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Cassazione penale sez. VI, 15/04/2025, n. 14848

Massima

Ai fini dell’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall’art. 572 del codice penale, non è necessario che le condotte vessatorie siano connotate da violenza fisica o da specifici intenti di sopraffazione. È sufficiente, al contrario, la reiterazione di condotte consapevolmente offensive, anche di natura psicologica, purché siano sorrette da dolo generico e risultino tali da generare sofferenza nella vittima, creando un clima di abituale vessazione, specialmente quando tali offese siano in grado di incidere su relazioni familiari significative, come il rapporto padre-figlio.

Supporto alla lettura

Maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti in famiglia si colloca nella parte del codice penale dedicata ai delitti contro la famiglia e l’assistenza familiare, caratterizzati dal fatto che l’offesa deriva da membri dello stesso gruppo familiare al quale appartiene la vittima.
In realtà, limitare alla famiglia l’oggetto giuridico del reato ex articolo 572 del codice penale, sarebbe fuorviante.
In primo luogo perché, anche in base alla interpretazione letterale, il bene giuridico protetto è l’integrità psicofisica e morale della vittima.
In secondo luogo perché rispetto agli altri reati previsti nel titolo XI del codice penale, il soggetto passivo non è necessariamente un familiare dell’agente, ma chiunque abbia con lui una relazione qualificata (rapporto di convivenza, sottoposizione per ragioni di autorità, affidamento per ragioni di educazione, cura, istruzione, vigilanza, custodia, esercizio di una professione o arte).
Ne consegue che l’effettivo fondamento giuridico dell’art 572 c.p. deve essere rinvenuto nella stabilità del vincolo affettivo e/o umano tra l’agente e soggetti ritenuti “deboli” ed esposti a episodi di sopraffazione da parte del soggetto “forte”, anche in applicazione di quanto previsto dalla ratificata Convezione di Lanzarote del 2007.
Tra i vari interventi che hanno modificato l’art. 572 c.p. negli anni, si ricorda:

  • la legge n. 172 del 2012 con la quale il legislatore ha incluso i semplici conviventi nel novero delle vittime di maltrattamenti;
  • la legge 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) che ha inasprito il regime sanzionatorio, soprattutto per contrastare episodi di c.d. violenza domestica e che ha inserito l’ultimo comma dell’articolo 572 c.p. che prevede che il minore che assiste ai maltrattamenti familiari debba essere considerato persona offesa.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento in epigrafe indicato, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Roma in data 16 marzo 2022,

ha assolto l’imputata per insussistenza del fatto, in relazione all’imputazione per il reato di maltrattamenti ascrittole ai danni del proprio coniuge convivente (omissis), con l’aggravante di aver commesso il fatto in presenza del figlio minore di età.

Il Tribunale aveva condannato l’imputata alla pena di due anni e mesi sei di reclusione ravvisando nelle condotte ascrittele gli estremi per ritenere integrato il reato di maltrattamenti, in considerazione del clima di vessazioni creato attraverso frasi offensive pronunciate dall’imputata spesso al cospetto del figlio, sottoponendolo ad una convivenza intollerabile, sopportata solo per il timore di perdere l’affetto del proprio figlio.

All’affermazione di responsabilità erano seguite le statuizioni civili in favore della parte civile costituita.

La Corte di appello ha, invece, evidenziato che le ingiurie e le minacce non gravi non avrebbero avuto rilevanza penale perché sarebbe risultata carente il clima di vessazione su persona offesa vulnerabile, atteso che il chiaro disagio mentale da cui derivava l’atteggiamento della moglie avrebbe necessitato di supporto materiale e morale da parte del coniuge, presunto maltrattato.

2. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito sintetizzati.

2.1. Vizio della violazione di legge e della motivazione, in merito alla rilevanza ai sensi dell’art. 572 cod. pen. di condotte che sebbene prive di connotazione violenta ma in quanto umilianti e denigratorie non potevano ritenersi in alcun modo giustificate dal disagio mentale della moglie.

Deduce il vizio di motivazione perché la Corte territoriale ha ribaltato la pronuncia di condanna senza soddisfare il peculiare e rafforzato obbligo motivazionale preteso in questo caso dall’orientamento pacifico della Corte di cassazione, secondo cui il giudice dell’appello non può limitarsi ad una rilettura del materiale probatorio, fornendone una ricostruzione alternativa, ma deve spiegare le ragioni del diverso esito decisorio, non essendo sufficiente il richiamo operato nella sentenza impugnata ad una immediata evidenza della carenza dei presupposti del reato di maltrattamenti, che si risolve in un’apodittica affermazione.

3. A mezzo del proprio difensore di fiducia, ha proposto ricorso la parte civile costituita (omissis) deducendo tre motivi.

3.1. Con il primo motivo denuncia la violazione di legge processuale nella parte in cui la sentenza impugnata ha ravvisato la mancanza di corrispondenza tra la condanna emessa dal Tribunale e l’imputazione contestata.

