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Cassazione penale sez. VI, 11/07/2024, n.33016

Massima

Per la configurabilità del reato di peculato, è sufficiente che il possesso o la disponibilità del denaro o del bene mobile siano avvenuti per ragioni legate all’ufficio o al servizio svolto, senza che sia rilevante, ai sensi dell’art. 360 c.p., il momento in cui si è verificata l’appropriazione, anche se questa avviene dopo la cessazione della qualifica di pubblico agente, a condizione che l’atto di appropriazione sia funzionalmente collegato all’ufficio o al servizio precedentemente esercitato. Lo scopo dell’art. 360 c.p. penale è quello di estendere gli effetti della qualifica pubblicistica anche a un periodo successivo alla sua fine, a condizione che esista un legame di strumentalità tra la qualifica precedentemente detenuta e il reato commesso, il quale solo può essere stato realizzato sfruttando la posizione occupata in precedenza.

Supporto alla lettura

PECULATO

Si tratta di un reato proprio, potendo essere commesso da un soggetto che riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Presupposto del reato è il possesso o la disponibilità di beni mobili altrui per ragione del proprio ufficio o servizio:

  • possesso: la dottrina è concorde nel ritenerlo quale potere di fatto sul bene, direttamente collegato ai poteri e ai doveri funzionali dell’incarico ricoperto;
  • disponibilità del bene: rinvia alla possibilità di disporre della cosa a prescindere dalla materiale detenzione della stessa. Anche la mera disponibilità giuridica è idonea ad integrare, sussistenti gli altri elementi, il reato in esame.

 

Sia il possesso che la detenzione devono trovare la loro ragione nell’ufficio o nel servizio svolto dal soggetto pubblico. Si postula, dunque, che l’agente pubblico, in relazione al bene, sia titolare di poteri e doveri nel momento in cui realizza la condotta tipica.

Il peculato è reato plurioffensivo, nel senso che ad essere lesi dalla condotta sono sia il regolare e buon andamento della P.A. che gli interessi patrimoniali di quest’ultima e dei privati, pur incentrandosi il disvalore essenziale della condotta nell’abuso delle facoltà connesse alla qualifica pubblica rivestita in ordine alla destinazione di risorse di cui si dispone per ragione del proprio ufficio o servizio.

L’elemento psicologico è rappresentato dal dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà dell’appropriazione. Il reato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione dell’oggetto materiale altrui da parte dell’agente, la quale si realizza con una condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede, a prescindere dal verificarsi di un danno patrimoniale, trattandosi di condotta comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 c.p., che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento della P.A.

La seconda parte dell’art 314 c.p. ha ad oggetto il peculato d’uso che interviene sulla condotta del Pubblico ufficiale che si impossessa del denaro o della cosa per farne un uso momentaneo e la restituisca immediatamente. Si tratta per questo motivo di un reato meno grave, punito con una pena decisamente meno severa.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Cagliari confermava la condanna di (omissis) in ordine al reato di peculato, commesso mediante l’appropriazione di una somma di denaro depositata su un conto corrente cointestato con la madre della ricorrente, in favore della quale aveva svolto la funzione di amministratrice di sostegno.

Secondo la ricostruzione recepita dai giudici di merito, la ricorrente si era appropriata della suddetta somma dopo la morte della madre e prima di rendere il conto della gestione, in tal modo sottraendola anche alla divisione ereditaria con i fratelli, due dei quali si costituivano parte civile, ottenendo la liquidazione del danno morale. La Corte di appello riteneva che la condotta integrasse il reato di peculato sul presupposto che la morte dell’amministrata non determinava la cessazione del pubblico ufficio di amministratore di sostegno, che doveva permanere fino al momento del rendiconto, in ogni caso, ove pure non si fosse recepita tale soluzione, la responsabilità dell’imputata era ugualmente sussistente in applicazione del principio di cui all’art. 360 cod. pen.

2. Avverso tale sentenza la ricorrente ha formulato cinque motivi di ricorso.

2.1. Con il primo motivo, deduce la violazione dell’art. 314 cod. pen., in relazione agli artt. 411 e 385 cod. civ., sostenendo che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la morte dell’amministrata non determinasse, in via automatica, la perdita della qualifica di amministratrice di sostegno e, quindi, di pubblico ufficiale.

