1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del 14 aprile 2016, con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano ha condannato, all’esito del giudizio abbreviato, V.C. alla pena di legge per i reati di maltrattamenti in danno della coniuge convivente, aggravato dalla presenza del figlio minorenne (capo A), e di lesioni personali aggravate in danno della medesima (capo B).
2. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. Bora Luciano Maria, difensore di fiducia di V.C., e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:
2.1. violazione di legge penale in relazione al reato di cui al capo A), per avere la Corte d’appello ritenuto erroneamente integrato il delitto di maltrattamenti nonostante l’assenza del dolo (specifico e generico) e la mancanza dello stato di soggezione della vittima, là dove quest’ultima abbandonava l’abitazione coniugale dimostrando la mancanza di qualunque sudditanza psicologica nei confronti dell’imputato; il ricorrente si duole altresì della ritenuta integrazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, evidenziando che il minore, all’epoca dell’unico episodio in rilievo, aveva pochissimi mesi ed era totalmente incapace di comprendere cosa stesse accadendo, non potendo l’aggravante in parola correlarsi alla mera presenza fisica dell’infante al momento del fatto; il ricorrente si lamenta, infine, della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche;
2.2. violazione di legge penale in relazione al reato di cui al capo B), per avere la Corte erroneamente escluso l’assorbimento del reato di lesioni in quello di maltrattamenti.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è destituito di fondamento in relazione a tutte le deduzioni mosse e va pertanto disatteso.
2. Non coglie nel segno il primo rilievo dedotto col primo motivo di ricorso.
2.1. Ed invero, la Corte milanese ha ineccepibilmente esplicitato le ragioni per le quali abbia ritenuto integrato il reato di maltrattamenti, evidenziando come, da un lato, risulti integrato lo specifico requisito della abitualità delle condotte, là dove le violenze si protraevano per ben sette mesi; dall’altro lato, sussista lo stato di soggezione della persona offesa, che il Collegio di merito ha ritenuto provato – con considerazioni scevre da illogicità manifesta – alla luce del comportamento altalenante della donna che, per mesi, non rivelava a nessuno le ripetute aggressioni e vessazioni subite dal marito, dopo la prima denuncia e l’adozione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, si riconciliava col coniuge, sporgeva, poi, un’ulteriore denuncia e perveniva, quindi, ad una nuova riappacificazione, a dimostrazione della condizione di inferiorità, sudditanza psicologica e timore nei confronti del marito (v. pagine 5 – 8 della sentenza impugnata).
3. E’ inammissibile il rilievo concernente le circostanze attenuanti generiche là dove, secondo i consolidati principi espressi da questa Corte di legittimità, la concessione della diminuente costituisce un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice di merito, sottratto al controllo di legittimità qualora sia sorretto da una motivazione che – come nella specie – faccia emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737; Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900).
La Corte territoriale ha congruamente argomentato come V. non sia meritevole dell’invocata mitigazione del trattamento sanzionatorio in assenza di situazioni e circostanze positive incidenti sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, valorizzando a conforto della conclusione la gravità della condotta e l’entità della violenza espressa (v. pagina 9 della sentenza impugnata).
4. E’ destituito di fondamento anche il motivo con il quale il ricorrente attacca la decisione nella parte in cui si è ritenuta integrata la circostanza aggravante della presenza del minore di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, evidenziando come, all’epoca dell’unico episodio di rilievo, il figlio dell’imputato fosse troppo piccolo (avendo soltanto pochi mesi) per potersi rendere conto delle condotte maltrattanti in ipotesi commesse dal padre in danno della madre e, dunque, per subire le conseguenze negative cui appunto si correla l’aggravante in parola. Giova precisare che, secondo quanto si evince dal capo d’imputazione, il minore – nato nel maggio 2015 – aveva all’epoca dei vari episodi (commessi nel giugno, ottobre e novembre 2015) un’età compresa fra un mese sino a sei mesi.
4.1. L’art. 61 c.p.p., comma 1, n. 11-quinquies, – come modificato con L. 15 ottobre 2013, n. 119 – contempla una circostanza aggravante comune applicabile ai delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale, nonchè – per quanto rileva nel caso sub iudice – al delitto di maltrattamenti qualora la condotta sia commessa “in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”.
4.2. La novellato del 2011 si pone su di una linea di continuità rispetto alla costante ermeneusi di legittimità, secondo la quale il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nei confronti dei figli qualora la condotta di colui che compia atti di violenza fisica sia diretta contro la sola convivente, ma – appunto – in presenza dei minori, integrando la c.d. “violenza assistita” o indiretta. Ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen., lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi (Sez. 5, 22/10/2010 n. 41142, Rv. 248904; Sez. 6, 21/12/2009, n. 8592, Rv. 246028).
Va invero rimarcato come il reato di maltrattamenti sia un reato contro la famiglia (precisamente contro l’assistenza familiare) e come il suo oggetto giuridico sia costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica (ex plurimis Sez. 6, 24/11/2011 n. 24575, Rv. 252906). Coerentemente col bene protetto dall’incriminazione, il raggio di copertura della incriminazione non può non estendersi a comprendere tutti i soggetti che facciano parte della sfera familiare e che possano subire pregiudizi dai comportamenti aggressivi maturati in detto contesto.
