le quali si rinvia alle disposizioni di cui agli artt. 357 e 358 c.p.p. (legge 86/1990).

Ambito oggettivo di applicazione

L’articolo 23 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 l’ambito oggettivo di applicazione è circoscritto perché non sono più sanzionati sul piano penale comportamenti in trasgressione di misure regolamentari, ma esclusivamente di “specifiche regole di condotta” previste da norma di rango primario (legge o atto avente forza di legge).

RITENUTO IN FATTO

  1. Il 20.10.2016 il Tribunale di Campobasso assolveva con ampia formula, per insussistenza del fatto, I.A.M. e V.G., all’epoca della contestazione rispettivamente presidente della Regione (OMISSIS) ed assessore regionale alla Programmazione, Bilancio e Finanze, dall’addebito di abuso d’ufficio loro in concorso ascritto, per aver assunto, nell’ambito delle vicende inerenti allo Zuccherificio del Molise s.p.a. – società partecipata dalla Regione anzidetta – atti amministrativi contrari all’interesse pubblico, “al fine di procurare un ingiusto ed ingente vantaggio patrimoniale… realmente conseguito” al subentrante socio privato di cui infra, con correlato danno per l’Ente pubblico. Tanto, in particolare:

adottando la delibera di Giunta regionale n. 1126 del 27.11.2009 – la cui competenza spettava al Consiglio regionale, con conseguente violazione di legge – mediante la quale non veniva esercitato il diritto di prelazione derivante dalla dismissione delle quote da parte del socio privato T., onde favorire il subingresso della G & B INVESTMENTS s.p.a., di poi concretizzatosi, senza alcuna verifica circa il possesso dei prescritti requisiti ed anzi sul presupposto, rivelatosi falso, dell’esistenza di un piano industriale predisposto da detta società;

emanando la Delib. di Giunta n. 94 del 16 febbraio 2010 – essa pure di competenza del Consiglio – di modifica dello statuto dello Zuccherificio del Molise, in funzione del conseguimento del risultato di cui subito di seguito; partecipando il V., in accordo con lo I., all’assemblea straordinaria dello Zuccherificio del Molise, nel corso della quale – ancora una volta in violazione della normativa statutaria che accordava la relativa competenza al Consiglio regionale – acconsentiva alla conversione delle azioni ordinarie della Regione, costituenti l’intera quota della partecipazione pubblica, in azioni privilegiate, così determinando la perdita del controllo sulla gestione della società a beneficio del subentrato socio privato;

procedendo al riconoscimento, sotto varie forme, “di finanziamenti, prestiti, contributi pubblici ecc.” per complessivi Euro 53.000,00 circa, in assenza di qualsivoglia criterio selettivo o di verifica ed in violazione altresì della normativa comunitaria in tema di divieto di aiuti di Stato.

  1. Osservava in proposito il Tribunale che, a fronte della sola violazione di legge ravvisabile in seno all’ampia contestazione formalizzata, da ricondursi alle citate Delib. di Giunta n. 1126 del 1999 e Delib. n. 94 del 2010, in quanto spettanti entrambe alla competenza del Consiglio regionale, nondimeno era da ritenersi assente il necessario requisito della ingiustizia del vantaggio patrimoniale arrecato e del danno correlato: ciò per la ritenuta impossibilità di istituire un legame finalistico tra la prima e la seconda delibera, rispondente quest’ultima “all’esigenza di distinguere tra il ruolo operativo e di management espresso dal soggetto privato, ed il ruolo di indirizzo, regia e controllo che doveva essere esercitato dalla Regione”, a ciò ricollegandosi l’intervento “di separazione tra azioni privilegiate ed ordinarie, temperato dall’introduzione di… correttivi…”. Il tutto secondo una linea d’inversione di tendenza avente il proprio presupposto, “per un verso, nella normativa nazionale che spingeva in direzione dell’obbligo di dismissione, per gli enti locali, delle partecipazioni a società “aventi ad oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali” (L. 244/2007), per l’altro, nella necessità di consolidare la situazione economica della società interessata”, di cui era rimarcato il “quadro debitorio piuttosto ampio”, viepiù significativo delle ragioni alla base della disposta modifica dell’assetto societario, “realizzato anche a scopo cautelativo” nell’interesse dell’Ente Regione.
  2. Investita dell’appello proposto dal pubblico ministero, la Corte distrettuale di Campobasso ribaltava l’illustrata pronuncia assolutoria, dichiarando l’improcedibilità per prescrizione delle condotte antecedenti al 2010 ed affermando la penale responsabilità di entrambi gli imputati per le condotte poste in essere in quell’anno, con conseguente loro condanna a pena di giustizia, riconoscimento dei doppi benefici di legge e connesse statuizioni civili.