Invero, si sostiene che la qualifica è necessariamente collegata al permanere della funzione, che viene veno per effetto della morte del soggetto nei cui confronti si esercita l’amministrazione. Né a diverse conclusioni condurrebbe l’osservazione secondo cui la procedura prevede in ogni caso il rendimento del conto, trattandosi di un adempimento non comportante l’esercizio di alcuna funzione di tipo pubblicistico, oltre che espressamente riferito al momento della cessazione dell’incarico, da individuarsi pur sempre in concomitanza con il decesso dell’amministrato.

2.2. Con il secondo e terzo motivo, si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione all’art. 360 cod. pen. L’affermazione secondo cui il denaro depositato sul conto cointestato sarebbe stato posseduto dalla ricorrente in virtù dell’esercizio della funzione, il che consentirebbe l’ultrattività della qualifica ai sensi dell’art. 360 cod. pen., non terrebbe conto di incontrovertibili elementi contrari in punto di fatto.

È emerso, infatti, che la ricorrente era cointestataria del conto corrente della madre ben prima dell’assunzione della qualifica di amministratrice di sostegno, sicché la disponibilità del denaro non era funzionalmente collegata al ruolo ricoperto, bensì trovava una causa antecedente nei rapporti di solidarietà familiare e nell’esigenza di consentire alla ricorrente di coadiuvare la madre nella gestione patrimoniale, secondo modalità del tutto usuali.

A ciò si aggiunge che l’art. 360 cod. pen. prevede l’ultrattività della qualifica a condizione che questa abbia in qualche modo agevolato e consentito la consumazione del reato. Nel caso di specie, invece, la presunta appropriazione era avvenuta non già mediante un abuso della qualifica di amministratrice di sostegno, bensì in virtù della formale cointestazione del conto corrente e della qualifica di erede assunta dalla ricorrente al momento della morte della madre.

2.3. Con il quarto motivo, deduce il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo. Il denaro della defunta amministrata, infatti, era stato in gran parte utilizzato per adempiere debiti accumulati in vita dalla predetta, mentre la restante parte era destinata ad essere ripartita dalla ricorrente con i fratelli, non essendo stata in alcun modo contestata la qualità di eredi e il loro diritto a ricevere pro-quota le somme residue. A riprova si richiama anche la deposizione di uno dei coeredi – (omissis) – il quale aveva espressamente dato atto del tentativo di mediazione espletato con il coinvolgimento di tutti i coeredi che, tuttavia, non era andato a buon fine per l’opposizione non già dell’imputata, bensì di altro coerede (omissis).

2.4. Con il quinto motivo si censura il vizio di motivazione relativamente al riconoscimento, in favore delle parti civili costituite, dell’importo di Euro5.000 a titolo di risarcimento del danno morale da ciascuna di esse subito. Evidenzia il ricorrente come il giudice di primo grado avesse espressamente escluso la possibilità di liquidare il danno patrimoniale, non essendo stata individuata la quota di denaro residua attribuibile a ciascun erede, mentre procedeva alla liquidazione del danno morale.

La Corte di appello, omettendo di pronunciarsi sui motivi concernenti l’individuazione dei presupposti per il riconoscimento del danno morale, confermava la sentenza di primo grado sottolineando come la condotta dell’imputata avesse precluso ai coeredi di ricevere le somme di sua spettanza. In tal modo, quindi, la Corte di appello non solo aveva omesso di rispondere al motivo di impugnazione, ma aveva anche indebitamente modificato il titolo di danno oggetto di risarcimento, riconoscendo un danno patrimoniale anziché morale.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito precisati.

2. Il primo quesito che pone il ricorso attiene all’individuazione del momento in cui, per effetto della morte dell’amministrato, interviene la cessazione dall’esercizio delle funzioni dell’amministratore. Secondo i giudici di merito, la qualità permarrebbe fino al momento in cui l’amministratore rende il conto della gestione, perdurando nelle more i poteri di gestione del patrimonio dell’amministrato, anche in considerazione della non sempre immediata individuazione degli eredi. Si ritiene, in tal modo, che in capo all’amministratore permarrebbe un obbligo di provvedere alla gestione del patrimonio del deceduto, attività che si porrebbe in stretta correlazione funzionale con l’amministrazione di sostegno.

Si tratta di una soluzione a supporto della quale, invero, non è stata addotta alcuna specifica motivazione in punto di diritto, essendo fondata sulla tesi per cui sull’amministratore graverebbe un generico obbligo di prosecuzione dell’attività di gestione del patrimonio, fino al momento del rendiconto che, pertanto, verrebbe ad essere il momento di effettiva cessazione della funzione.

