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Cassazione penale sez. VI, 15/09/2025, n. 30780

Massima

In materia di reato di maltrattamenti in famiglia (Art. 572 cod. pen.), il giudizio di abitualità delle condotte vessatorie e denigratorie – quali quelle rivolte da un padre alla figlia adolescente riguardanti l’aspetto fisico con frasi offensive di estrema gravità (“cicciona, fai schifo”) – non è intaccato né dalla brevità dell’arco temporale coperto dall’imputazione (poco più di sei mesi), né dalla modestia della continuativa convivenza materiale tra imputato e persona offesa. Tali aspetti risultano recessivi quando siano accertate più consistenti ragioni di vicinanza e contatto, come i continui momenti di contatto telefonico, che integrano il complessivo substrato intersoggettivo della fattispecie. Nel quadro della valutazione probatoria, i giudici del merito devono attribuire maggior peso al vincolo familiare che univa gli interlocutori e all’ontologico rilievo che assumono i giudizi paterni rivolti a una figlia in piena evoluzione formativa, la cui fragile sensibilità funge da chiave di lettura inequivoca dell’intensità delle sofferenze patite. Inoltre, non sussiste manifesta illogicità nel valorizzare una condotta successiva ai fatti (come un messaggio inviato anni dopo), seppur non apprezzata ai fini della materialità del reato, in quanto essa può logicamente indicare ex post il modo di agire e interloquire dell’imputato, confermando una consolidata abitudine denigratoria non messa in discussione neppure dalla pendenza del processo.

Supporto alla lettura

Maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti in famiglia si colloca nella parte del codice penale dedicata ai delitti contro la famiglia e l’assistenza familiare, caratterizzati dal fatto che l’offesa deriva da membri dello stesso gruppo familiare al quale appartiene la vittima.
In realtà, limitare alla famiglia l’oggetto giuridico del reato ex articolo 572 del codice penale, sarebbe fuorviante.
In primo luogo perché, anche in base alla interpretazione letterale, il bene giuridico protetto è l’integrità psicofisica e morale della vittima.
In secondo luogo perché rispetto agli altri reati previsti nel titolo XI del codice penale, il soggetto passivo non è necessariamente un familiare dell’agente, ma chiunque abbia con lui una relazione qualificata (rapporto di convivenza, sottoposizione per ragioni di autorità, affidamento per ragioni di educazione, cura, istruzione, vigilanza, custodia, esercizio di una professione o arte).
Ne consegue che l’effettivo fondamento giuridico dell’art 572 c.p. deve essere rinvenuto nella stabilità del vincolo affettivo e/o umano tra l’agente e soggetti ritenuti “deboli” ed esposti a episodi di sopraffazione da parte del soggetto “forte”, anche in applicazione di quanto previsto dalla ratificata Convezione di Lanzarote del 2007.
Tra i vari interventi che hanno modificato l’art. 572 c.p. negli anni, si ricorda:

  • la legge n. 172 del 2012 con la quale il legislatore ha incluso i semplici conviventi nel novero delle vittime di maltrattamenti;
  • la legge 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) che ha inasprito il regime sanzionatorio, soprattutto per contrastare episodi di c.d. violenza domestica e che ha inserito l’ultimo comma dell’articolo 572 c.p. che prevede che il minore che assiste ai maltrattamenti familiari debba essere considerato persona offesa.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. La difesa di (omissis) impugna la sentenza descritta in epigrafe con la quale la Corte di appello di Venezia ha dato conferma alla condanna del predetto alla pena ritenuta di giustizia per i maltrattamenti ex art 572 cod. pen. arrecati alla figlia Stella dal gennaio al luglio del 2020.

2. Con il ricorso si contesta il giudizio di abitualità posto a fondamento della ritenuta configurabilità dei maltrattamenti ascritti al ricorrente, lamentando asserite violazioni di legge, anche processuale, e vizi della motivazione, sia in relazione alla relativa tenuta logica dell’argomentare tracciato a conferma della decisione gravata, sia con riguardo alla travisata lettura del dato probatorio acquisito.

Tanto perché la Corte del merito:

– avrebbe omesso l’indicazione di puntuali situazioni in fatto destinata confermare l’intensità e la reiterata esecuzione degli agiti vessatori allo stesso contestati nel breve lasso di tempo compreso dall’imputazione e a fronte dei modesti momenti di contatto con la figlia in quel contesto temporale (l’imputato si trovava in Svezia per lavoro mentre imperversava il Covid sì che aveva convissuto con la minore solo il tempo di tre diversi fine settimana);

– avrebbe ricavato il profilo della abitualità delle vessazioni facendo leva su una circostanza in fatto – il messaggio inviato dall’imputato alla figlia tre anni dopo la cessazione delle condotte contestate, nel corpo del quale si metteva in luce il rilievo mediatico ascritto al processo che occupa- in grado di viziare la decisione gravata sotto il versante della non coincidenza tra fatto contestato e fatto giudicato (per aver valorizzato, a sostegno del giudizio di responsabilità, situazioni estranee al tenore dell’imputazione), dando al contempo conto di profili di manifesta illogicità del ritenere (per aver apprezzato in termini di evidente arbitrarietà, quale conferma delle reiterate offese rivolte alla figlia, tale elemento fattuale, come detto successivo alle condotte a giudizio);

– avrebbe travisato le dichiarazioni rese dalla figlia, attribuendo alle stesse significati diversi dal tenore intrinseco del relativo narrato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non merita l’accoglimento perché riposa su motivi quantomeno infondati.