A tale proposito, il giudice di secondo grado, dopo aver ribadito, a fronte delle contestazioni difensive, la sussistenza della violazione di legge – già riscontrata dal Tribunale ed avvalorata dalla pronuncia n. 1559/2010 del T.A.R. Molise, relativa giusto all’annullamento della Delib. n. 94 del 2010 e di tutti gli atti connessi e presupposti, ivi compreso il pregresso provvedimento n. 1126/2009 evidenziava il radicale contrasto ravvisabile fra le determinazioni incriminate e quelle precedentemente adottate dalla Regione Molise, “inequivoche nella direzione della crescita congiunta di aumento della acquisizione pubblica di azioni e di partecipazione societaria, così da assumere, statutariamente, la maggioranza dei voti esercitabili nelle assemblee ordinarie e straordinarie, ma anche il potere di nomina della maggioranza degli amministratori, sempre nell’ottica della tutela delle ricadute economiche ed occupazionali del medesimo Zuccherificio, consapevolmente tenute in conto dagli amministratori pubblici coinvolti”.

In particolare, stigmatizzava la ritenuta incomprensibilità della delibera del 2009, per via delle contraddittorie proposizioni in essa asseritamente presenti e rimarcava come l’ingresso nello Zuccherificio del Molise della G & B Investments s.p.a. non fosse stato accompagnato dalla pur necessaria presenza di un apposito piano industriale, sulla base del quale poter fondatamente poggiare la preferenza accordata a detto soggetto, anzichè ad altri investitori privati, parimenti interessati al subingresso, soggetto cui veniva in tal modo assicurato “il totale controllo societario nel contempo continuando a fungere da finanziatori esclusivisti di una gestione fallimentare…”.

Di qui la conclusione della deliberata preordinazione della condotta degli imputati, per via della ritenuta “necessità funzionale” della consapevole “invadenza istituzionale”, posta in essere al fine del “conseguimento di risultati che l’organo consiliare… aveva espressamente inteso scongiurare”. Con la puntualizzazione, in tema di elemento soggettivo, circa la compatibilità del dolo richiesto con l’esistenza di una finalità pubblicistica, sotto altro profilo non essendo invece richiesta la prova di un accordo collusivo con il soggetto che s’intende beneficiare. Mentre, con riferimento al requisito del danno ingiusto, rilevava la Corte “la parzialità del ragionamento seguito dal Tribunale appellato laddove limita la propria disamina al solo aspetto del contestato vantaggio patrimoniale per il terzo, del tutto omettendo di affrontare il profilo del danno ingiusto all’ente regione nel suo organo massimamente rappresentativo ed espressivo della volontà istituzionale”, essendo state qui prevaricate “le superiori competenze di indirizzo e scelta in materie di primaria importanza collettiva per l’economia e l’occupazione locali quali la partecipazione ed il controllo di imprese pubbliche (che) dovrebbero essere sempre tutelate da interferenze nello svolgimento del mandato elettivo”.

  1. Avverso detta sentenza entrambi gli imputati hanno proposto tempestiva impugnazione per cassazione, ciascuno con atto a firma del rispettivo difensore di fiducia.

I due ricorsi, seppur con un diverso grado di ampiezza espositiva, si articolano attraverso la formulazione dei medesimi profili di censura, il che ne legittima l’esposizione unitaria (peraltro entro il perimetro tratteggiato dall’art. 173 disp. att. c.p.p.).

