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Cassazione penale, sez. VI, 16/01/2014, n. 5147

Massima

Integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale qualsiasi condotta attiva od omissiva che si traduca in un atteggiamento – anche implicito, purchè percepibile “ex adverso” – volto ad impedire, intralciare o compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. (Fattispecie relativa ad indagato per cessione di stupefacenti che, al fine di ritardare la perquisizione del proprio appartamento e potersi disfare della droga gettandola nel water, aveva lasciato libero il proprio cane rottweiler nelle pertinenze dell’abitazione prima di chiudersi a chiave all’interno, impedendo così l’accesso agli operanti intervenuti per la perquisizione).

Supporto alla lettura

RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale si configura quando una persona usa violenza o minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale, cioè colui che esercita una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Le prime due funzioni sono riferibili a parlamentari, consiglieri regionali e giudici; la funzione amministrativa, invece, è riferibile a tutti coloro che dipendono da una pubblica amministrazione (es. medici, cancellieri, docenti, carabinieri, poliziotti ecc.)

Caratteristica fondamentale del reato di resistenza a pubblico ufficiale è che l’atto di ufficio sia già iniziato e che la violenza o la minaccia sia contemporanea allo svolgimento dell’attività.

Perché il reato sia configurabile, è necessario che:

  • la condotta dell’imputato sia attiva: deve esserci un’azione concreta diretta a ostacolare il pubblico ufficiale;
  • l’atto sia intenzionale: l’accusato deve aver agito con la volontà di impedire o ostacolare il pubblico ufficiale;
  • il pubblico ufficiale sia in servizio e stia esercitando le sue funzioni: come un controllo stradale, un arresto o un’operazione di ordine pubblico.

In altre parole, la persona che si oppone al pubblico ufficiale o all’incaricato del pubblico servizio deve influire negativamente sulla libertà di movimento del pubblico funzionario.

Il Codice Penale prevede per questo reato una pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Se vi sono aggravanti, come l’uso di armi o l’aver causato lesioni al pubblico ufficiale, la pena può aumentare. Inoltre, se il reato viene commesso in concorso con altre persone, le sanzioni possono essere ulteriormente aggravate.

Esistono tuttavia circostanze attenuanti, che possono ridurre la pena, ad esempio:

  • se l’atto di resistenza è stato proporzionato e non ha provocato danni gravi;
  • se l’imputato ha agito in stato di necessità o legittima difesa;
  • se la condotta può essere ridimensionata rispetto all’accusa formulata.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Brescia, con sentenza dell’11/04/2013, ha confermato l’affermazione di responsabilità di P.M. pronunciata dal Tribunale di Bergamo con sentenza del 12/11/2012 in ordine ad episodi di cessione di sostanze stupefacenti, ed al reato di resistenza a pubblico ufficiale.

2. Ha proposto ricorso il difensore della P. avv. Plastina, deducendo contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ricostruzione dei fatti che hanno giustificato l’affermazione di responsabilità per il delitto di resistenza, il cui elemento costitutivo è stato identificato nell’azione di liberare il cane da guardia contro i verbalizzanti. In proposito si rileva che azione costituente reato è descritta in maniera difforme nel verbale di arresto ed in quello di perquisizione e sequestro, situazione che non consente di concludere univocamente sulla volontà dell’interessata di frapporre ostacoli al controllo.

Si contesta che sia stata accertata la natura della sostanza rinvenuta vicino al water, di cui la donna, in tesi d’accusa, si sarebbe disfatta, in quanto la sentenza fonda le sue conclusioni sul punto sulle risultanze di un narcotest che risulta svolto solo sulle dosi sequestrate presso gli acquirenti.

3. Con il secondo motivo si denuncia erronea applicazione della legge penale, con riguardo all’accertamento di responsabilità della donna a titolo di concorso con il convivente, fondato sulle non univoche circostanze di fatto richiamate. A tutto concedere nella specie si ravvisa un aiuto offerto dalla ricorrente, successivo alla consumazione del reato, che integra il diverso delitto di favoreggiamento.

4. Con autonomo ricorso l’avv. (omissis) deduce nell’interesse della P. erronea applicazione della legge penale, nella parte in cui il giudicante ha ritenuto sussistente il concorso della donna nel reato del convivente, omettendo di valutare l’assenza di interventi di questa nell’azione materiale compiuta, e desumendo tale concerto esclusivamente dall’attività successiva al reato, elemento idoneo ad integrare il diverso delitto di favoreggiamento.

