Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza n. 297/2019 del 26/02/2019, la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato la condanna inflitta l’11/03/2016 dal Tribunale di Caltanissetta S.G. ex art. 81 c.p., comma 2, art. 336 c.p., per avere, con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso, il (OMISSIS), minacciato i Carabinieri G.A. e D.A. per impedire che redigessero verbale di contravvenzione e di sequestro del suo veicolo (perchè sprovvisto di assicurazione obbligatoria) e, nuovamente, il (OMISSIS), per avere minacciato presso la Stazione dei Carabinieri di Riesi, ai carabinieri G.A. e A.G. per costringerli a compiere un atto contrario ai propri doveri (capo a) e ex art. 337 c.p., perchè, per opporsi ai predetti carabinieri G.A. e D.A. mentre procedevano all’attività di cui al capo a), usava violenza nei loro confronti tentando di darsi alla fuga con l’autovettura per sottrarsi alle operazioni di controllo in corso di svolgimento (capo b).
2. Nel ricorso presentato dal difensore di S. si chiede l’annullamento della sentenza deducendo: a) violazione dell’art. 336 c.p. e vizio della motivazione circa la valenza minatoria della condotta dell’imputato e la sussistenza dell’elemento psicologico del reato; b) violazione dell’art. 337 c.p. e vizio della motivazione per avere ravvisato la resistenza ai pubblici ufficiali in un innocuo tentativo di fuga dell’imputato; c) violazione di legge e vizio della motivazione nel disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; d) violazione di legge e vizio della motivazione nella mancata applicazione del minimo della pena e nel mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è infondato.
1.1 Quanto al primo motivo deve registrarsi che nel ricorso non si contesta che l’imputato abbia pronunciato le frasi descritte nel capo “a”, ma si osserva che il gesto dell’imputato di portare l’indice alla propria tempia simulando un colpo di pistola e poi rivolgendosi ai Carabinieri con l’espressione “a voi che siete dei malandrini vi sparerei alla testa” non avrebbe valenza minatoria.
Il delitto ex art. 336 c.p., è di mera condotta assistita da dolo specifico e si consuma indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissatosi dal reo (Sez. 6, n. 4691 del 27 settembre 2011, non mass.). L’idoneità della minaccia deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto (Sez. 6, n. 36073 del 6 maggio 2014, non mass.) e può integrarla anche una espressione ingiuriosa, volta a ottenere l’interruzione dell’attività di ufficio che si veniva svolgendo (Sez. 6, n. 10946 del 16 febbraio 2016 non mass.).
Correttamente su queste basi, la Corte di appello con valutazione convergente con quella del Tribunale, sulla base di pertinenti massime di esperienza e senza incorrere in manifeste illogicità, ha osservato che gli elementi di fatto offerti dall’istruttoria, se letti unitariamente, rendono chiara la volontà di minacciare i Carabinieri per impedire loro di proseguire l’attività di ufficio, anche considerando, relativamente ai fatti del (OMISSIS), che alle condotte richiamate l’imputato ha aggiunto l’espressione “…il male che fate alla povera gente vi si deve ritorcere contro…”. Inoltre, deve rilevarsi che l’imputato, il giorno successivo ((OMISSIS)) si rivolse al Carabiniere D. con l’espressione e “…togliti la divisa che ti ammazzo, tanto tu sei qui di (OMISSIS) e prima o poi ti incontro” e che il ricorso non si confronta con la valenza di questa porzione – di cui non contesta l’esistenza – della condotta attribuita all’imputato.
1.2. Quanto al secondo motivo, la Corte ha osservato che il tentativo di fuga non rileva in sè ma in quanto “si innesta funzionalmente in un complessivo contegno” (p. 3) volto a impedire ai Carabinieri di completare le operazioni, prospettando loro una volontà di uccidere e al contempo di forzare il posto di blocco. Dalla sentenza di primo grado si ricava che l’imputato tentò di sottrarre ai Carabinieri i verbali che stavano compilando e poi mise in moto la sua autovettura, che sobbalzò, con il rischio di investire uno dei militari operanti sino a che uno di loro non riuscì a togliere le chiave dall’automobile (pp. 3-4 della sentenza del Tribunale).
Le condotte sopra descritte costituiscono violenze rivolte a pubblici ufficiali per costringerli a omettere atti del loro ufficio prima di iniziarne lo svolgimento e integrano reato ex art. 337 c.p., per il compimento del quale non si richiede che sia stata effettivamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, bastando la opposizione al compimento della sua attività indipendentemente dall’esito della condotta (Sez. 6, n. 46743 del 6/11/2013, Rv. 257512; Sez. 6, n. 45868 del 15/05/2012, Rv. 253983; Rv. 245855). Il dolo specifico necessario per integrare il reato sta nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia per ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto e non rileva che l’agente abbia mirato anche a altri scopi (Sez. 6, n. 38786 del 17/09/2014,Rv. 260469; Sez. 6, n. 36367 del 6/06/2013, Rv. 257100; Sez. 6, n. 22453 del 29/01/2009, Rv. 244060).
1.3. Quanto al terzo e al quarto motivo del ricorso, deve rilevarsi che la motivazione adottata dalla Corte dà unitariamente conto delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione della pena non nel minimo edittale (ma, comunque, dal minimo non distante, essendo stata applicata la pena di 9 mesi di reclusione comprendente la continuazione interna al capo “a” e fra i due capi): la proterva reiterazione delle condotte non solo durante il controllo su strada ma anche all’interno della caserma in due giorni diversi e consecutivi e la precedente concessione del beneficio della sospensione per gravi reati inerenti alla detenzione illegale di armi e munizioni incompatibili con una prognosi favorevole sui comportamenti successivi.
2. Dal rigetto del ricorso deriva ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2020