4.1 Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e): la sentenza impugnata, in violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata che – per consolidata giurisprudenza – deve connotare le pronunce che ribaltino quelle assolutorie emesse nel grado precedente, si sarebbe limitata ad operare “una rivalutazione sommaria dei dati probatori” (così il ricorso I.), senza che sia dato ravvisare “alcuna specifica, logica motivazione atta a confutare i rilevanti argomenti della prima decisione” (v. ricorso V.), atteso che – prosegue ancora il ricorso I. – “nello schema della sentenza, l’opinata violazione di legge, da mero strumento di abuso è diventata presupposto “polifunzionale” di reato, ostinatamente dispensato come prova dell’integrazione di ogni singolo elemento costitutivo del reato”.

4.2 Il secondo motivo del ricorso è incentrato sui vizi di violazione di legge e di motivazione da cui la sentenza sarebbe inficiata.

Si contesta, in primo luogo, la sussistenza della violazione di legge, in ordine alla quale si assume che la Corte distrettuale si sarebbe acriticamente appiattita sulla decisione adottata dal T.A.R. Molise, ad onta della pienezza della valutazione ad essa demandata e malgrado il carattere non definitivo della decisione medesima (che il difensore del V. precisa essere stata impugnata dalla Giunta regionale innanzi al Consiglio di Stato con ricorso del 15.11.2011), senza trarre le doverose implicazioni dal disposto della L.R. 13 gennaio 2009, n. 1, art. 5, comma 3, a proposito delle competenze riconosciute alla Giunta regionale, da ritenersi sussistenti anche nell’ambito che qui interessa.

Secondariamente, si assume che, anche a voler aderire all’impostazione fatta propria dalla Corte distrettuale, non potrebbe comunque ipotizzarsi alcuna equivalenza fra atto amministrativo illegittimo ed atto penalmente illecito: donde la necessità di far luogo ad un doveroso approfondimento – cui, per contro, il giudice di secondo grado non ha proceduto – circa “la natura dell’incompetenza, i suoi effetti sull’azione amministrativa in termini di possibile sviamento di potere ed i risultati derivati a sè o a terzi dall’esercizio asseritamente arbitrario dei poteri altrui”. Non solo, ma la ricostruzione della vicenda compiuta a supporto della ritenuta violazione di legge sarebbe “travisata e precaria” (ricorso I.), perchè effettuata senza tener conto dell’illustrato scenario normativo in seno al quale collocare le delibere incriminate, anche alla luce del “contesto di valutazione economica e di indirizzo politico” (ricorso V.).

Dunque, in un quadro che faceva divieto alle Regioni di costituire società aventi oggetto non strettamente necessario al perseguimento dei fini istituzionali, come pure di assumere o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società, stabilendo il termine massimo di tre anni per la cessione a terzi delle partecipazioni vietate, il denunciato “cambiamento di rotta” sarebbe stato del tutto erroneamente visto con sospetto. Non senza aggiungere l’assenza di intrinseca contraddittorietà fra la scelta di proseguire la produzione e quella di affrancarsi da compiti di gestione diretta, per effetto della perdita della maggioranza in assemblea.

4.3 Il terzo motivo di doglianza prospetta altra violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), per “inesistenza del danno ad altri”, “non configurabilità del danno proprio”, “assenza del risultato contra ius”, “carenza di motivazione in ordine alla prova della doppia ingiustizia”: ciò per via della diversità del soggetto danneggiato che la norma incriminatrice si afferma richiedere, rispetto non solo all’agente, ma anche all’organo o ufficio che lo stesso rappresenta. Qui, per contro, il danno s’identificherebbe con la mera violazione di legge, mentre “la Corte avrebbe dovuto accertare e dimostrare che il mancato esercizio del diritto di prelazione, le modifiche statutarie, i finanziamenti, l’ingresso di un altro socio privato, la mancanza del piano industriale, la perdita del controllo pubblico fossero tutti eventi funzionali a garantire al nuovo socio utili e vantaggi ingiusti, perchè non dovuti in base al diritto positivo”; verifica totalmente assente nella presenta fattispecie.