Il concorso nel reato di cessione di sostanza stupefacente si assume accertato sulla base di su indizi non univoci, quali il preteso narcotest sulla sostanza trovata sparsa nel bagno dell’azione, analisi assente dagli atti, mentre nell’abitazione non è stata ritrovata ulteriore sostanza.

5. Con ulteriore motivo si censura violazione di legge e vizio di motivazione, nella parte in cui si è ritenuto di ravvisare nel comportamento della donna, descritto equivocamente negli atti di indagine, la volontà di ostacolare l’azione dei pubblici ufficiali, parificando l’azione di liberazione del cane, all’omissione della sua chiamata, così individuando in entrambe le condotte un’azione dolosamente volta a minacciare i pubblici ufficiali, con ricostruzione che si ritiene non sufficiente ad integrare l’illecito.

6. Si rileva da ultimo difetto di motivazione riguardo al rigetto della richiesta di riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., esclusa con richiamo alla natura del ruolo della donna nell’attività, che, sulla base delle osservazioni svolte, non si ritiene invece chiaramente definito.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. La pronuncia impugnata elenca con chiarezza tutti gli elementi di fatto, accertati in maniera univoca, che hanno condotto all’attribuzione della responsabilità della donna per il reato di concorso nel reato di detenzione e cessione di sostanza stupefacente.

E’ bene richiamare in diritto il principio in forza del quale qualsivoglia attività che risulti volta ad assicurare il completo svolgimento dell’azione commerciale illecita integra gli estremi di tale condotta, e ciò a prescindere dalla materiale esecuzione della consegna della sostanza, per il criterio generale dell’equivalenza degli apporti causali dei concorrenti del reato, desumibile dall’impostazione dell’art. 110 c.p..

Nella specie risulta che nella giornata di riferimento il convivente della P. aveva effettuato plurime consegne di sostanza stupefacente, comprovate dall’osservazione realizzata dalle forze dell’ordine; la partecipazione pregressa della donna all’azione è stata successivamente ritenuta dai giudici di merito sulla base della valorizzazione di una serie di indizi, univoci e gravi, quali la circostanza che nell’abitazione erano state poi rinvenute involucri per il confezionamento delle dosi, bilancino, ventisette sim card, ed una somma di denaro composta da banconote di piccolo taglio, anche nel diretto possesso dell’interessata, di elevata consistenza rispetto alle sue condizioni economiche, della quale non è stata in grado di fornire attendibile giustificazione, con particolare riferimento alla concreta possibilità di accumulo di tali risparmi.

E’ stata evidenziata inoltre l’immediata collaborazione prestata dalla donna in favore del coimputato nella soppressione delle tracce dell’illecito, a seguito di una mera chiamata verbale eseguita da questi a gran voce dall’esterno dell’abitazione, collaborazione realizzata senza previamente sincerarsi delle condizioni concrete in cui tale evocazione veniva formulata; tale condotta logicamente rimanda ad accordi pregressi e non ad una estemporanea iniziativa personale, dopo la consumazione del reato, considerato peraltro che la detenzione di stupefacente era ancora in corso e non poteva dirsi conclusa, se non con la distruzione della sostanza, cui risulta dai successivi controlli aver provveduto l’interessata.

La situazione poi accertata a seguito della perquisizione ha condotto al rinvenimento, oltre che degli oggetti richiamati, anche di residui di polvere bianca nei pressi del w.c., accertamento che forniva giustificazione al ritardo nell’apertura dell’alloggio agli agenti, oltre che sostegno all’ipotesi di un’azione appena compiuta.

L’eccepita mancanza di un riscontro sulla natura della sostanza risulta non fondata, poichè emerge dal verbale in atti che anche su tali residui venne acquisito il narcotest, con esito positivo, ed operato il sequestro, e la mancata allegazione di tali risultanze al fascicolo era giustificata dal trattenimento di tali atti negli uffici della p.g., in attesa di istruzioni del P.m. procedente; la mancanza di ulteriori approfondimenti in contraddittorio sul punto ben si spiega con la successiva scelta degli interessati di procedere con il rito abbreviato, che ha fatto venir meno, per iniziativa delle parti, la necessità di un ulteriore controllo, circostanza che non esclude la portata dimostrativa di quanto relazionato dagli agenti nel corso dello svolgimento delle operazioni.

Conseguentemente, i vizi di erronea applicazione di legge nell’individuazione degli elementi costitutivi del concorso di persone nel reato, risultano infondati, sia in relazione all’avvenuta individuazione degli elementi tipici dell’intervento della donna nel corso dello svolgimento dell’azione, che esclude la consistenza dell’ipotesi alternativa del favoreggiamento, sia per la compiuta individuazione dei convergenti e gravi indizi di tale attività, che risultano esposti con completezza e coerenza argomentativa.

