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Cassazione penale sez. VI, 12/09/2025, n. 30602

Massima

Il reato presupposto di truffa aggravata (ai sensi dell’art. 24 D.Lgs. n. 231 del 2001) commesso da dipendenti di una società appaltatrice a danno della committente, si configura attraverso la realizzazione di un inganno consistente nell’indicazione falsa – operata dal personale della società – all’interno dei libretti di misura e degli stati di avanzamento lavori (s.a.l.). Tale falsità consiste nell’attestare l’esecuzione di opere in misura superiore rispetto a quelle effettivamente realizzate, iscrivendo contabilizzazioni non veritiere perché maggiorate dei prezzi concernenti lavori non eseguiti, al fine di indurre la committente all’emissione di certificati di pagamento superiori a quelli spettanti.

Supporto alla lettura

TRUFFA

La truffa (art. 640 c.p.) è un delitto caratterizzato da un dolo generico. Rileva pertanto la volontà di spingere qualcuno in errore, mediante una condotta che tragga in inganno cagionando un danno patrimoniale e traendone un ingiusto profitto.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Cagliari ha confermato la sentenza con cui la società (omissis) Spa – sottoposta a procedura fallimentare – è stata dichiarata responsabile dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 24 d. Ivo. 8 giugno 2001, n. 231 in relazione alla truffa aggravata commessa da (omissis), (omissis) e (omissis), rispettivamente, direttore dei lavori della società (omissis) Spa, project manager -procuratore della società – e addetto tecnico della (omissis) Spa presso i cantieri della società, reato posto in essere in danno della società Infratel Spa

Il processo ha ad oggetto le dinamiche relative al contratto di appalto stipulato tra la (omissis) Italia Spa, società in house del Ministero dello sviluppo economico, e la (omissis) Spa

La truffa sarebbe stata realizzata dalla Imet Spa attraverso: a) la indicazione falsa – nei libretti di misura e negli stati di avanzamento lavori (s.a.l.) – della esecuzione di opere in misura superiore rispetto a quelle effettivamente realizzate; b) nell’iscrivere conseguentemente nei libretti di misura e nei s.a.l. contabilizzazioni non veritiere perché maggiorate dei prezzi concernenti lavori non eseguiti.

Sulla base di tali indicazioni false sarebbero stati emessi certificati di pagamento dalla Infratel Italia Spa superiori a quelli spettanti, quantomeno nella misura di 437.075,10 euro.

La Corte di appello con la sentenza impugnata ha inoltre:

-confermato la sentenza con cui è stato dichiarato non doversi procedere nei riguardi di (omissis), (omissis) e (omissis) per intervenuta prescrizione in ordine ai reati di cui ai capi A) (falso in atto pubblico, quanto alla falsa attestazione nei libretti e nei s.a.l. e alla conseguente emissione di falsi certificati di pagamento), B) (la truffa, di cui si è detto) e C) limitatamente alle condotte commesse in danno di (omissis) previa riqualificazione dell’originario fatto concussivo in induzione indebita a dare o promettere denaro o altra utilità.

In particolare, quanto al capo C), gli imputati, secondo l’imputazione originaria di concussione, avrebbero costretto (omissis), amministratore della impresa (omissis), intestata alla moglie, (omissis), a consegnare due assegni dell’importo complessivo di 7.000 Euro (fatti del 2 maggio 2008);

-ha assolto gli imputati per i reati di cui ai capi C), per le condotte diverse da quelle commesse in danno di (omissis), e D) (estorsione contestata solo a (omissis) che avrebbe costretto, con la minaccia di escluderlo dalla realizzazione dell’appalto, (omissis) a corrispondere denaro).

2. Hanno proposto ricorso per cassazione (omissis) e (omissis), costituite parti civili, articolando tre motivi.

2.1. Ricostruito il processo, con il primo motivo si deduce violazione di legge; la Corte di appello avrebbe erroneamente dichiarato inammissibile per mancanza di interesse l’appello proposto dalle parti civili, quanto ai reati di cui ai capi A) e B), perché estinti per prescrizione prima della sentenza di primo grado, e, quanto al capo C), sul presupposto che la parte civile non potesse proporre appello per sollecitare una diversa qualificazione giuridica del fatto, che, nella specie, come detto, era stato ricondotto dal Tribunale al reato di cui all’art. 319 quater cod. pen.; sotto altro profilo, si assume, la Corte avrebbe erroneamente ritenuto infondato l’appello quanto al capo D) (estorsione).

Sostengono, invece, i ricorrenti che, nella specie, l’interesse ad impugnare sarebbe sussistente, quanto al capo C), in ragione della diversa qualificazione giuridica del fatto compiuta dal Tribunale da cui è conseguita la declaratoria di prescrizione, e, quanto ai capi A-B) “in virtù del collegamento probatorio con quelli di cui ai capi C-D) commessi

La tesi è che la riqualificazione sarebbe errata perché conseguente non solo alla mancata valutazione dì una serie di elementi, rivelatori della coartazione delle parti civili, ma anche dalla erronea “determinazione del quantum economico connesso ai reati di cui ai capo A) e B) che, per effetto della minor percezione quantitativa, aveva impedito di valutare l’effettiva intensità del complesso disegno criminoso” (così il ricorso).