4.4 Violazione di legge e vizio di motivazione sono anche alla base del quarto motivo di ricorso, con cui si denuncia il difetto dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice e l’apparenza e la manifesta illogicità del relativo apparato argomentativo: ciò per essersi la sentenza impugnata discostata dal consolidato insegnamento in proposito della giurisprudenza di legittimità, nel senso della necessità della prova della intenzionalità del danno, ancora una volta fatta malamente discendere dalla pretesa consapevolezza della violazione di legge da parte degli imputati.

  1. Con memoria a firma congiunta, depositata il 19 settembre u.s., i patroni delle parti civili costituite, Regione Molise e Codacons ONLUS, hanno ribadito la sussistenza della violazione di legge così come accertata già dalla sentenza di primo grado, relativamente alla quale si assume che la mancata proposizione di appello incidentale da parte degli imputati, a seguito della impugnazione della parte pubblica, abbia determinato la formazione del “giudicato interno”: donde la ritenuta sussistenza, “in modo diretto ed immediato”, del riconoscimento del danno ingiusto patito dalla Regione, in forza della sua stretta derivazione dall’anzidetta violazione di legge, alla luce del bene giuridico alla cui salvaguardia è preordinato l’art. 323 cod. pen., costituito dalla tutela dei principi cui deve uniformarsi l’attività amministrativa, ai sensi dell’art. 97 Cost..

Si rileva inoltre, conclusivamente, come “entrambi i ricorsi proposti scivolano nel merito, contestando sostanzialmente un travisamento dei fatti e comunque proponendo una lettura alternativa di essi palesemente non consentita nella presente sede di legittimità”: il che è alla base della richiesta finale di inammissibilità delle impugnazioni, di cui si sollecita in subordine il rigetto.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Entrambi i ricorsi – che, per quanto detto, ben possono essere trattati congiuntamente – sono fondati, da ciò discendendo l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza.
  2. E’ innanzi tutto da escludere che rivesta fondamento alcuno la prospettazione delle parti civili, circa l’esistenza di un “giudicato interno” – rectius: di una preclusione – che gli imputati non avrebbero più potuto intaccare, a seguito della mancata proposizione di appello incidentale, all’esito del gravame interposto dalla Pubblica Accusa.

E’ noto in proposito che, conformemente all’insegnamento delle Sezioni Unite che le stesse parti civili richiamano (v. Sez. U., sent. n. 10251 del 17.10.2006 – dep. 2007, Rv. 235699), “L’appello incidentale può essere proposto soltanto in relazione ai punti della decisione oggetto dell’appello principale nonchè a quelli che hanno connessione essenziale con essi”. E tuttavia ciò pur sempre in funzione dell’adozione di una statuizione, rispetto alla quale sussista un interesse concreto dell’istante, meritevole di tutela; interesse che nella fattispecie non è dato ravvisare in capo ai due imputati, assolti dal primo giudice con la più ampia formula consentita dall’ordinamento, perchè il fatto non sussiste.

E’ appena il caso di puntualizzare che nulla ha a che vedere con l’appello incidentale la prospettazione di argomentazioni volte a paralizzare, o comunque a confutare, quelle altrui, poste a base dell’appello principale.

  1. Punto di partenza della presente disamina non può che essere lo specifico elemento costitutivo del reato di abuso d’ufficio costituito dalla violazione di legge.

In proposito – come già si è avuto modo di anticipare – la sentenza del Tribunale, al di là della statuizione finale cui è pervenuta, ne ha identificato la sussistenza con riferimento alle sole Delib. di Giunta n. 1126 del 27.11.2009 e Delib. n. 94 del 16.02.2010, in entrambi i casi perchè adottate nonostante rientrassero asseritamente nella competenza del Consiglio regionale, come confermato dalla pronuncia di illegittimità di ambedue i detti provvedimenti, emessa dal T.A.R. Molise il 20.12.2010.