2. L’imputato è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 572 cod. pen. per aver manifestato, in termini di reiterata frequenza nell’arco temporale compreso dall’imputazione, il proprio disprezzo per le condizioni fisiche e le capacità relazionali della figlia, alla quale rivolgeva, con continuità, frasi denigratorie (“cicciona, fai schifo, susciti repulsione in me e in chi ti guarda”), ferendone la personalità e provocandone un regime di vita svilente, anche in considerazione della particolare vulnerabilità della stessa, all’epoca undicenne.

Condotte, queste, ribadite con abitualità sino all’episodio del 28 luglio 2020 in occasione del quale, sempre per causali essenzialmente legate alla igiene alimentare cui la figlia non si atteneva, ebbe ad aggredirla anche fisicamente con percosse assorbite nel reato ritenuto.

3. In punto di diritto, la valutazione resa dalle due, conformi, decisioni di merito è certamente condivisibile.

I contegni ascritti al ricorrente, se comprovati in termini di abitualità, non possono non ritenersi coerenti alla fattispecie contestata: in linea con le considerazioni spese dalla Corte territoriale, va infatti confermato che integrano i costituti oggettivi del reato di maltrattamenti le condotte di reiterata denigrazione messe in atto da un padre nei confronti della figlia adolescente tali da arrecarle un clima di vita svilente e umiliante perché riguardanti un tema, l’aspetto esteriore di un soggetto in piena pubertà, rispetto al quale la fragile sensibilità del soggetto passivo funge da chiave di lettura inequivoca dell’intensità delle sofferenze patite dalla persona offesa allorquando, come nella specie, le frasi offensive, oltre che gratuite, hanno contenuti di estrema gravità rispetto al fisiologico percorso di crescita della minore, perché manifestazione di un evidente disprezzo, ancor più sentito in ragione della provenienza paterna delle stesse.

Del resto, la stessa impugnazione, a ben vedere, non contrasta la configurabilità astratta del reato contestato avuto riguardo agli agiti in questione. Mette in discussione, piuttosto, la comprovata abitualità delle condotte riferite all’imputato, considerato il portato delle prove apprezzate a sostegno di una siffatta conclusione, frutto di una asserita lettura manifestamente illogica e travisata, anche alla luce del ristretto periodo considerato dall’imputazione (poco più di sei mesi) e dei modesti momenti di contatto, in quel determinato contesto temporale (essenzialmente coincidente con il noto fenomeno pandemico), tra padre e figlia (che ebbero a convivere solo per tre fine settimana).

4. Le censure difensive non intaccano il giudizio di merito posto a fondamento della ritenuta responsabilità.

5. Sono inammissibili e comunque infondate quelle di matrice processuale.

L’addotta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza risulta tardivamente prospettata per la prima volta in questa sede, con conseguente inammissibilità del rilievo (così, tra molte, Sez. 4, n. 19043 del 29/03/2017, Rv. 269886).

5.1. In ogni caso, il rilievo è manifestamente infondato.

La circostanza in fatto denunziata a sostegno del detto motivo (il citato messaggio inviato alla figlia anni dopo le vicende a giudizio) non è stata apprezzata a corredo degli elementi destinati a contribuire, sul piano della relativa materialità, alla ritenuta configurabilità del reato in contestazione.

Piuttosto, ne è stato valorizzato il portato quale condotta successiva ai fatti e ciò malgrado logicamente indicativa, seppur ex post, del modo di agire e interloquire dell’imputato con la figlia, proprio con riguardo ai temi messi al centro delle condotte denigratorie poste a fondamento dell’ipotesi accusatoria.

6. Né tale ragionamento, sul piano della linearità logica del motivare, può ritenersi manifestamente incongruo, perché comunque diretto a rimarcare la consolidata indifferenza del ricorrente rispetto ad argomenti certamente in grado di ferire la sensibilità della figlia quale sintomo di una abitudine ribadita, non messa in discussione neppure dalla pendenza del processo in questione.

7. Non colgono nel segno, ancora, le critiche difensive dirette a mettere in evidenza la modestia dell’arco temporale coperto dalla contestazione e l’assenza di una continuativa situazione di materiale convivenza del ricorrente con la figlia.