La Corte di appello, mutata la qualificazione dei fatti, avrebbe potuto procedere alla liquidazione “ora per allora”, dei danni civili.

2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla valutazione della dimensione economica dei reati sub A) (falsi) e B) (truffa) che avrebbe prodotto conseguenze anche ai fini della derubricazione del reato di cui al capo C) in quello di induzione indebita a dare o promettere denaro o altra utilità

Assumono i ricorrenti che:

– la Corte di appello non avrebbe considerato che il vantaggio economico per Imet Spa sarebbe consistito non nella somma di 437.000 euro indicata nella imputazione ma in quella maggiore di 3,5 milioni di euro, come emergerebbe dalla documentazione del Pubblico Ministero, della quale sarebbe stato omesso l’esame (anche in questo caso sono riportate intere pagine dell’appello richiamanti le risultanze istruttorie).

La corretta quantificazione della dimensione economica dei reati contestati ai capi A-B) avrebbe reso evidente l’erronea qualificazione dell’atteggiamento psicologico del (omissis) che avrebbe pagato in realtà perché costretto e non, come in vece ritenuto dal Tribunale, in modo volontario per ricavare vantaggi illeciti;

-la Corte, inoltre, non avrebbe adeguatamente valutato le dichiarazioni rese da (omissis) e (omissis), incompatibili con la tesi della volontarietà delle dazioni da parte del (omissis) (anche in questo caso si riproducono pagine dell’atto di appello a loro volta richiamanti le risultanze probatorie).

2.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla condotta descritta al capo D) per il quale la Corte, come detto, ha dichiarato l’appello ammissibile ma infondato.

L’assoluzione degli imputati dal reato in questione sarebbe stata pronunciata in quanto l’unica prova a carico sarebbe stata costituita dalle dichiarazioni di (omissis) “soggetto non del tutto disinteressato” (così il ricorso che richiama una parte della motivazione della sentenza impugnata).

Sostengono i ricorrenti che la Corte avrebbe dovuto valutare le dichiarazioni di (omissis) alla luce delle prove – quelle di cui si è detto- il cui esame sarebbe stato omesso.

3. Ha proposto ricorso per cassazione il “fallimento (omissis) Spa”.

Anche in questo caso, si ricostruisce il processo e si evidenzia in punto di fatto come sarebbe provato che:

– (omissis) Spa avesse eseguito i lavori a regola d’arte senza che nessuna contestazione fosse mai stata mossa soprattutto da (omissis);

– (omissis) Spa avesse regolarmente pagato i suoi sub appaltatori e incassato meno di quanto pattuito;

– i dipendenti di (omissis) Spa, (omissis) e (omissis), non rivestissero funzioni direttive, con tutte le conseguenze in tema di onere probatorio in tema di illecito dell’ente.

3.1. In tale contesto, con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità dell’ente, fatto derivare dalla violazione da parte della Corte delle regole di ripartizione probatoria fissate dal D.Lgs. n. 231 del 2001 e, in particolare, di quelle previste dagli artt. 6- 7.

La Corte avrebbe affermato la responsabilità dell’ente, da una parte, ritenendo dimostrata l’imputazione oggettiva dell’illecito dell’ente ma senza approfondire il profilo della colpevolezza in relazione alla violazione dell’obbligo di direzione e vigilanza (così il ricorso) e, dall’altra, applicando il modello di imputazione soggettiva della responsabilità previsto dall’art. 6 per i soggetti apicali – e, quindi, facendo riferimento all’inversione probatoria ivi prevista – laddove, invece, la contestazione farebbe riferimento all’art. 5 lett. b) d. Igs n. 231 del 2001: (omissis) e (omissis) non avrebbero mai esercitato funzioni direttive, con conseguente necessità di accertamento in concreto della c.d. colpa di organizzazione.

La società aveva provato come all’epoca avesse un organigramma di controllo che vigilava sulla esecuzione dei contratti di appalto e sub appalto e sull’operato dei propri dipendenti, apicali o sottoposti.

In tal senso vengono richiamate le dichiarazioni dell’amministratore delegato (omissis), quelle del responsabile d’area ing. (omissis), e quelle della teste (omissis) che avrebbero illustrato la struttura, l’organizzazione e il sistema di controllo della società poi confluito nel modello organizzativo adottato nel 2011.

La tesi è che “l’organigramma e i mansionati” adottati al momento della commissione dei fatti dovevano considerarsi “un meccanismo di vigilanza e prevenzione di illeciti penali” idoneo a “far decadere la responsabilità dell’ente”

Non sarebbe dunque chiaro sulla base di quali elementi la Corte abbia potuto affermare che il sistema Imet non prevedesse in modo chiaro e preciso i compiti e le responsabilità e gli strumenti in concreto volti a prevenire la commissione della truffa.