Sul punto, è solo il caso di rilevare, alla luce delle osservazioni critiche della difesa dello I., che correttamente la Corte territoriale ha qualificato come “relativa” tale tipologia d’incompetenza, quale si trae dal disposto della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, a fronte del “difetto assoluto di attribuzione” contemplato dal precedente art. 21 septies della stessa legge: vizio, quest’ultimo, che comporta la nullità del provvedimento e che, valendo a significare l’estraneità della condotta del soggetto agente allo “svolgimento delle funzioni o del servizio”, si colloca al di fuori del perimetro di operatività della norma incriminatrice di cui all’art. 323 cod. pen., a differenza dell’anzidetto vizio di incompetenza “relativa”, da cui discende la meno grave conseguenza dell’annullabilità dell’atto, in quanto connotato semplicemente dalla c.d. “carenza di potere in concreto”, propria dell’esercizio di un potere riservato ad altro organo dello stesso ramo di amministrazione (cfr., con specifico riferimento al caso, analogo al presente, dell’adozione “politica” di un atto riservato al consiglio comunale da parte della giunta, essendo entrambi appartenente al medesimo ente territoriale, Sez. 6, sent. n. 7105 del 29.01.2009, Rv. 242934; adde di recente, riguardo alla generale distinzione fra incompetenza “assoluta” e “relativa”, Sez. 3, sent. n. 52053 del 03.10.2017, Rv. 271358).

L’impostazione anzidetta, circa l’ambito della violazione di legge – condivisa dalla stessa appellante parte pubblica, che su di essa ha costruito il gravame a suo tempo proposto – è stata parimenti recepita dalla pronuncia della Corte molisana.

3.1 Ciò posto, rileva il Collegio che tale prima e basilare affermazione, che ambedue gli odierni ricorsi pongono in discussione, già in sede di appello è stata risolutamente contestata dalle difese degli imputati, senza meno a ciò legittimate in forza dell’impossibilità d’impugnare autonomamente tale punto della sentenza di primo grado per via del già rilevato difetto d’interesse, connesso alla conseguita assoluzione con ampia formula, peraltro non risultando neppure, alla stregua della lettura della motivazione del Tribunale, che quest’ultimo avesse affrontato le specifiche argomentazioni di cui trattasi. Argomentazioni incentrate, per un verso, su un’interpretazione stringente e non dilatata dell’art. 6, lett. g) dell’allora vigente Statuto della Regione Molise, a mente del quale è riservata alla competenza del Consiglio regionale l’adozione delle (sole) delibere aventi ad oggetto “l’istituzione, l’ordinamento e la soppressione di enti, imprese ed aziende dipendenti dalla Regione e la partecipazione ad aziende, società ed enti pubblici”, di contro alla interpretazione patrocinata dalla ricordata sentenza del giudice amministrativo, sul presupposto “che la competenza del Consiglio debba essere riferita a tutti gli atti di disposizione della misura della propria partecipazione, con eccezione della sola gestione dei poteri ad essa ordinariamente afferenti”; e, per altro verso, sulla legge finanziaria regionale del 13 gennaio 2009, il cui art. 5, denominato “Disposizioni sul contenimento della spesa”, al comma 3 autorizza espressamente la Giunta regionale, “al fine della razionalizzazione, del contenimento e della trasparenza della spesa pubblica nonchè per garantire concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali esercitate dalle società a partecipazione regionale” – finalità da intendersi alla luce del “conseguimento degli obiettivi di tutela dell’unità economica fissati per le Regioni dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi da 655 a 672”, di cui al precedente comma 2 del medesimo art. 5 “a deliberare idonei interventi che possono prevedere la cessione dei complessi aziendali di proprietà delle medesime società ovvero la ristrutturazione economica e finanziaria delle imprese stesse, da realizzarsi anche a mezzo di ulteriori sottoscrizioni di aumenti di capitale, sulla base di adeguati e motivati programmi di risanamento nonchè statuti e relative modifiche” (parte in corsivo aggiunta dalla L.R. Molise 22 gennaio 2010, n. 3, art. 4, comma 1, entrata in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione, avvenuta il 26 gennaio 2010).

3.2 Fermo quanto sopra, il rinnovato richiamo alla sentenza del T.A.R. Molise non appare di per sè decisivo, in ragione dell’autonomia del giudice penale, al quale solo spetta di valutare un elemento costitutivo della fattispecie sottoposta al suo vaglio, a maggior ragione in considerazione della non definitività del pronunciamento del giudice amministrativo, in ordine al quale la difesa dello I. ha rilevato l’assenza di prova positiva della irrevocabilità della relativa sentenza, mentre la difesa del V. è stata esplicita nel significare che avverso essa, con atto depositato il 15.11.2011, è stata formalizzata impugnazione innanzi al Consiglio di Stato, ancora pendente all’atto della proposizione del ricorso in esame.