D’altra parte, è consolidato l’orientamento della giurisprudenza civile secondo il quale i maltrattamenti commessi inflitti da un coniuge all’altro in presenza dei figli possono condurre alla dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, a norma dell’art. 330 cod. civ., per le inevitabili ripercussioni negative sull’equilibrio fisiopsichico della prole e sulla serenità dell’ambiente familiare e poichè, ancora, denotano mancanza di quel minimo di disponibilità affettiva e pedagogica richiesto in chi esercita la potestà parentale.
4.3. Lasciando da parte la previsione dell’aggravante dell’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, correlata all’agire che investa direttamente la persona del minore – che non interessa ai fini della soluzione sottoposto al vaglio della Corte -, si tratta di stabilire quale sia l’esatta portata della locuzione “in presenza (…) di un minore di anni diciotto”. In particolare, per quanto concerne il caso de quo, v’è da chiedersi se, ai fini della integrazione dell’elemento circostanziale, sia sufficiente che il fatto sia commesso in un luogo ove si trovi contestualmente anche un minore ovvero se sia anche necessario che quest’ultimo sia in grado di percepire e di avere consapevolezza del carattere offensivo della condotta in danno di terzi avvenuta in sua presenza.
4.4. Orbene, ritiene il Collegio che, ai fini della integrazione della circostanza aggravante, sia sufficiente che il minore sia esposto alla percezione degli atti di violenza e che non sia in alcun modo richiesto che questi sia anche in grado, per il grado di maturità psicofisica conseguito, di realizzare, di comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza.
Tale conclusione esegetica discende dalla piana lettura della disposizione, interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse – in conformità all’art. 12 preleggi -, là dove prevede esclusivamente che l’azione si svolga “in presenza” del minore e non richiede, in nessuna parte, che questi abbia raggiunto un’età o un grado di sviluppo intellettivo o psicologico tale da poter apprezzare la natura violenta o offensiva dell’agire che venga perpetrato intorno a sè.
Non potrebbe, pertanto, non risultare arbitraria l’introduzione per via interpretativa – giurisprudenziale – di una qualunque limitazione non prevista dal legislatore all’applicazione della fattispecie correlata all’età o al livello di maturità del soggetto che assista, suo malgrado, alle condotte vessatorie.
4.5. La lettura privilegiata si appalesa, d’altronde, coerente con la ratio dell’elemento circostanziale, che si correla all’esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti i quali, a cagione dell’incompletezza del loro sviluppo psico-fisico, risultano più vulnerabili e, dunque, più sensibili ed esposti ai riverberi negativi degli agiti aggressivi che siano realizzati in loro presenza.
Non è revocabile in dubbio il maggior disvalore della condotta maltrattante che sia posta in essere da un soggetto nei confronti di un altro in presenza di un minore, costretto ad essere suo malgrado spettatore delle manifestazioni di violenza, fisica o morale. Da un punto di vista oggettivo, l’azione aggressiva viene ad avere uno spettro più ampio, là dove va ad attingere una pluralità di soggetti anzichè il solo partner, e realizza un’offesa di più grave intensità al bene tutelato dalla norma (la famiglia), comportando inevitabili ripercussioni negative nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata; dal punto di vista dell’elemento soggettivo, manifesta una deliberata e consapevole trascuratezza dell’agente verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali dei figli.
D’altronde, come condivisibilmente osservato dai Giudici della cognizione, costituisce approdo ormai consolidato della scienza psicologica che anche bambini molto piccoli, persino i feti ancora nel grembo materno, siano in grado di percepire quanto avvenga nell’ambiente in cui si sviluppano e, dunque, di comprendere e di assorbire gli avvenimenti violenti che avvengano intorno a sè, in particolare le violenze subite dalla madre, con ferite psicologiche indelebili ed inevitabili riverberi negativi per lo sviluppo della loro personalità.
4.6. La lettura ermeneutica proposta è conforme all’insegnamento espresso da questa Corte in relazione ad altre ipotesi delittuose. In particolare, in materia di diffamazione, si è ritenuto integrato il requisito della comunicazione con più persone anche quando le frasi offensive siano pronunciate alla presenza di un adulto e di minori in tenera età (nella specie di due e quattro anni) qualora questi, pur non essendo in grado di cogliere lo specifico significato delle parole usate, ne abbiano colto la generica portata lesiva, tanto da esserne rimasti turbati e diventino potenziali strumenti di propagazione dei contenuti diffamatori (Sez. 5, n. 16108 del 23/02/2017, L., Rv. 270672)
5. Non coglie nel segno neanche il secondo motivo di ricorso.
5.1. Il passaggio argomentativo col quale il Giudice d’appello ha ritenuto insussistenti i presupposti per l’invocato assorbimento nel delitto di maltrattamenti del reato di lesioni personali, di cui ha, fra l’altro, rimarcato l’estrema gravità (v. pagine 8 e 9 della sentenza in verifica), è invero perfettamente allineato al costante insegnamento di questa Corte, alla stregua del quale il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce, anche gravi, ma non quello di lesioni, attesa la diversa obiettività giuridica dei reati (Sez. 6, n. 13898 del 28/03/2012, S., Rv. 252585).
6. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2017.