3.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla prova del reato presupposto ritenuto esistente in base all’assunto secondo cui:

– la (omissis) avrebbe pagato alla (omissis) Spa fatture aventi ad oggetto opere non eseguite, quali quelle relative al rispristino dell’asfalto su strade “che asfaltate non erano”;

– il maggior compenso percepito da Imet Spa non sarebbe stato giustificabile con l’avvenuta esecuzione di opere collaterali o accessorie perché dette opere non sarebbero state tali da giustificare la revisione dei prezzi;

– sarebbe inverosimile che i pubblici ufficiali della Infratel si fossero determinati a pagare con la consapevolezza della non debenza di detti pagamenti.

Dette affermazioni sarebbero fondate sulle dichiarazioni di (omissis) – che, tuttavia, se rapportate con le altre acquisizioni probatorie, – si sarebbero rivelate incoerenti e contraddittorie – nonché sugli esiti della consulenza del Pubblico Ministero inficiata dalla erronea equiparazione tra il progetto esecutivo e il modello “As Built” (cioè i disegni di come in concreto i lavori fossero stati eseguiti a seguito di modifiche in corso d’opera).

Detti profili sarebbero state oggetto di motivi di appello e la Corte su detti punti sarebbe silente.

Sotto altro profilo si deduce il vizio di omessa motivazione quanto alla quantificazione della sanzione, profilo, questo, che pure era stato oggetto di censura con l’appello.

3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge quanto alla sussistenza del reato presupposto.

3.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 5 del d. Igs n. 231 del 2001, attesa la insussistenza dei vantaggi conseguiti da (omissis) Spa

4. Sono pervenute memorie nell’interesse delle parti ricorrenti con cui si riprendono e si sviluppano ulteriormente i motivi posti a fondamento dei rispettivi ricorsi.

5. È pervenuta anche una memoria da parte del difensore dell’imputato (omissis), con cui si evidenzia come i ricorsi delle costituite parti civili siano inammissibili per genericità non essendosi i ricorrenti confrontati con la sentenza impugnata.

Motivi della decisione

1. I ricorsi proposti dalle parti civili (omissis) e (omissis) sono fondati limitatamente al capo C).

2. Quanto alla affermata inammissibilità dichiarata dalla Corte di appello, il tema attiene alla legittimazione della parte civile ad impugnare le sentenze di proscioglimento e all’interesse ad impugnare.

Quanto al profilo della legittimazione, è utile evidenziare in via preliminare che, diversamente dagli assunti degli imputati, le parti civili avevano devoluto con l’atto di appello lo specifico tema della riqualificazione del fatto concussivo in quello di induzione indebita a dare o promettere denaro o altra utilità e della inammissibilità riferita anche ai capi A e B) e, rispetto alla obiettivamente stringata motivazione della Corte di appello, con il ricorso per cassazione il tema è stato riproposto, essendo stato peraltro sottolineato come, secondo una data impostazione, la parte civile possa proporre ricorso per cassazione ai fini civili avverso la sentenza dichiarativa della prescrizione del reato.

Proprio sulla base di tale presupposto, le parti ricorrenti hanno, da una parte, devoluto nuovamente il tema della corretta qualificazione giuridica dei fatti di cui al capo C), atteso il riverbero di essa sulla loro pretesa risarcitoria, e, dall’altra, evidenziato come proprio la non corretta valutazione dei fatti di cui ai capi A) e B) avrebbe prodotto una erronea valutazione anche in ordine alla qualificazione di quelli di cui al capo C) (cfr. pagg. 36 e ss.).

La Corte di appello ha ritenuto inammissibile l’appello richiamando un indirizzo giurisprudenziale secondo cui sarebbe inammissibile l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso una sentenza di proscioglimento al fine di sindacare la qualificazione giuridica conferita al fatto, anche quando da detta qualificazione derivi una pronuncia dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione, atteso che detta impugnazione riguarderebbe esclusivamente i profili penali e, quindi, non sarebbe consentita in ragione dell’ 576 cod. proc. pen., considerato, peraltro, che la sentenza dichiarativa della prescrizione non pregiudicherebbe gli interessi concernenti l’obbligazione risarcitoria. (Sez. 1, n. 2874 del 10/07/2018, Blanda, Rv. 274800; nello stesso senso, Sez. 6, n. 37034 del 2003, Cannone, Rv. 228407).

L’assunto è che la parte civile è legittimata, a norma dell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili e, dunque, la sua richiesta deve avere riguardo specifico e diretto, a pena d’inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che s’intendono conseguire.

Ne deriva che una richiesta della parte civile impugnante, riguardante esclusivamente la qualificazione giuridica del fatto e, quindi, l’aspetto penale della vicenda e la connessa responsabilità penale dell’imputato renderebbe inammissibile l’impugnazione perché questa si limiterebbe sostanzialmente a sollecitare una delibazione su aspetti squisitamente penali, che esulano dai limiti delle facoltà riconosciute dalla legge alla stesa parte civile, i cui diritti, peraltro, non sarebbero pregiudicati dalla sentenza di non doversi procedere nei confronti dell’imputato, per prescrizione del reato.

3. Si tratta di un indirizzo che non può essere condiviso.

In senso non propriamente simmetrico, sembrano innanzitutto porsi alcune sentenze su un tema diverso ma non distante da quello in esame.