Quanto, poi, al dato sostanziale, inerente all’interpretazione della portata del succitato art. 5 della L.R. 13 gennaio 2009, l’osservazione della Corte territoriale circa l’insufficienza, a supporto della tesi propugnata, della “mera interpretazione di una disposizione della legge finanziaria regionale del 2009 sul contenimento della spesa pubblica”, si risolve in una forma di motivazione meramente apparente, di contro alla necessità di una più approfondita disamina critica della questione, funzionale altresì al corretto apprezzamento, anche a confermare la sussistenza della già ritenuta incompetenza, del richiesto carattere intenzionale della condotta. Tanto a maggior ragione, stante l’espresso richiamo proprio alla disposizione di cui sopra, che la sentenza d’appello (ivi, pag. 19) dà atto essere presente nella motivazione della Delib. n. 94 del 2010, come pure agli argomenti tratti da una pronuncia del Consiglio di Stato menzionata dalle difese ed esposti dai giudici d’appello.

  1. Le considerazioni che precedono sono tali da imporre, di per sè, l’annullamento con rinvio del censurato provvedimento. Ma vi è di più.

La sentenza impugnata – come si è avuto modo di accennare nel precedente RITENUTO IN FATTO – onde dimostrare la strumentalità della ritenuta violazione di legge alla preordinata ingiustizia del risultato finale, si è lungamente soffermata sul radicale mutamento d’indirizzo che contrassegna le due delibere di cui trattasi rispetto alla linea politica precedentemente seguita dall’Ente Regione, attraverso il suo organo Consiglio regionale, evidenziando altresì, a maggior riprova del proprio convincimento, gli elementi di contraddittorietà asseritamente esistenti nelle delibere anzidette. Sennonchè siffatto ragionamento si presta alle seguenti obiezioni, fra loro intimamente connesse.

4.1 Il primo rilievo da muovere scaturisce dalla constatazione che le argomentazioni con cui la Corte territoriale ha dato conto della statuizione adottata, quale espressione della propria lettura del quadro probatorio, si configurano tuttavia – così come eccepito da entrambi i ricorrenti – alla stregua di un mero apprezzamento alternativo del menzionato costrutto, atteso che esse ignorano del tutto, dal punto di vista della dialettica motivazionale, la necessità di prendere atto, per un verso, delle linee di fondo imposte dalla legislazione nazionale, “che spingeva in direzione dell’obbligo di dismissione, per gli enti locali, delle partecipazioni a società “aventi ad oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali” (cfr. L. n. 244 del 2007)” e, d’altro canto, della “necessità di consolidare la situazione economica della società interessata”, ancorchè sia esattamente tale passaggio a costituire l’architrave dell’opposto ragionamento sviluppato dal Tribunale (cfr. la penultima pagina della relativa pronuncia) e, ancora, malgrado si dia atto, nella sintesi della parte motiva della Delib. del 27.11.2009, del riferimento ivi operato sia al preciso input derivante dalla legge di bilancio – la c.d. legge “finanziaria” – nel senso anzidetto, sia alle disposizioni della finanziaria regionale del 2009, finalizzate alla cessione di complessi aziendali di società partecipate, ma anche ad interventi di ristrutturazione economica e finanziaria delle imprese stesse, all’evidenza da intendersi come opzione alternativa, in un’ottica di ragionevole risanamento in funzione della valorizzazione della partecipazione pubblica prima della sua dismissione. Donde, appunto, la valutazione del Tribunale, in chiave di conformità all’interesse pubblico, della “inversione di tendenza rappresentata dalla seconda delibera”, in quanto rispondente – come pure si è detto in precedenza – “all’esigenza di distinguere tra il ruolo operativo e di management espresso dal soggetto privato, ed il ruolo di indirizzo, regia e controllo che doveva essere esercitato dalla Regione”, reso possibile dall’intervento “di separazione tra azioni privilegiate ed ordinarie”, peraltro temperato dalla “introduzione di una minoranza di blocco su alcune operazioni e… del voto degli azionisti privilegiati su altre operazioni”, quali correttivi in grado di conservare alla mano pubblica l’esercizio delle funzioni generali di indirizzo e controllo della società, peraltro contraddistinta da una situazione economica non certo florida (la valutazione medesima è altresì alla base della separazione, ritenuta dal Tribunale medesimo, fra detta seconda delibera e quella precedente, ricollegata all’esplicazione “non già di obbligo giuridico, bensì di diritto potestativo, come tale liberamente esercitabile”, sulla base di un apprezzamento discrezionale reputato nella fattispecie non altrimenti inquinato).

