Svolgimento del processo
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari impugna l’ordinanza in epigrafe indicata con la quale è stata annullata l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare, che rigettò la richiesta di liberazione di (omissis) per decorrenza dei termini di custodia cautelare, e per l’effetto ha dichiarato cessata la custodia cautelare e disposto l’immediata liberazione di (omissis).
Ad avviso del giudice d’appello, il termine di fase di custodia cautelare è decorso in relazione al delitto come ab origine enunciato nell’ordinanza di applicazione della custodia in carcere, poichè l’aggravante a effetto speciale prevista dalla L. n. 146 del 2006, art. 4 è stata contesta in fatto e in diritto solo con l’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.p..
Affinchè potesse essere applicato un diverso e più lungo termine di custodia sarebbe stato necessario emettere un ulteriore provvedimento di custodia con l’indicazione dell’aggravante, non essendo previsto un aggravamento automatico della contestazione cautelare con l’aggravamento dell’imputazione nel corso del procedimento di merito.
Il Tribunale precisa ancora che l’aggravante introdotta dalla L. n. 146 del 2006, art. 4, che presuppone l’esistenza di un “gruppo organizzato, costituisce un quid pluris rispetto all’istituto del concorso di persone nel reato.
Nell’imputazione cautelare sono stati indicati l’art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e, sebbene si faccia riferimento all’importazione di droga dalla Spagna e così del carattere transnazionale, non si dava conto dell’esistenza di un gruppo strutturato, limitandosi a enunciare un mero concorso di persone.
In conclusione, per il Tribunale il carattere di “transnazionalità” del reato commesso non necessariamente implica la sussistenza dell’aggravante de qua e, pertanto, dalla descrizione della condotta nell’imputazione non avrebbe potuto evincersi la contestazione dell’aggravante che avrebbe richiesto il riferimento all’articolazione del gruppo, al modus operandi e soprattutto un minimo di stabilità che deve caratterizzare il “gruppo”.
La necessità di un quid pluris, rispetto al concorso di persone, discende anche dalla Convenzione ONU contro la criminalità organizzata transazionale, oggetto di ratifica con la L. n. 146 del 2006. Al riguardo, l’art. 2, lett. a) della Convenzione definisce “gruppo criminale organizzato”, un gruppo strutturato composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati previsti dalla stessa Convenzione.
Pertanto, per il reato ab origine indicato nella contestazione cautelare è stabilito un termine di fase di sei mesi perchè punito con una pena fino a sei anni di reclusione. Ne discende che, ammesso il rito abbreviato il 1 giugno 2007, la misura applicata a C. ha perso efficacia l’8 dicembre 2007, anche considerando il termine di sospensione di cui alla L. n. 652 del 1996, art. 1, comma 3. 2. Il ricorrente deduce la violazione dell’art. 303 c.p.p., comma 3, lett. b) bis e art. 292 c.p.p., comma 2, poichè l’ordinanza impugnata si è limitata alla mera analisi dell’imputazione formulata al momento dell’arresto, senza considerare il testo dell’ordinanza cautelare, il provvedimento di riesame e il complesso degli indizi evidenziati negli atti d’indagine. Tale analisi – volta all’individuazione di elementi ulteriori rispetto all’imputazione sintetica e provvisoria formulata all’atto dell’arresto – avrebbe consentito di rilevare “lo spessore del gruppo criminale organizzato dagli indicati, i ruoli di ciascuno di essi e la natura non occasionale dei loro traffici”.
In particolare, al momento dell’arresto gli indagati sono stati trovati in possesso di oltre Euro 100.000 in contanti, di schede telefoniche, di materiale per il confezionamento dello stupefacente, di una macchinetta conta-soldi, di biglietti relativi a frequenti viaggi aerei in (omissis); circostanze che dimostravano la reiterazione e il perdurare dei rapporti illeciti, come il giudice per le indagini preliminari ha evidenziato nell’ordinanza cautelare e il Tribunale di riesame nell’ordinanza di conferma. Inoltre, dalle dichiarazione di un collaboratore di giustizia – allegate agli atti dell’udienza di convalida – risulta il coinvolgimento degli arrestati nel tentativo di importare oltre trenta Kg di cocaina per il cui acquisto fu inviata in Spagna un’autovettura con il danaro poi sequestrato dagli organi di polizia.
Rispetto alla contestazione di un aggravante, è sufficiente che l’imputato sia messo in condizione di esercitare la propria difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante, desumibili agevolmente già dai verbali di sequestro della polizia giudiziaria.
La contestazione cautelare conteneva, ad avviso del ricorrente tutti gli elementi dell’aggravante ad effetto speciale di cui alla L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 4.
Il ricorrente rileva che il richiamo all’immutabilità del titolo cautelare è improprio, poichè il principio è stato affermato dalle Sezioni unite soltanto per il reato connesso o la circostanza aggravante contestati dal pubblico ministero nel corso del dibattimento ex art. 517 c.p.p.. Mentre, la contestazione contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio è soggetta all’immediato vaglio del giudice dell’udienza preliminare e il pubblico ministero non può in tale ipotesi incidere autonomamente sulla durata della misura cautelare.
Il ricorrente richiama il principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui, ai fini della durata della custodia nella fase di giudizio – qualora sussista diversità tra il reato contestato nell’ordinanza cautelare e quello contenuto nel decreto di rinvio a giudizio – il reato cui occorre avere riguardo, per determinare la durata dei termini di custodia, è quello contestato nel decreto di rinvio a giudizio e non a quello contenuto nell’ordinanza cautelare.