Si è affermato, infatti, che sussiste l’interesse della parte civile ad impugnare ai fini civili la sentenza di proscioglimento per difetto di querela a seguito della riqualificazione giuridica del fatto, allorché dalla diversa ed originaria contestazione, relativa ad un reato procedibile d’ufficio, derivi per la parte civile la possibilità di ottenere sia l’accertamento nel giudizio penale, con efficacia di giudicato, della responsabilità per fatto illecito dell’imputato, sia una differente quantificazione del danno da risarcire, tenuto conto della diversa gravità del reato e dell’entità del pregiudizio sofferto dalla vittima (Sez. 2, n. 29323 del 2019 Rv. 276780 in fattispecie in tema di estorsione, riqualificata dal giudice di primo grado come esercizio arbitrario delle proprie ragioni).

Nella occasione, la Corte ha spiegato come il giudizio sulla legittimazione e sull’interesse della parte civile all’impugnazione della sentenza di proscioglimento sia stato storicamente correlato alla verifica del pregiudizio che possa derivare dal passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti dell’imputato; si è affermato, in più occasioni, il principio per cui, quando la sentenza pronunciata non rientri nelle tipologie considerate dall’art. 652 cod. proc. pen. la parte civile, non potendosi veder opposto in sede civile il contenuto della cosa giudicata conseguente al giudizio penale, non subisce alcun pregiudizio che legittimi l’impugnazione penale della sentenza di proscioglimento (Sez. 3, n. 537 del 30/11/2001, dep. 2002, Bovicelli, Rv. 220669; Sez. 1, n. 4482 del 07/04/1997, Giampaolo, Rv. 207589; Sez. 4, n. 4950 del 31/01/1996, Mazza, Rv 205222; Sez. 3, n. 10792 del 08/06/1994, Armellini, Rv. 200381).

Si è tuttavia correttamente affermato sul tema come detta correlazione tra interesse ad impugnare e sentenza di assoluzione non esaurisca l’ambito delle ipotesi in cui sussiste la legittimazione della parte civile ad impugnare una sentenza di proscioglimento, anche quando questa non sia riconducibile a quelle di cui all’art. 652 cod. proc. pen.

La legittimazione e l’interesse della parte civile a conseguire, attraverso l’impugnazione della sentenza di proscioglimento ma non assolutoria, una pronuncia che contenga la condanna dell’imputato alle restituzioni ed al risarcimento dei danni è stato affermato da plurime decisioni della Corte (cfr., Sez.’4, n. 13326 del 23/01/2003, Grecuccio, Rv. 226430; Sez. 7, n. 4216 del 15/01/2002, Sconcerti, Rv. 222052; Sez. 5, n. 12359 del 06/02/2001, Maggio, Rv. 218905; Sez. 4, n. 10451 del 29/10/1997, Marcelli, Rv. 209673; Sez. 5, n. 10990 del 31/10/1996, Piccioni, Rv. 207064).

È l’interesse al riconoscimento del proprio diritto al risarcimento di danno, si è sostenuto, che riempie di contenuto l’impugnazione quando questa risulti “preordinata a chiedere l’affermazione di responsabilità dell’imputato, quale presupposto della condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, con la conseguenza che detta richiesta non può condurre ad una modifica della decisione penale, sulla quale si è formato il giudicato, in mancanza dell’impugnazione del pubblico ministero, ma all’affermazione della responsabilità dell’imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno. Da ciò deriva che l’interesse della parte civile al gravame non è commisurato… alla preclusività della formula di proscioglimento, con la conseguenza che essa può proporre impugnazione, senza incorrere in censure di carenza di interesse, anche contro la sentenza di proscioglimento adottata con formula non preclusiva dell’esercizio della azione risarcitoria in sede civile” (in questi termini nella motivazione, Sez. U, n. 6509 del 20/12/2012, dep. 2013, Colucci, Rv. 254130).

In questa prospettiva, si è altresì spiegato, la legittimazione e l’interesse della parte civile al riconoscimento della responsabilità dell’imputato per il fatto di reato originariamente contestato mira a non disperdere le prove raccolte nel giudizio penale e ad evitare un’attività di istruzione probatoria in sede civile che, pur potendosi giovare delle prove assunte nel processo penale, deve sottostare alla valutazione del giudice civile in termini di libero apprezzamento di quelle prove e impone all’evidenza una ripetizione di attività istruttorie che nuocciono alla speditezza del processo e confliggono con il principio di economia processuale.

4. Una conferma della impostazione in esame, e, dunque, della sussistenza della legittimazione della parte civile all’impugnazione di sentenze di proscioglimento, che pure non possiedono efficacia preclusiva rispetto all’instaurazione del giudizio risarcitorio in sede civile, può farsi derivare anche dalle decisioni che hanno riconosciuto l’interesse processuale della parte civile ad impugnare la decisione con cui l’imputato sia stato prosciolto con la formula perché il fatto non costituisce reato, “in quanto colui che intraprende il giudizio civile dopo avere ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte si giova di tale risultato” (Sez. 5, n. 15245 del 23/02/2005, Nalesso, Rv. 232157; nello stesso senso v. anche Sez. 3, n. 6581 del 15/04/1999, Lamanuzzi, Rv. 213840).