Logico corollario di quanto precede è la violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata che, per giurisprudenza assolutamente consolidata (cfr. già Sez. 6, sent. n. 6221 del 20.04.2005 – dep. 2006, Rv. 233083, cui adde, di recente, Sez. 6, sent. n. 10130 del 20.01.2015, Rv. 262907, nonchè Sez. 3, sent. n. 6880 del 26.10.2016 – dep. 2017, Rv. 269523), incombe al giudice d’appello che faccia luogo alla riforma totale dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado, dovendo in tal caso farsi carico puntualmente della insostenibilità, sul piano logico o giuridico, degli argomenti decisivi addotti dal primo giudice a supporto della decisione, nonchè degli eventuali contributi offerti in proposito dalla difesa nel corso del processo d’appello, sì che la motivazione che ne risulti si sovrapponga non solo formalmente, ma anche e soprattutto sostanzialmente a quella della decisione riformata, senza lasciare ad essa spazio alcuno.

4.2 Inoltre, il pur carente ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale dovrebbe logicamente pervenire, in coerenza con le premesse assunte, alla conclusione della finalizzazione della condotta ascritta agli imputati al raggiungimento del risultato, concretamente conseguito, rappresentato dal vantaggio del soggetto privato subentrato in luogo del socio cedente e dante causa, T.L., all’evidenza ingiusto perchè difforme dall’interesse pubblico (pur fatto coincidere assiomaticamente con quello desumibile da pregressi provvedimenti dell’Ente Regione); ciò a maggior ragione, in forza del nesso istituito dalla sentenza impugnata fra le due delibere di cui sopra, che si è visto essere stato ritenuto per contro inesistente da parte del primo giudice.

Siffatto esito, ovviamente escluso dalla sentenza di primo grado, è peraltro estraneo alla stessa prospettazione dell’appellante pubblico ministero, che risulta aver censurato la pronuncia di primo grado non già per non aver ravvisato la sussistenza dell’ingiusto vantaggio patrimoniale – avendo anzi dato atto, in concreto, della insufficienza della mera coincidenza fra l’esito della condotta illegittima e l’interesse del privato – bensì per aver circoscritto la propria disamina all’anzidetto profilo, senza averla estesa anche a quello del danno ingiusto (in effetti citato nel capo d’accusa, benchè senza alcuna specificazione, essendo anzi apparentemente tratteggiato come speculare rispetto al contestato vantaggio patrimoniale ingiusto, come desumibile dall’utilizzo delle parole “altrettanto ingente” che lo connotano). Prospettazione, in ogni caso, che la Corte molisana, pur evidenziando i benefici scaturiti a favore della subentrata “G&B INVESTMENTS s.p.a.”, recepisce appieno, sviluppando la tematica dell’indebita sottrazione al Consiglio regionale delle prerogative sue proprie, con conseguente produzione di un danno contra ius, cagionato “all’Ente regione nel suo organo massimamente rappresentativo ed espressivo della volontà istituzionale” (così pag. 24 della sentenza impugnata).

Affermazione, questa, che non può essere condivisa.