3. Analoga corretta applicazione della norma penale, e coerenza argomentativa deve ravvisarsi nell’accertamento del reato di resistenza a pubblico ufficiale. Al di là della differente sfumatura ricostruttiva contenuta nel verbale di arresto – ove si riconduce alla P. l’azione volta a liberare il rottweiler, prima di chiudere la porta blindata per impedire l’accesso all’alloggio – ed in quello di perquisizione – in cui sembra possibile ritenere che l’agente si sia limitata a lasciare libero l’animale, già fuori dall’alloggio, prima di chiudere la porta di accesso all’abitazione – sottolineata dalle ricorrenti difese con riferimento alla descrizione della condotta materialmente realizzata dalla donna, risulta indubbio dall’univoco risultato di inibizione dell’accesso degli agenti, concretizzato nel chiudere a chiave la porta di casa mentre il controllo era in atto, che la P. voleva impedire ai pubblici ufficiali l’esercizio dell’azione doverosa. Ciò comporta, anche ammettendo in linea con quanto emerge dal verbale di perquisizione, che il cane fosse già fuori dall’alloggio, il consapevole mantenimento di una situazione di concreta minaccia nei confronti degli operanti, di cui la donna ha inteso garantire, con la sua condotta, la persistente efficacia.

Si deve quindi convenire che la sentenza impugnata, nella parte in cui valuta indifferente la pretesa contraddittorietà delle risultanze, applica coerentemente criteri logici ed ermeneutici nella valutazione dell’azione volontaria compiuta dalla donna, collegando la consapevole permanenza dell’azione minacciosa alle sue strumentali necessità in quel momento, circostanza che permette di ricondurre comunque ad una sua determinazione consapevole l’azione oppositiva, ancorchè realizzata in via mediata.

Ciò che l’agente risulta, a tutto concedere, aver compiuto nella specie, costituisce lo sfruttamento di una situazione minacciosa in atto, nella quale ella aveva la possibilità di incidere per il potere dispositivo sull’animale rimessole dalla condizione di proprietaria, e della quale invece si è assicurata la persistenza costringendo il cane ed i pubblici ufficiali a condividere gli stessi spazi; tale condizione di concreta minaccia poteva cessare solo con la rinuncia delle forze dell’ordine a svolgere l’attività doverosa, elemento di fatto che evidenzia la correlazione tra la minaccia di cui l’interessata ha assicurato l’efficacia e la persistenza e l’inibizione dell’attività doverosa del pubblici ufficiali.

Nè la configurazione della fattispecie è impedita dall’apparente imposizione di un obbligo giuridico di collaborazione, pacificamente non gravante sulla persona sottoposta a controllo, in quanto la necessità del suo intervento può ritenersi solo in conseguenza della presenza di una situazione di minaccia di cui l’interessato abbia la consapevolezza. E’ bene ricordare che questa Corte ha già affermato la possibilità della consumazione della resistenza in forma omissiva, ove tale omissione risulti scientemente volta a non rimuovere l’impedimento all’azione dei pubblici ufficiali caratterizzato dalla violenza o minaccia (sullo specifico punto Sez. 6, n. 8667 del 28/05/1999 – dep. 07/07/1999, La Delfa R, Rv. 214199), verifica dell’elemento psicologico che nella specie risulta svolta nella sentenza impugnata sulla base delle risultanze.

Per i motivi esposti deve escludersi sia la violazione di legge lamentata, che la contraddizione che si assume presente nella sentenza, elemento che, a tutto concedere, caratterizza invece gli atti di p.g., la cui irrilevanza è superata dalla coerente argomentazione espressa sull’individuato scopo dell’azione realizzata dalla P..

4. Insussistente risulta il difetto di motivazione relativo all’esclusione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto invocata dal secondo difensore, poichè la sentenza, nel ricostruire il livello di partecipazione da conto sia in maniera esplicita, che con il complessivo richiamo all’importanza della condotta svolta al fine della consumazione del reato di detenzione di sostanza stupefacente, dell’insussistenza dei presupposti applicativi della disciplina invocata; in relazione a tale esposizione la contestazione contenuta in ricorso è volta esclusivamente a sollecitare una diversa determinazione di merito in questa fase, estranea al presente giudizio.

5. Il rigetto del ricorso impone al condanna dell’interessata al pagamento delle spese del grado, in applicazione del’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2014.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2014

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