Il principio è stato ribadito da Sez. 6, n. 36526 del 28/10/2020, Pilato, Rv. 280182, che ha evidenziato come “le limitazioni all’efficacia del giudicato, previste dall’art. 6’52 cod. proc. pen., non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile nel processo penale dall’art. 576 cod. proc. pen.”, considerato il vantaggio della parte civile che può giovarsi dell’accertamento ottenuto in sede penale, quanto al riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte, senza dover dare inizio integralmente ad un nuovo giudizio sul punto in sede civile (nello stesso senso, tra le altre, Sez. 4, n. 10455 del 14/01/2025, Potenza, Rv. 287226 ; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519).

5. In tale contesto si colloca Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Massaria, Rv. 275953 che ha ritenuto ammissibile l’impugnazione della parte civile contro la sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, ove con la stessa si contesti l’erroneità di detta dichiarazione.

È utile riportare il contenuto della motivazione della sentenza.

Le Sezioni unite hanno innanzitutto spiegato che l’analisi della questione non può che muovere dal dato oggettivo rappresentato dalla previsione di cui all’art. 576 cod. proc. pen., dedicata alla “impugnazione della parte civile e del querelante”, che, al comma 1, stabilisce che “la parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”.

Una scelta, quella compiuta dal legislatore, di ampliare il novero delle sentenze impugnabili, includendovi, oltre a quelle di condanna, anche quelle di “proscioglimento” sia pure sempre nell’ambito di una pretesa volta unicamente alla rivisitazione dei soli effetti civili, per lo stretto collegamento con la limitata legittimazione della parte privata discendente dai confini tracciati anzitutto dall’art. 74 cod. proc. pen.

L’art. 576 cod. proc. pen., hanno chiarito le Sezioni Unite, non limita il novero e la tipologia delle sentenze “di proscioglimento” menzionate, la cui nozione deve essere ricavata dall’ambito della sezione I, dedicata appunto alla “sentenza di proscioglimento”, del capo II (Decisione) del titolo III (Sentenza) del libro VII (Dibattimento) del codice di rito.

Dal presupposto testuale indicato le Sezioni unite “Massaria” hanno, da una parte, evidenziato come nella nozione di sentenza di “proscioglimento” non possano non rientrare anche le sentenze di estinzione del reato per prescrizione, e, dall’altra, come detta affermazione fosse stata in passato già resa dalle stesse Sezioni Unite (v. Sez. U., n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815).

Del resto, la formula “sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”, è riferibile sia alle sentenze di non doversi procedere sia alle sentenze di assoluzione, ed è unicamente intesa ad escludere le sentenze di non luogo a procedere pronunciate nell’udienza preliminare.

Ne deriva, dunque, che, se la parte civile può impugnare le sentenze di proscioglimento e se nella sentenza di proscioglimento rientra anche la “dichiarazione di estinzione del reato” di cui all’art. 531 cod. proc. pen., ricompreso infatti nella suddetta sezione I, la facoltà di impugnazione della parte civile non può non ricomprendere anche la sentenza di non doversi procedere per estinzione dovuta a qualsivoglia tra le cause previste dal codice penale e, tra esse, dunque, anche quella della prescrizione del reato ex art. 157 cod. pen.

Hanno ancora osservato le Sezioni unite che, proprio in ragione del fatto che il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno solo quando pronuncia sentenza di condanna, deve ritenersi che la parte civile sia legittimata a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento o di assoluzione pronunziata nel giudizio.

Tale conclusione, si è chiarito, deriverebbe anche dal ragionamento sotteso alla decisione delle Sezioni U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918, che si è occupata del rapporto tra gli artt. 576 e 578 cit. : in questa pronuncia, hanno evidenziato le Sezioni unite “Massaria”, si è affermato che “mentre il vigente codice di rito esclude che possa essere rivisto l’accertamento penale in mancanza di una impugnazione da parte del p.m., lo stesso codice sottolinea all’art. 576… come, per effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, al fine di valutare la sussistenza di una responsabilità per illecito e così ottenere una diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per i suoi interessi civili”.

Secondo le Sezioni unite, dunque, la normativa processuale penale vigente ha scelto l’autonomia dei giudizi sui due profili di responsabilità, civile e penale, nel senso che l’impugnazione proposta ai soli effetti civili non può incidere sulla decisione del giudice del grado precedente in merito alla responsabilità penale del reo, ma il giudice penale dell’impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile necessariamente dipendente da un accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità dell’autore dell’illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell’imputazione, ritenendolo ascrivibile al soggetto prosciolto”; si è aggiunto che ” il giudice dell’impugnazione, adito ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare. Se si convince che tale giudice ha sbagliato nell’assolvere l’imputato ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all’art. 622 cod. proc.

pen.) condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, in quanto l’accertamento incidentale equivale virtualmente – oggi per allora – alla condanna di cui all’art. 538, comma 1, cod. proc. pen., che non venne pronunziata per errore”.