In realtà, non vi è necessità di argomentazioni approfondite per significare che il “danno ingiusto” inteso dalla Corte distrettuale altro non è se non la mera trasposizione del vizio (ipotetico) d’incompetenza, con il quale finisce per coincidere. Tanto, quindi, in spregio al requisito costitutivo della doppia ingiustizia che, pur non richiedendo la sussistenza di violazione di legge o di regolamento ulteriore, rispetto a quella che integra l’oggettività della condotta, nondimeno presuppone una sua autonomia rispetto a quest’ultima, non potendo identificarsi tout court nella illegittimità del mezzo utilizzato: a significare, cioè, come l’ingiustizia del danno – così come, del resto, del vantaggio patrimoniale deve essere tale a prescindere dall’abuso perpetrato, stante la necessità che il risultato della condotta corrisponda di per sè ad una situazione antigiuridica, senza considerare il mezzo con cui questa è stata posta in essere (cfr., di recente, Sez. 6, sent. n. 17676 del 18.03.2016, Rv. 267171; n. 10133 del 17.02.2015, Rv. 262800; n. 1733 del 14.12.2012 – dep. 2013, Rv. 254208, pur tutte in tema di vantaggio patrimoniale ingiusto, nonché Sez. 6, sent. n. 2769 del 19.12.1994 – dep. 1995, Rv. 201348, in un caso di contemporanea sussistenza di vantaggio patrimoniale e di danno ingiusti).

Né appare pertinente, in senso contrario, il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 49538 del 22.09.2016 (Rv. 268424) da parte del giudice d’appello.

In quella fattispecie, in presenza della condotta illegittima di acquisizione ed elaborazione di tabulati telefonici riferibili a soggetti coperti dalle guarentigie parlamentari, in assenza dell’autorizzazione prescritta dalla legge, è stata reputata sussistente l’ingiustizia del danno, derivante appunto dalla lesione delle prerogative attribuite dalla Costituzione a coloro che ricoprono la carica parlamentare: il che non appare in alcun modo assimilabile al caso in esame, sia per la chiara distinzione fra ingiustizia della condotta – si ripete, discendente dall’espletamento di attività d’indagine carente di un presupposto di legge – ed ingiustizia del danno, ricollegabile alla descritta lesione, per certo distinta ancorchè causalmente ricollegabile alla condotta medesima; sia per la produzione del danno in capo a soggetti ben precisi ed individuati, al di là della lesione indiretta all’Ente di appartenenza, ossia al Parlamento, comunque ben distinto dall’Amministrazione della giustizia, cui faceva capo il magistrato implicato, unitamente al collaboratore definito come “determinatone”, ovvero “quanto meno… ausiliatore” dell’inquirente.

A tale ultimo riguardo, anzi, non è inutile osservare che, conformemente allo stesso carattere “relativo” del ritenuto vizio d’incompetenza, tale ribadito dai giudici d’appello, la presente vicenda si è sviluppata tutta internamente allo stesso soggetto pubblico, ossia l’Ente Regione, senza che da essa sia derivato alcun pregiudizio a carico di una singola e distinta persona offesa – nonostante il carattere plurioffensivo che è proprio in siffatta evenienza del reato di abuso d’ufficio: cfr., per tutte, Sez. 6, sent. n. 5746 del 19.01,2016, Rv. 266174 e n. 13179 del 29.03.2012, Rv. 252570 – a riprova ulteriore della già rilevata identificazione, pur a stare alla costruzione proposta dalla sentenza impugnata, fra condotta illegittima e danno ingiusto. Donde il pertinente richiamo, operato dal ricorso redatto nell’interesse dello I., alla pronuncia di legittimità n. 39259 del 20.09.2005 (Rv. 232581) che, appunto sul presupposto, già sopra indicato, della “natura necessariamente plurioffensiva” del reato previsto e punito dall’art. 323 cod. pen., ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento adottata ai sensi dell’art. 425 c.p.p., in un’ipotesi in cui “l’effetto dannoso si era prodotto esclusivamente sulla pubblica amministrazione”, senza che fossero risultati negativamente incisi nè “un extraneus”, nè “un dipendente dell’amministrazione stessa,… toccato nella sua personale condizione giuridica derivante dal rapporto di impiego”.

S’impone pertanto, conclusivamente, la già anticipata decisione, dovendosi solo puntualizzare, da ultimo, che essa travolge anche la declaratoria di prescrizione, poichè impugnata esplicitamente dallo I. ed implicitamente dal V., in ragione della identità degli argomenti riferibili ad ambedue le statuizioni della Corte territoriale.

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato non sussiste.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2018

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