RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 27 settembre 2018 la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato la sussistenza delle condizioni per disporre la consegna di M.E.I. all’Autorità giudiziaria della Repubblica di Romania per l’esecuzione della sentenza irrevocabile di condanna alla pena di anni due di reclusione per reati di aggressione, lesioni personali gravi e percosse, emessa il 16 giugno 2016 dalla Judecatoria di Raducaneni in Iasi e posta a fondamento del mandato di arresto Europeo n. 2/2017 dell’11-16 gennaio 2017. La Corte d’appello ha inoltre subordinato la consegna alla condizione che la pena da scontare sia solo quella per la quale risulta emessa la sentenza di condanna.
2. Avverso la su indicata pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il difensore del M. deducendo tre motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Con il primo motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. h), art. 4 della Carta dei diritti fondamentali UE e art. 3 CEDU, per avere la Corte d’appello omesso di espletare una verifica personalizzata delle reali condizioni di detenzione nello Stato di emissione e della loro compatibilità con i diritti fondamentali, sulla base delle specifiche allegazioni difensive in merito al rischio, attuale e concreto, di trattamento inumano e degradante cui il ricorrente sarebbe sottoposto in caso di consegna presso gli istituti di detenzione romeni. Allegazioni non contraddette dalla nota di informazioni trasmessa dal Ministero della giustizia romeno in data 5 settembre 2018, avuto riguardo alla generica ed incompleta indicazione del trattamento e delle condizioni detentive cui il ricorrente sarebbe assoggettato a seguito della consegna. Non vi si esprimono, infatti, i termini del piano di detenzione riservato in forma individualizzata al ricorrente, dandosi conto esclusivamente di taluni aspetti generali e delle caratteristiche dei sistemi carcerari che l’amministrazione penitenziaria romena gli garantirebbe durante l’intero periodo di espiazione della pena. Unico elemento comunicato con la su citata nota informativa attiene alla determinazione dello spazio minimo vitale garantito al detenuto, che risulta pari a 3 mq. (inclusi letto e mobili) presso due Case circondariali (Rahova e Iasi) e a 2 mq. in regime detentivo semi-aperto presso la Casa circondariale di Botosani, senza peraltro indicarne le effettive modalità di esecuzione e senza alcuna certezza di elementi di compensazione, tenuto conto del fatto che si tratta di strutture carcerarie più volte sottoposte a controllo dal Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa.
2.1.1. Un secondo profilo di doglianza viene altresì prospettato, unitamente al primo, in merito alla carenza di una precisa e puntuale descrizione, nel m.a.e. esecutivo in atti, delle modalità di realizzazione dei reati per i quali il M. è stato condannato, dei relativi elementi di riscontro probatorio e di un’adeguata motivazione circa la sua diretta e fattiva partecipazione all’episodio delittuoso avvenuto in data (OMISSIS).
2.2. Con il secondo motivo, inoltre, si censurano violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento al motivo di rifiuto di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), avendo la Corte d’appello erroneamente escluso la condizione del radicamento del M. nel territorio nazionale, ove parte della sua famiglia vive e dove egli stesso – che chiede di espiare la pena in Italia – ha in realtà svolto da anni l’attività di operaio agricolo nelle campagne di (OMISSIS).
2.3. Con il terzo motivo, infine, si lamenta la insufficiente motivazione riguardo al fatto che nel caso di specie la sentenza estera è stata pronunciata in absentia e che nessuna sufficiente assicurazione è stata data dalle Autorità romene circa la possibilità di richiedere un nuovo processo e di essere presente in giudizio. Si lamenta, ancora, il fatto che per il m.a.e. esecutivo dovrebbe applicarsi per analogia la prassi relativa all’estradizione esecutiva, che prevede l’opportunità di limitare la formulazione delle relative domande nei casi di pene detentive non superiori a quattro anni.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va rigettato per le ragioni di seguito indicate.
2. In ordine al primo motivo di doglianza deve rilevarsi come la decisione impugnata abbia posto in rilievo, con adeguata motivazione, il contenuto delle informazioni acquisite dallo Stato di emissione, osservando, in particolare, come la Direzione generale dell’Amministrazione Nazionale Penitenziaria rumena, con nota del 5 settembre 2018, abbia fornito, in risposta alla richiesta avanzata dalla Corte d’appello di Palermo, puntuali precisazioni in merito alle caratteristiche del regime esecutivo previsto nel caso di specie dal sistema processuale rumeno, partitamente delineando gli sviluppi dell’esecuzione della pena irrogata nei confronti della persona richiesta in consegna.