Principio che vale a maggior ragione nel caso di giudizio nelle forme del rito abbreviato, poichè l’imputato richiede il giudizio allo stato degli atti e, in tal modo, implicitamente accetta anche le conseguenze ex lege in materia di custodia cautelare e inoltre l’imputazione è sottoposta al controllo effettuato dal giudice mediante il provvedimento di ammissione del rito e l’effetto scaturisce dall’ordinanza emessa dal gup a norma dell’art. 440 c.p.p..
In conclusione, per il ricorrente in coerenza con la ratio dell’art. 303 c.p.p., secondo cui i termini di fase successivi alle indagini preliminari sono ancorati a tipici provvedimenti giurisdizionali che aggiornano l’ordinanza di custodia ab origine adottata, contenendo una delibazione dell’accusa più o meno approfondita in relazione alla fase in cui intervengono.
4. Tale è la sintesi ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, delle questioni poste.
Motivi della decisione
1. La giurisprudenza di legittimità è pressochè uniforme nel senso che il computo del termine massimo di durata di custodia cautelare per la fase del giudizio ha riferimento all’imputazione come risultante dalla contestazione contenuta nell’ordinanza cautelare o al diverso titolo di reato ritenuto dal giudice, all’esito del giudizio. Regula iuris affermata delle Sezioni unite secondo cui ai fini del computo del termine massimo di custodia cautelare nella fase del giudizio non può tenersi conto delle nuove contestazioni effettuate nel dibattimento dal pubblico ministero, dovendosi fare riferimento esclusivamente all’imputazione formulata nell’originario provvedimento coercitivo, a meno che non sia intervenuta un’ulteriore ordinanza cautelare comprensiva della contestazione suppletiva; ove peraltro il giudice nel corso del dibattimento si sia limitato a dare al medesimo fatto per cui si procede una diversa qualificazione giuridica, al titolo di reato così ritenuto deve aversi riguardo ai fini predetti. (Sez. un., 5 luglio 2000, dep. 11 ottobre 2000, n. 24).
Medesimo il principio di recente – dopo l’opposta pronuncia della terza sezione di questa Corte (6 dicembre 2002, dep. 19 dicembre 2003, n. 8128) – è stato ribadito dalla seconda sezione in una concreta fattispecie pressochè simile a quella dell’odierno procedimento.
Ai fini del computo del termine di fase delle indagini preliminari – afferma Sezione 2^, 5 ottobre 2006, dep. 19 ottobre 2006, n. 35195 – si deve aver riguardo al reato contestato nel provvedimento restrittivo, costituito dalla reciproca integrazione dell’ordinanza cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari e di quella pronunciata ex art. 309 c.p.p. dal tribunale del riesame, in quanto il “delitto per cui si procede” è quello enunciato nell’imputazione del provvedimento restrittivo, anche se l’azione penale sia stata esercitata successivamente per un delitto diverso. La concreta fattispecie era riferita alla perdita di efficacia della misura cautelare per decorrenza dei termini della fase delle indagini preliminari e disposta la scarcerazione “ora per allora” da parte del giudice del rito abbreviato che ebbe correttamente a considerare “delitto per cui si procede” quello risultante dall’imputazione del provvedimento cautelare, come modificata dal tribunale del riesame, anche se con la richiesta di rinvio a giudizio la qualificazione giuridica era mutata.
Ed invero “delitto per cui si procede” è quello rappresentato nell’imputazione del provvedimento restrittivo. Non apporta contributo in senso favorevole all’assunto del pubblico ministero ricorrente perchè il principio enucleato è quello secondo il quale, in caso di difformità tra il reato contestato nell’ordinanza cautelare e il reato contestato nel procedimento principale da parte del pubblico ministero, è al primo che deve farsi riferimento ai fini del calcolo del termine massimo custodiate di fase.
2. Ciò posto, l’imputazione è stata integrata, mediante la contestazione della circostanza aggravante, unicamente con l’avviso della conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.p., cui il pubblico ministero avrebbe potuto e dovuto richiedere l’adozione di nuova ordinanza cautelare che, ex art. 297 c.p.p., comma 3, che avrebbe avuto l’effetto di determinare il diverso computo dei termini di custodia.
Una condotta criminosa realizzata da più persone in concorso tra loro – come ab origine indicata nell’imputazione cautelare non ha certo la connotazione che gli è stata attribuita nell’atto d’impulso processuale “…con l’aggravante di cui alla L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 4 poichè al fatto ha dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato…”. Accusa nella quale sono sintetizzati e contestati gli elementi racchiusi nell’attività d’indagine che avrebbero richiesto anche una specifica articolazione, sotto il profilo giuridico e fattuale, nel titolo cautelare.
La definizione di reato transnazionale – delineata nelle diverse figure racchiuse nell’elenco che ne fa la L. n. 146 del 2006, art. 3 – da conferma e contenuto alla corretta conclusione cui è giunto il giudice d’appello secondo cui l’aggravante, pressochè speculare a una delle configurazioni del crimine transnazionale descritta nel citato art. 3, lett. c), è un quid pluris che avrebbe richiesto una specifica integrazione dell’imputazione cautelare ai lini di una diversa e più ampia durata dei termini di custodia.
3. Corretto, dunque, il ragionamento giuridico e fattuale del giudice d’appello. Infondate la censure sul punto mosse dai ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2009