Si tratta di aspetti, infatti, che sono stati correttamente ritenuti recessivi rispetto alla valenza del vincolo familiare e agli incontroversi e continuativi momenti di contatto telefonico tra l’imputato e la figlia in quel medesimo contesto temporale, coerentemente inquadrati nella peculiarità propria offerta dal quadro fattuale espresso dalla regiucanda.

Siffatte, più consistenti, ragioni di vicinanza e contatto, ad integrazione di quelle di immediata convivenza riscontrate in quel determinato ambito cronologico, hanno certamente contribuito al riscontro del complessivo substrato intersoggettivo sul quale hanno finito per innestarsi le condotte denigratorie realizzate dal (omissis), in linea con le connotazioni tipiche della fattispecie in contestazione.

I rilievi difensivi, dunque, non hanno influito negativamente sul tema della oggettiva configurabilità del reato in contestazione: i giudici del merito, nel riscontrare l’intensità e l’incidenza delle condotte vessatorie patite dalla persona offesa, hanno infatti del tutto correttamente attribuito maggior peso, nel quadro della ritenuta illiceità delle relative condotte, al legame familiare che univa i due interlocutori f nonché alla delicatezza del tema messo in gioco dagli atteggiamenti denigratori del ricorrente e all’ontologico rilievo che assumono i giudizi paterni, se rivolti, come nella specie, a una figlia che si trovava, all’epoca, al centro della propria evoluzione formativa.

8. Per il resto, il giudizio speso dalla Corte del merito nel rendere la relativa valutazione probatoria non soffre di vuoti o manifeste illogicità, né pare viziato da una travisata lettura del dato acquisito, avuto riguardo, in particolare, alle dichiarazioni della minore, persona offesa dalle condotte del ricorrente.

8.1. La Corte del merito, nel riscontrare probatoriamente i costituti oggettivi del reato in contestazione, con adeguata puntualità ha dato conto delle dichiarazioni della madre della minore (là dove descriveva le visite del padre come una occasione “per perpetuare comportamenti svilenti e maltrattanti” ai danni della figlia); a quelle della sorella dell’imputato (utili a descrivere la personalità del ricorrente in termini coerenti all’accusa, per l’assenza di freni inibitori quanto alla abitudine nell’insultare le persone); alla relazione dei servizi sociali valorizzata a conferma del disprezzo nutrito dal padre per le caratteristiche fisiche della figlia, atteggiamento ribadito anche in occasione del confronto con il relativo “team” lavorativo (pag. 7 della decisione gravata).

Tutti elementi, questi, che hanno fatto da valido contorno allo snodo essenziale della relativa valutazione, all’evidenza offerta dalle dichiarazioni della persona offesa.

8.2. Anche sotto questo versante, le valutazioni operate dalla sentenza impugnata risultano inadeguatamente attinte dal ricorso.

8.2.1. Facendo leva su un dato non privo di rilievo (in sentenza si dà atto che il Collegio di appello ha deciso di visionare direttamente la registrazione relativa alla escussione della minore), non a caso coincidente con la complessiva puntualità del motivare speso sia nel dare conto della credibilità soggettiva della dichiarante, sia nel rimarcarne l’attendibilità intrinseca del relativo narrato, circostanziato e ben contestualizzato, la Corte del merito (si veda in particolare il punto 1.1.2 della parte in diritto), nel sintetizzare le propalazioni di (omissis), ha sottolineato che, a dire della dichiarante, proprio nel periodo preso in considerazione dall’imputazione, le umiliazioni arrecate dal padre (tramite le offese e gi insulti che riguardavano la sua situazione fisica) si fecero ripetute e frequenti, a conferma di una modifica nei rapporti sostanziatasi proprio in quel determinato contesto temporale.

8.2.2. Il che, nella sua puntuale immediatezza, anche alla luce del complessivo quadro fattuale apprezzato in sentenza, neutralizza il portato dei rilievi difensivi rispetto al tema della abitualità vessatoria e della forza degli elementi probatori chiamati a sostenerla nel contesto temporale cristallizzato dall’imputazione.

Nel ricorso, infatti, si contestano il significante e il significato probatorio assegnato alle dichiarazioni della minore senza procedere, per un verso, ad un effettivo confronto critico con l’argomentare della sentenza impugnata speso nel ripercorrerne il narrato. Soprattutto, se ne lamenta una complessiva lettura travisata attraverso una tecnica espositiva non consentita, perché resa facendo leva su singole porzioni del dichiarato, indebitamente estrapolate dal più ampio contesto probatorio rassegnato dalla relativa acquisizione, in quanto tali non in grado dì mettere in crisi la diversa e più completa lettura privilegiata dalla Corte del merito.

Da qui la definitiva infondatezza del ricorso, cui segue anche la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196; che sia apposta, a cura della cancelleria, sull’originale del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati in sentenza.

Così è deciso, 26 giugno 2025.

Depositata in cancelleria il 15 settembre 2025.

Allegati

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