In tal senso, invero, la sentenza impugnata ha richiamato il contenuto della risposta inviata dalle competenti autorità dello Stato di emissione, là dove è stata circostanziata la situazione detentiva che sarà riservata al richiesto in consegna, descrivendo le condizioni delle celle, i servizi disponibili, la possibilità di accesso all’aria aperta nonchè a programmi educativi e di assistenza psico-sociale, le condizioni igienico-sanitarie degli istituti e la superficie rispettivamente disponibile. In particolare, oltre ad esservi dettagliatamente elencate tutte le condizioni di detenzione riservate al ricorrente (quanto ad illuminazione, ventilazione, condizioni igienico-sanitarie, vitto, arredi, attività del trattamento rieducativo, ecc.), il cui complessivo apprezzamento consente di escludere la presenza di un rischio concreto di trattamenti inumani e degradanti, vi è stato precisato lo spazio minimo individuale che gli sarà garantito nelle strutture carcerarie che verranno ad ospitarlo.
Tale spazio è di almeno 3 mq. sia nell’iniziale periodo di quarantena di ventuno giorni (fascia temporale durante la quale i detenuti esercitano tutti i diritti previsti dalla legge di esecuzione, seguendo il relativo programma di adattamento alle condizioni detentive), sia durante il regime di tipo aperto, cui egli potrà accedere (con la possibilità di fruire di porte aperte in permanenza nelle camere di detenzione e di accedere senza limitazioni ai cortili per passeggiate all’aperto, con ulteriori possibilità di utilizzo di punti di documentazione e di informazione elettronica, di svolgimento di attività lavorative, educativo-culturali, di istruzione scolastica e formazione professionale ecc.) in seguito ad un positivo riesame dopo l’espiazione di un quinto della pena, mentre il regime semi-aperto – cui sarà inizialmente sottoposto, alla fine del su indicato periodo di quarantena – è di mq. 2, all’interno di camere di detenzione (munite di letto individuale e dei mobili necessari) ove risultano comunque assicurate idonee condizioni igienico-sanitarie, di ventilazione ed illuminazione naturale, di riscaldamento ecc., con porte aperte durante la giornata e la possibilità di passare il tempo libero all’aperto e di rientrare nella stanza solo al momento dei pasti, di accedere a postazioni telefoniche, di fruire di un certo numero di visite mensili, di svolgere le diverse attività, anche lavorative, e i programmi sopra indicati, e, in definitiva, di utilizzare la camera solo per il pernottamento o per svolgervi attività amministrative e di igiene personale.
Sulla base delle risultanze offerte da tale quadro informativo, ufficialmente comunicato, ed al quale le autorità dello Stato di esecuzione non possono negare fede, la valutazione effettuata dalla Corte distrettuale si sottrae alle censure sopra indicate, non avendo il ricorrente documentato, peraltro, che le strutture penitenziarie di destinazione risultino in concreto inidonee ad evitare il serio pericolo di trattamenti inumani e degradanti, anche in ragione dell’accertato progressivo miglioramento delle condizioni detentive nei relativi istituti penitenziari rumeni.
Le competenti Autorità rumene hanno, infatti, presentato in data 25 gennaio 2018 al Segretariato del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (competente per l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU) l’Action Plan in relazione alla sentenza pilota della Corte EDU (Rezmives ed altri c. Romania) del 25 aprile 2017, che aveva condannato la Romania per le carenze strutturali delle condizioni di detenzione, ritenute in violazione dell’art. 3 CEDU, chiedendo la introduzione di “misure generali per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e delle pessime condizioni di detenzione”. Nel predetto documento ufficiale, esse hanno elencato una serie di misure volte a contrastare le problematiche riscontrate dalla Corte EDU, attraverso l’introduzione di rimedi amministrativi e legislativi, sia preventivi (riduzione del ricorso alla carcerazione preventiva, costruzione di nuovi istituti carcerari, ammodernamento delle strutture esistenti) che compensativi (possibilità di beneficiare di giorni di liberazione anticipata in caso di detenzione in condizioni non appropriate).
In questo rinnovato contesto, che testimonia un consistente progresso dello Stato rumeno nel percorso di ottemperanza alle indicazioni provenienti dalla Corte EDU, devono essere pertanto esaminate le informazioni fornite in relazione al caso in esame.