Quanto all’affermata mancanza di effetto pregiudizievole derivante dal giudicato di prescrizione in capo alla parte civile, in quanto libera di azionare la propria pretesa in un giudizio civile nel quale la sentenza di proscioglimento per prescrizione non avrebbe alcuna efficacia, le Sezioni unite hanno fatto rilevare come osti a un tale ragionamento la considerazione che, se lo stesso sistema ha riconosciuto al danneggiato la possibilità di azionare la propria pretesa di carattere civilistico percorrendo, oltre alla via del giudizio civile, anche quella del giudizio penale mediante la costituzione in esso di parte civile, una interpretazione volta a ritenere insussistente la legittimazione e l’interesse alla impugnazione nel processo penale dalla parte civile solo perché sarebbe pur sempre possibile la residua azione civile si tradurrebbe nella sostanziale vanificazione dello stesso congegno normativo e nella indebita “amputazione” di una facoltà riconosciuta dallo stesso legislatore.

Del resto, il fatto che, secondo talune affermazioni, l’interesse del ricorrente possa essere ravvisato “anche” quando tenda ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli o ad assicurarsi effetti penali più favorevoli che l’ordinamento faccia dipendere dalla pronuncia domandata (Sez. 6, n. 35989 del 01/07/2015, Vittorini, Rv. 265604), non significa, per converso, che la possibilità, per la parte civile, di assicurarsi quegli stessi vantaggi al di fuori del processo penale possa annullare l’interesse ad ottenerli, ancor prima e in modo processualmente più rapido e conveniente, innanzitutto in sede penale.

Dunque, sussiste la legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di proscioglimento dichiarativa della prescrizione.

6. Accanto alla legittimazione ad impugnare deve sussistere, sulla base di una evidente ragione di economia processuale, quale ulteriore condizione di ammissibilità (v. Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, Marinaj, Rv. 251694), anche l’interesse a proporre l’impugnazione; si tratta di due profili che devono essere tra loro distinti, non potendo, in particolare, il secondo essere assorbito nel primo, in ragione delle previsioni dei commi 3 e 4 dell’art. 568 cod. proc. pen. ove, rispettivamente, da un lato, si afferma che “il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce” e, dall’altro, si afferma che “per proporre impugnazione è necessario avervi interesse”.

Sul tema è tradizionale l’affermazione per cui l’interesse ad impugnare deve essere “concreto”, oltre che attuale.

In tal senso si pone già Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv. 202269, ove si è espresso che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non può essere assoluta e indiscriminata, ma “subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso” sino all’attualità.

La legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione al solo fine di assicurare la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole.

La concretezza dell’interesse non può dunque che essere parametrata dal raffronto tra quanto statuito dalla sentenza impugnata e quanto, con l’impugnazione svolta, si vorrebbe invece ottenere: in tal senso già il solo fatto che, nella specie in esame, si assuma l’erroneità della affermazione di intervenuta prescrizione per effetto della diversa qualificazione giuridica del fatto, rende l’impugnazione ammissibile indipendentemente dalla fondatezza o meno di tale pretesa.

Ne deriva l’erroneità di un’impostazione che, invece, pervenga ad individuare la sussistenza o meno dell’interesse all’impugnazione a seconda della fondatezza o meno della censura svolta, dovendo essere ribadito quanto già affermato in ordine al fatto che la valutazione dell’ interesse ad impugnare, allorché il gravame sia in concreto idoneo a determinare per il ricorrente, con l’eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più vantaggiosa di quella realizzata dal provvedimento impugnato, va operata con riferimento alla prospettazione contenuta nel ricorso e non alla effettiva fondatezza della pretesa del ricorrente (v., con riferimento, specificamente, alla impugnazione volta ad ottenere la riqualificazione giuridica del fatto, Sez. 3, n. 38544 del 27/05/2015, Serafino, Rv. 264634).

La concretezza dell’interesse della parte civile ad impugnare la pronuncia di proscioglimento “va, naturalmente, verificata tenendo conto degli specifici effetti favorevoli che, nella concreta vicenda, la parte civile si ripromette di ottenere dall’impugnazione e valutando se il suo accoglimento davvero le arrecherebbe una situazione di vantaggio o le eliminerebbe una situazione pregiudizievole” (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, cit.).

7. In tale articolato quadro di riferimento, il motivo di ricorso delle parti civili rivela la sua inammissibilità per difetto di interesse quanto ai capi A) (reati di falso) e B) (truffa).

Si tratta di fatti che non coinvolgono direttamente (omissis) e (omissis) e rispetto ai quali, dalla stessa prospettazione dei ricorrenti, si evince come l’interesse a impugnare sia volto a conseguire solo un indiretto vantaggio, non primario, non attuale e concreto.

L’impugnazione è infatti finalizzata a far emergere il collegamento probatorio tra i fatti oggetto dei capi in esame e quello, secondo la originaria impostazione accusatoria, di concussione di cui capo C), commesso in danno delle parti civili ricorrenti e, quindi,

a dimostrare solo un presupposto argomentativo strumentale rispetto alla ritenuta erronea riqualificazione del fatto concussivo (cfr., in particolare, atto di appello).