Si rappresenta che le ingiurie e le minacce sono state poste a base della condanna per il reato di maltrattamenti in perfetta coerenza con la contestazione.

3.2. Con il secondo motivo denuncia vizio di motivazione in merito alla ingiustificata irrilevanza attribuita alle minacce ed alle ingiurie rispetto all’integrazione della fattispecie dei maltrattamenti in famiglia con argomenti che si pongono in netto contrasto con la giurisprudenza consolidata secondo cui non sono necessarie condotte di violenza fisica per integrare quel clima di vessazioni continue e di umiliazione in cui si realizza la fattispecie in esame per il contesto diseguale di coppia in cui si consuma la violenza anche solo psicologica, in grado di arrecare sofferenze alla persona offesa.

3.3. Con il terzo motivo deduce il vizio di motivazione perché la Corte territoriale ha ribaltato la pronuncia di condanna senza soddisfare il peculiare e rafforzato obbligo motivazionale preteso in questo caso dall’orientamento pacifico della Corte di cassazione, secondo cui il giudice dell’appello non può limitarsi ad una rilettura del materiale probatorio, fornendone una ricostruzione alternativa, ma deve spiegare la riforma della decisione dando conto di avere valutato e riesaminato il materiale probatorio vagliato dal primo giudice dando ragione delle difformi conclusioni raggiunte.

La Corte senza neppure menzionare le fonti di prova esaminate dal primo giudice (numerose testimonianze) ha enunciato in modo apodittico l’affermazione secondo cui le condotte dell’imputato non avrebbero creato un clima di abituale vessazione, senza perciò spiegare le ragioni della riforma della pronuncia di condanna.

1. I ricorsi sono fondati.

Motivi della decisione

Occorre premettere che nel caso di pronunce di merito contrastanti, il vaglio che deve compiere la Cassazione è limitato alla verifica se la sentenza impugnata abbia adeguatamente motivato le ragioni della difforme valutazione del compendio probatorio, dando conto degli errori in cui è incorso il giudice di primo grado con una esposizione che, oltre ad essere completa e circostanziata, appaia anche maggiormente persuasiva di quella posta a base della decisione riformata.

Inoltre, anche quando la riforma abbia riguardato una sentenza di condanna – come nella specie – pur non essendo necessaria la rinnovazione della istruttoria dibattimentale, richiesta soltanto nell’ipotesi opposta di ribaltamento di una sentenza di assoluzione in considerazione della prevalenza della regola di giudizio che privilegia l’assoluzione nei casi di dubbia ricostruzione dei fatti, tuttavia, è comunque richiesta una motivazione che dia conto in modo puntuale di avere operato una disamina accurata delle risultanze istruttorie oggetto della difforme valutazione (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430).

Come affermato nella succitata sentenza delle Sez. U, nel caso di riforma in senso assolutorio di una prima pronuncia di condanna il giudice d’appello può senz’altro limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo, sul rilievo che “l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l’assoluzione, possibile anche ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen.”.

Ma al tempo stesso, deve compensare l’assenza dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa, con l’obbligo di strutturare la motivazione della decisione assolutoria in modo rigoroso, confutando in modo specifico e completo le precedenti argomentazioni.

Più precisamente, è stato affermato che “il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l’integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte”.

2. Sulla scorta di detti criteri di valutazione che si condividono e che vanno in questa sede riaffermati, appaiono evidenti le carenze della motivazione della sentenza impugnata, che risulta mancante di una disamina accurata del materiale probatorio vagliato dal primo giudice.

In particolare, le argomentazioni della sentenza di appello risultano basate su affermazioni apodittiche perché non correlate ad una puntuale disamina delle prove dichiarative, diversamente dalla sentenza di primo grado, la cui motivazione appare sorretta da un vaglio accurato delle fonti di prova sia testimoniali che documentali.

Tale carenza di motivazione si coglie soprattutto con riguardo alla mancata puntuale disamina delle dichiarazioni rese dai testi che nel giudizio di primo grado sono state poste a fondamento della ritenuta abitualità delle condotte maltrattanti.

Appare, inoltre, errato anche il riferimento alla necessità che le condotte vessatorie siano connotate da violenza o da intenti di sopraffazione, essendo al contrario sufficiente anche la reiterazione di condotte consapevolmente offensive, sorrette da dolo generico, che risultino tali da generare sofferenza nella vittima, soprattutto quando tali offese siano in grado di incidere sul rapporto padre-figlio.

3. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma perché rivaluti i profili di responsabilità dell’imputata attraverso una verifica puntuale del materiale probatorio acquisito al processo, senza trascurare gli specifici punti sopra descritti, con un apparato logico che risulti coerente con una esauriente analisi di tutte le risultanze agli atti.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

Dispone, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che sia apposta, a cura della cancelleria, sull’originale del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati in sentenza.

Così deciso in Roma, l’11 marzo 2025.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2025.

Allegati

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