Nella più recente elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte si è rilevato come la delibazione in ordine alla sussistenza o meno delle condizioni inumane e degradanti debba essere operata alla stregua di una valutazione sinergica ed unitaria di plurimi indici di riferimento, in sintonia con le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte EDU che, nel valutare le condizioni detentive in strutture per condannati, ha sempre tenuto conto dell’effetto cumulativo delle condizioni di detenzione (ex multis v. Dmitriy Rozhin c. Russia, n. 4265/06, p. 53, 23 ottobre 2012; Kulikov c. Russia, n. 48562/06, p. 37, 27 novembre 2012; Yepishin c. Russia, n. 591/07, p. 65, 27 giugno 2013; Sergey Babushkin c. Russia, cit., p.p. 52 – 58).
Sulla base delle su esposte considerazioni deve escludersi, all’interno di siffatta impostazione ermeneutica, il “serio pericolo” che la persona ricercata venga sottoposta a trattamenti inumani o degradanti qualora dallo Stato richiedente venga garantito al detenuto uno spazio non inferiore a tre metri quadrati in regime cd. “chiuso”, ovvero uno spazio inferiore, ma in presenza di un regime c.d. “semiaperto”, ossia in presenza di circostanze che consentano di beneficiare di una maggiore libertà di movimento durante il giorno, rendendo in tal modo possibile il libero accesso alla luce naturale e all’aria, sì da compensare l’insufficiente assegnazione di spazio. In tale evenienza, infatti, ove sia riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadri, è necessario, al fine di escludere o di contenere detto pericolo, che concorrano le seguenti circostanze:
1) breve durata della detenzione;
2) sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività;
3) dignitose condizioni carcerarie (Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, P., Rv. 271577; Sez. 6, n. 18016 del 18 aprile 2018, Breaz, non mass.; Sez. Fer., n. 37610 del 31 luglio 2018, Ibra, non mass.; Sez. 6, n. 38920 del 21 agosto 2018, Astratinei, non mass.).
Alla stregua della su richiamata nota informativa la Corte d’appello ha chiarito, attraverso un esaustivo e coerente vaglio delibativo di merito, la cui rivisitazione, come tale, non è sindacabile in questa Sede, che i presupposti sopra individuati devono ritenersi configurabili nel caso di specie avuto riguardo, in particolare, al fatto che:
a) sono determinati i luoghi e le modalità di detenzione;
b) il regime carcerario, dopo una fase iniziale di orientamento di 21 giorni, sarà di carattere “semiaperto”, con un tempo trascorso in cella limitato al riposo notturno, all’igiene personale, ai pasti, e con la garanzia di areazione, illuminazione e climatizzazione adeguate, nonchè con accesso all’acqua corrente ed ai servizi sanitari, in condizioni d’igiene e pulizia;
c) tale regime prevede che le porte delle celle siano aperte tutta la giornata e che i detenuti possano accedere a postazioni telefoniche ed informatiche, all’acquisto di generi di necessità e possano ricevere visite, nonchè lavorare e svolgere attività educative, sportive, terapeutiche, con accesso agli spazi aperti;
d) dopo l’espiazione della quinta parte della pena, il detenuto potrà accedere al regime cosiddetto “aperto”, che garantisce spazi di autonomia e libertà ancora maggiori;
e) la circostanza che lo spazio a disposizione del detenuto sia temporaneamente inferiore al limite di 3 mq. non è di per sè ostativa, poichè la detenzione non è di lunga durata e si inscrive nell’ambito di un regime che, in ossequio agli standards convenzionali, rispetta le esigenze personali individuali e consente l’uscita di cella per tutto il giorno, nonchè la fruizione di servizi con il connesso svolgimento di adeguate attività rieducative.
3. Manifestamente infondato, inoltre, deve ritenersi il secondo profilo di doglianza, per vero solo genericamente prospettato sulla base di una diversa valutazione del compendio probatorio su cui si è basata la sentenza definitiva di condanna emessa dall’Autorità emittente, così sollecitando un tipo di sindacato che questa Corte di legittimità non può esercitare, trovando invece quella tipologia di censure la sua normale sede di introduzione e disamina dinanzi alle competenti Autorità giudiziarie dello Stato di emissione.
Nel caso di specie la Corte distrettuale ha correttamente richiamato la precisa descrizione dei gravi episodi delittuosi citati nel m.a.e. esecutivo in atti, sì come fatti oggetto di accertamento nella sentenza definitiva di condanna ivi menzionata, con la correlata indicazione delle fattispecie violate, delle modalità di compimento delle condotte, della qualificazione giuridica dei fatti e della pena irrogata.