2.1. Ritiene la Corte che tale impostazione non sia condivisibile, posto che la funzione dell’amministratore di sostegno, come del resto quella del tutore dell’interdetto, è strettamente funzionale a far fronte alle esigenze di un soggetto privo di adeguata autonomia, sicché, nel momento in cui viene meno l’amministrato, cessa anche l’ufficio dell’amministrazione di sostegno.

In tal senso si è espressa, in maniera sostanzialmente unanime, la dottrina civilistica che si è occupata delle ipotesi di cessazione dell’amministrazione di sostegno, secondo cui la morte dell’amministrato costituisce una vera e propria cessazione “dell’ufficio” in quanto tale, essendo venuto meno il soggetto da tutelare. A tal riguardo deve sottolinearsi come l’amministrazione di sostegno ha una finalità composita, concernente la tutela degli interessi personali e patrimoniali dell’amministrato, salvo restando che tale funzione non può mai limitarsi alla mera tutela del patrimonio in quanto tale.

Ne consegue che, cessata ex lege l’amministrazione di sostegno, all’amministratore non può neppure demandarsi un ulteriore compito di mera conservazione e gestione del patrimonio residuo, proprio perché la ratio dell’istituto non attiene alla tutela del patrimonio, bensì alla gestione delle esigenze di un soggetto non in grado di provvedervi autonomamente. Quanto detto comporta che, per effetto della morte dell’amministrato, il suo patrimonio sarà sottoposto all’ordinaria disciplina della successione ereditaria, non potendo l’amministratore di sostegno svolgere alcuna ulteriore attività.

Deve sottolinearsi come la tesi della cessazione dall’ufficio di amministratore di sostegno per effetto del sopravvenuto decesso dell’amministrato, senza necessità di attendere l’esito del rendiconto, trova conferma proprio nell’art. 385 coc. civ. che impone tale obbligo (la norma disciplina la tutela e curatela, ma è espressamente applicabile all’amministrazione di sostegno per effetto del richiamo di cui all’art. 411 cod. civ.).

L’art. 385 cod. civ. stabilisce che “Il tutore che cessa dalle funzioni deve fare subito la consegna dei beni e deve presentare nel termine di due mesi il conto finale dell’amministrazione al giudice tutelare”, in tal modo evidenziando come l’obbligo di riconsegna dei beni, implicante anche la perdita di qualsivoglia possibilità di disporne, consegue immediatamente per effetto della cessazione dell’ufficio, mentre l’obbligo di rendiconto è differito, trattandosi di una mera attività riepilogativa di quanto svolto in pendenza dell’amministrazione.

In buona sostanza, è vero che – come rilevato dalla Corte di appello – il rendiconto è funzionalmente collegato alla pregressa attività di amministrazione, ma è altrettanto innegabile che nel lasso temporale intercorrente tra la cessazione della funzione, comportante l’obbligo di “consegna dei beni”, l’amministratore non può svolgere alcuna ulteriore attività gestoria, essendo unicamente tenuto a rendere il conto.

2.2 Le osservazioni sopra svolte determinano rilevanti ricadute sul versante penalistico, posto che una volta ritenuto che l’amministratore di sostegno cessa dall’ufficio nel momento stesso in cui interviene la morte dell’amministrato, ne consegue necessariamente che eventuali condotte appropriative commesse in epoca successiva non possono ricadere nell’alveo del delitto di peculato, ma solo nella corrispondente ipotesi dell’appropriazione indebita.

3. Una volta esclusa l’attualità della qualifica pubblicistica nel momento in cui è intervenuto il prelievo delle somme depositate sul conto corrente cointestato alla ricorrente e alla madre, deve esaminarsi la possibilità di ritenere l’ultrattività della qualifica ex art. 360 cod. pen.

Sul punto è dirimente il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui ai fini della configurabilità del delitto di peculato, è sufficiente che il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile si siano verificati per ragioni di ufficio o di servizio, essendo irrilevante, a norma dell’art. 360 cod. pen., che l’appropriazione sia avvenuta in un momento in cui la qualità di pubblico agente sia cessata, laddove la condotta appropriativa sia funzionalmente connessa all’ufficio o al servizio precedentemente esercitati (Sez.6, n. 2230 dell’11/12/2019, dep.2020, Renella, Rv. 278131).

La ratio sottesa all’art. 360 cod. pen. è volta ad estendere gli effetti della qualifica pubblicistica, anche ad un periodo successivo alla sua cessazione, nella misura in cui sussiste un rapporto di strumentalità tra la qualifica precedentemente ricoperta e il reato commesso, la cui realizzazione deve essere stata possibile proprio sfruttando la pregressa posizione.