Un interesse mediato, prospettico, che rende inammissibile il motivo di ricorso per cassazione e che rendeva, così come correttamente rilevato dalla Corte di’ appello, inammissibile anche il motivo di appello.

8. A diverse conclusioni deve invece giungersi quanto al capo C), avente ad oggetto originariamente un fatto concussivo poi riqualificato in induzione indebita a dare promettere denaro o altra utilità.

Nel caso di specie, non solo, come detto, vi è legittimazione a impugnare ma vi è anche interesse concreto ed attuale.

Dal raffronto tra la statuizione della sentenza di primo grado, che aveva riqualificato il fatto nel senso indicato, e quanto si vorrebbe ottenere con la proposta impugnazione, emerge chiaro l’interesse almeno per un duplice ordine di ragioni.

La prima è che se il fatto fosse nuovamente ricondotto al delitto di concussione, il reato non sarebbe prescritto e dunque la pretesa risarcitoria sarebbe ancora attuabile nel processo penale, con i tempi di questo e sulla base delle prove assunte, senza dover nuovamente azionare la pretesa in un nuovo processo in sede civile.

La seconda ragione è che la riqualificazione compiuta incide, nel caso di specie, direttamente sulla stessa esistenza e sulla struttura del diritto al risarcimento.

9. Nel reato di concussione, come è noto, il soggetto concusso è la vittima del reato, è il soggetto leso dalla condotta costrittiva del pubblico agente; il concusso assume la veste di testimone nel processo ed è legittimato a costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento del danno subito.

È noto come con la legge 6 novembre 2012, n. 190 il legislatore abbia deciso di rompere la rigida alternativa tra corruzione e concussione, scomponendo la concussione in due diverse disposizioni: l’art. 317 cod. pen. e l’art. 319-quater cod. pen.; suddivisione che ha dato luogo a due autonome figure di reato.

La tecnica legislativa adottata è consistita, da una parte, nella riformulazione dell’art. 317 cod. pen., al cui interno è rimasta la sola sottofattispecie della costrizione, dall’altra parte, nell’introduzione di una nuova disposizione, l’art. 319-quater cod. pen. in cui è stata collocata l’ipotesi previgente di concussione per induzione.

In quest’ultima fattispecie è stata altresì inserita la punibilità del soggetto indotto, trasformando così la sottofattispecie – almeno questa sembrerebbe l’interpretazione prevalente- da monosoggettiva a plurisoggettiva necessaria.

Trattandosi quindi, come si ritiene, di un “trasloco” dall’art. 317 cod. pen. all’art. 319-quater cod. pen., nella fattispecie di induzione indebita è rimasto il contrassegno

originario del modello della concussione, ossia il requisito dell’abuso di qualità o dei poteri da parte dell’agente pubblico”.

In questo contesto si collocano le Sezioni unite “Maldera”, chiamate a risolvere un contrasto giurisprudenziale che aveva assunto dirimente rilievo, e cioè quale fosse “a seguito della legge 6 novembre 2012, n. 190, la linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 cod. pen.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319-quater cod. pen. di nuova introduzione) soprattutto con riferimento al rapporto tra la condotta di costrizione e quella di induzione e alle connesse problematiche di successione di leggi penali nel tempo” (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013 dep. 2014, Maldera).

Le Sezioni unite della Corte nell’occasione affermarono che:

– sussiste continuità normativa fra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 cod. pen. ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater cod. pen., introdotto dalla I. n. 190 del 2012, considerato che la pur prevista punibilità, in quest’ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell’abuso induttivo, fermo restando, per i fatti pregressi, l’applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma;

– la condotta di “costrizione” ex art. 317 “evoca una condotta di violenza e di minaccia…. La minaccia, quindi, quale modalità dell’abuso costrittivo di cui all’art. 317 cod. pen., presuppone sempre un autore e una vittima, il che spiega il ruolo di vittima che assume il concusso”;

– il delitto di induzione indebita ex art. 319- quater sarebbe invece connotato, negativamente, dall’assenza di violenza-minaccia (da cui invece consegue nella concussione il successivo danno ingiusto per il privato) da parte dell’intraneus e, in positivo, dalla esistenza di un vantaggio indebito in capo all’ extraneus: l’abuso non costringe ma convince.

Secondo le Sezioni unite, in particolare, l’induzione indebita è un reato plurisoggettivo proprio o normativamente plurisoggettivo.

Il legislatore, dunque, eliminando la concussione per induzione non l’ha semplicemente “spostata” nella nuova fattispecie di “induzione indebita a dare o promettere utilità” (art. 319-quater c.p.), e neppure ha “reintrodotto” una duplice figura come era nel codice Zanardelli agli artt. 169 e 170, dove il privato restava persona offesa dell’induzione.

La nuova fattispecie, in realtà, è incentrata sul ruolo di correo del soggetto indotto che non è un concusso e neppure un corruttore, ma, come si è lucidamente fatto notare in dottrina, un correo-indotto.