In tema di mandato di arresto Europeo, secondo i principi da questa Suprema Corte affermati, al di fuori delle tassative ipotesi regolate dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, non compete allo Stato di esecuzione alcuna valutazione sulle modalità di acquisizione delle prove poste alla base della sentenza irrevocabile di condanna (Sez. 6, n. 46223 del 24/11/2009, Pintea, Rv. 245450).
4. Parimenti infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, ove si consideri che, alla luce di un pacifico insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte (da ultimo, Sez. 6, n. 33865 del 30/07/2015, Hetes, Rv. 264372; Sez. 6, n. 9767 del 26/02/2014, Echim, Rv. 259118; Sez. 6, n. 50386 del 25/11/2014, Batanas, Rv. 261375), la nozione di “residenza” rilevante – dopo la sentenza n. 227/2010 della Corte costituzionale – ai fini del rifiuto di consegna di un cittadino di altro Paese membro dell’Unione, ai sensi della L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, lett. r), presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato, desumibile dalla legalità della sua presenza in Italia, dall’apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, dalla distanza temporale tra quest’ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all’estero, dalla fissazione in Italia della sede principale (anche se non esclusiva) e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, oltre che dall’eventuale pagamento di oneri contributivi e fiscali.
Nel caso di specie, nessuna prova è stata fornita della ricorrenza di tali condizioni, avendo la Corte distrettuale posto in rilievo l’assenza di qualsivoglia concreta allegazione circa la continuità della presenza del M. nel territorio italiano, ovvero in merito all’esercizio di una sua effettiva, regolare e durevole attività lavorativa, irrilevante dovendosi ritenere, sotto tale profilo, il dato relativo alla risalente residenza di un familiare (la sorella) in territorio italiano, tenuto conto del fatto che il ricorrente non coabitava con la stessa e che, al momento del suo arresto, egli era ricercato come latitante.
Correttamente, dunque, la Corte d’appello ha escluso la prova di uno stabile radicamento sul territorio del ricorrente.
5. Le questioni oggetto della terza doglianza dal ricorrente prospettata sono destituite di fondamento giuridico, avendo questa Suprema Corte più volte stabilito il principio secondo cui deve considerarsi legittima la consegna disposta ai fini dell’esecuzione di una pena irrogata mediante decisione pronunciata “in absentia”, quando nello Stato membro di emissione sia consentito alla persona richiesta di ottenere un nuovo giudizio, una volta venuta a conoscenza della decisione di condanna pronunciata nei suoi confronti (da ultimo, v. Sez. 6, n. 43265 del 22 ottobre 2015, Szabo, non mass.; Sez. 6, n. 9151 del 21/02/2013, Amoasei, Rv. 254473; Sez. 6, n. 25303 del 21/06/2012, Mitrea, Rv. 252724).
La legislazione romena, infatti, anche nel nuovo codice di rito entrato in vigore il primo febbraio 2014 (legge n. 135 del 2010), prevede un apposito meccanismo procedurale che consente al condannato – che non è stato citato a comparire in Tribunale e non è stato informato in qualunque altro modo ufficiale – la riapertura del procedimento, stabilendo specifiche disposizioni per colui che, condannato in contumacia, sia consegnato sulla base di un mandato d’arresto Europeo (il termine per proporre la riapertura decorre ex art. 466 dalla data in cui, a seguito della consegna, alla persona è comunicata la sentenza di condanna) (Sez. 6, n. 1741 del 13/01/2017, Durnoi, non massimata; Sez. 6, n. 1945 del 15/01/2016, Mera, non massimata).
Secondo l’ordinamento dello Stato di emissione, pertanto, la persona consegnata in base a mandato di arresto Europeo per essere sottoposta ad una pena derivante da una condanna pronunciata in absentia può, su sua richiesta, essere nuovamente giudicata dalla stessa Corte che lo ha condannato.
Non può, dunque, ritenersi violato l’art. 6 C.E.D.U. e, conseguentemente, non equo il processo celebratosi nella contumacia della persona richiesta in consegna, quando l’ordinamento dello Stato richiedente preveda – come nel caso di specie – meccanismi di garanzia idonei ad assicurare all’imputato la possibilità di ottenere un nuovo processo allorchè questi non sia stato informato del processo celebrato nei suoi confronti.
6. Al rigetto del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La Cancelleria curerà l’espletamento degli incombenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2018.