Quest’ultimo requisito non è stato adeguatamente valutato nel caso di specie, posto che, sulla base della ricostruzione concordemente risultante dalle sentenze di merito, la ricorrente era cointestataria del conto corrente prima ancora che fosse nominata amministratrice di sostegno. Ne consegue che il presupposto fattuale che ha consentito l’appropriazione non è funzionalmente collegato alla qualifica rivestita, bensì trova fondamento in un fatto pregresso, dipendente dai soli legami parentali.

In buona sostanza, la ricorrente ha potuto prelevare l’intera somma deposita sul conto non già avvalendosi della qualifica di amministratrice di sostegno, bensì di quella – avente mera rilevanza civilistica – di cointestataria del conto corrente. Tanto ciò è vero che, per come emerso dalla sentenza di appello, l’esigenza di provvedere tempestivamente al prelievo è dipesa dal fatto che l’istituto di credito, ove avesse appreso dell’avvenuto decesso di uno dei cointestatari, non avrebbe consentito il prelievo dell’intero deposito.

In definitiva, deve ritenersi che il delitto di peculato non può ritenersi configurabile in quanto l’appropriazione è avvenuta non già per effetto della disponibilità del denaro collegata alla funzione che la ricorrente aveva svolto, bensì in virtù della posizione di cointestataria del conto corrente, già attribuita prima dell’assunzione della qualifica di amministratrice di sostegno.

4. Alla luce di tali considerazioni, ritiene la Corte che il reato di peculato non è configurabile, dovendosi ricondurre la condotta alla diversa ipotesi dell’appropriazione indebita, posto che non è contestato che l’imputata – al netto delle spese sostenute per debiti della madre – si sia appropriata di una somma di denaro ricadente nella successione e, quindi, destinata ad essere ripartita con i coeredi. Né rileva che, tra i coeredi, vi sia contestazione in ordine alla provenienza delle somme depositate sul conto corrente e, quindi, sull’importo ricadente in successione, posto che neppure la ricorrente contesta che una quota dell’ammontare complessivo rientrava sicuramente nell’asse ereditario materno. La questione, pertanto, assume mero rilievo privatistico mentre, in ambito penale, è sufficiente a configurare il reato di appropriazione indebita il fatto che una quota, sia pur non compiutamente quantificata, era sicuramente appartenente alla de cuius e con riferimento a tale porzione si è consumato il reato di cui all’art. 646 cod. pen.

Una volta riqualificato il fatto nel reato di appropriazione indebita, se ne deve dichiarare l’intervenuta prescrizione, posto che il fatto risale al 2015 e non risultano periodi di sospensione idonei a escludere l’effetto estintivo.

5. La ricorrente ha formulato uno specifico motivo di ricorso in ordine al riconoscimento del danno in favore delle parti civili, avendo il giudice di primo grado liquidato l’importo di Euro5.000 per ciascuna di esse a titolo di danno morale.

La Corte di appello ha omesso di rispondere alle doglianze della ricorrente, la quale contestava l’omessa specificazione delle ragioni che avevano condotto al riconoscimento del danno morale e alla sua quantificazione. Peraltro, la sentenza impugnata ha, in motivazione, sostanzialmente mutato la natura del danno, ritenendo che l’appropriazione avrebbe arrecato un pregiudizio, evidentemente di natura patrimoniale, nella misura in cui i coeredi erano stati privati della quota ereditaria sulle somme appartenute alla de cuius. In buona sostanza, quindi, il giudice di appello da un lato ha omesso di rispondere al motivo di appello e dall’altro ha sopperito alle presunte carenze motivazionali argomentando in ordine alla sussistenza di un danno patrimoniale, anziché morale, così come avvenuto in primo grado.

6. Alla luce di tali considerazioni, la sentenza impugnata, previa riqualificazione del fatto nel delitto di appropriazione indebita, deve essere annullata senza rinvio, stante l’intervenuta prescrizione.

La fondatezza del motivo di ricorso avente ad oggetto le statuizioni civili comporta la necessità di disporre l’annullamento con rinvio dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.

P.Q.M.
Riqualificato il fatto nel delitto di cui all’art. 646 cod. pen., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.Annulla altresì agli effetti civili la medesima sentenza e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Così deciso in Roma, l’11 luglio 2024.

Depositata in Cancelleria il 22 agosto 2024.

Allegati

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