L’indotto, si è fatto notare, è “un po’ di meno” del corruttore, perché è punito meno di questi ed è meno riprovevole il suo comportamento perché indotto da una condotta “abusiva” inducente del pubblico agente, ma, nondimeno, secondo l’opinione largamente maggioritaria, è un correo e non una vittima.

La ragion d’essere dell’autonomia di questa fattispecie, rispetto alla vecchia concussione per induzione, risiede cioè nella punibilità del correo-indotto.

Non è utile in questa sede riflettere se, davvero, per i fatti precedenti alla entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, non vi siano sottoclassi che, con riguardo alla condotta dell’indotto, non siano più punibili né ai sensi dell’art. 319 – quater, per essere l’indotto non un correo, e neppure ex art. 317 cod. pen., versandosi in presenza di ipotesi di induzione e non di costrizione.

E tuttavia, è indubbio, come notato in dottrina, che dal 2012 si è cambiato il significato della condotta della vittima e, in qualche modo, si è inciso sul significato e sulla tipicità della stessa condotta del pubblico agente che induce: anche questo, infatti, non commette più la medesima precedente condotta perché, in realtà, è “in combutta” con l’indotto.

10. Ne consegue che, nella specie, per effetto della riqualificazione giuridica del fatto da concussivo a quello di cui all’art. 319- quater cod. pen., sì è inciso sulla stessa esistenza del diritto al risarcimento dei ricorrenti, che da vittima sono stati considerati correi del diverso reato.

Una riqualificazione che incide sulla struttura del reato, sulla tipicità della condotta, e sulla esistenza del diritto al risarcimento del danno.

Esiste dunque l’interesse a ricorrere delle parti civili perché l’utilità prospettata con l’impugnazione che si intende perseguire è concreta non solo in relazione alla circostanza, come detto, che se il fatto fosse nuovamente ricondotto al reato di concussione, il reato non sarebbe prescritto e, quindi, si potrebbe addivenire ad una sentenza di condanna, ma, soprattutto, anche in relazione alla stessa esistenza e alla struttura del diritto al risarcimento.

Chi concorre nel reato non ha diritto al risarcimento dei danni dal reato che ha contribuito a commettere; chi è vittima del reato è invece titolare di detto diritto.

Dunque, quanto al capo C), la sentenza deve essere annullata; la Corte di appello, in ragione della ammissibilità della impugnazione, procederà a verificarne la fondatezza.

11. È inammissibile il ricorso quanto al capo D)- estorsione – per il quale l’appello è stato ritenuto infondato essendosi i ricorrenti limitati, peraltro in modo generico, a sollecitare una diversa e non consentita valutazione della prova.

12. È fondato, quanto al capo E), anche il ricorso proposto dalla società (omissis) Spa, in persona dei curatori fallimentari.

Si è già detto di come la Corte di appello abbia riconosciuto la responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo previsto dall’art. 24 del D.Lgs. n. 231 del 2001, ritenendo provato il reato presupposto di truffa e imputando l’illecito ai sensi dell’art. 5 comma 1, lett. a) del decreto in questione sulla base del presupposto che (omissis) e (omissis) rivestissero funzioni direttive, in quanto, rispettivamente, “project manager e addetto tecnico ai cantieri, erano pertanto coloro che potevano falsificare i libretti delle misure e la contabilità del cantiere, al fine di far apparire come eseguite quelle opera mai poste in essere, di cui la Imet avrebbe chiesto alla (omissis) il pagamento” (così testualmente la corte a pag. 16 della sentenza).

Si tratta di un ragionamento che non può essere condiviso per più ragioni.

L’illecito per cui si procede è stato contestato facendo formalmente riferimento all’art. 5, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 231 del 2001 e, dunque, a soggetti che non assumono ruoli apicali ma sono invece sottoposti alla direzione o vigilanza di chi dette funzioni invece esercita.

Dunque, un modello imputativo della responsabilità diverso da quello recepito dalla legge e che trova il suo riferimento non nell’art. 6 ma nell’art. 7 del D.Lgs. n. 231 del 2001 e, in particolare, nella necessità di provare che il reato sia stato reso possibile dalla inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.

Un mutamento della contestazione e del criterio soggettivo di imputazione dell’illecito, tenuto conto che il Tribunale, invece, aveva avuto riguardo all’art. 7 del D.Lgs. in esame e, quindi, aveva considerato (omissis) e (omissis) come soggetti non apicali ma sottoposti all’altrui potere di direzione (cfr. pag. 45 e ss. sentenza di primo grado).

Né è obiettivamente chiaro sulla base di quali elementi concreti la Corte abbia ritenuto che (omissis) e (omissis) rivestissero funzioni direttive.

Sul punto la sentenza è del tutto silente.

Ne consegue che anche sul capo in esame la sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con riferimento ai capi C) ed E) e rinvia per nuovo giudizio su tali capi ad altra Sezione della Corte di appello di Cagliari; dichiara nel resto inammissibili i ricorsi delle pari civili.

Così deciso in Roma il 15 aprile 2025

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2025

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