Rilevava la Corte di appello come fossero infondate le doglianze formulate con gli atti di impugnazione, essendo stati i fatti provati dalle dichiarazioni rese dalle persone offese, riscontrate dalla documentazione acquisita e dalle deposizioni dei vari testi esaminati; e come le vicende, così come ricostruite, avessero integrato (anche sotto l’aspetto soggettivo) gli estremi del contestato delitto di maltrattamenti in famiglia e non anche quelli del meno grave reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il S., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti due motivi.
2.1. Vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente riconosciuto la sussistenza del reato contestato anche con riferimento alla figlia minore (omissis) che, nata nell’agosto del (omissis), all’epoca dei fatti e prima dell’allontanamento dei fratelli, aveva appena otto mesi e non poteva percepire il senso delle supposte condotte violente e minacciose poste in essere nei riguardi degli altri discendenti.
2.2. Vizio di motivazione, per avere la Corte distrettuale disatteso la tesi difensiva in ordine alla configurabilità di un reato c.d. “culturalmente orientato”, posto che l’imputato, analfabeta e proveniente da una zona rurale dell’Egitto, fortemente legato alle proprie tradizioni e al proprio sentimento religioso, aveva agito esclusivamente nella convinzione di offrire ai figli un futuro migliore e una posizione rispettabile in Italia o in Egitto: il (omissis), dunque, appartenente ad un gruppo etnico culturalmente e religiosamente minoritario in Italia, aveva tenuto quelle condotte perchè fortemente condizionato dalla sua provenienza, dalle difficoltà incontrate nell’integrarsi nella società italiana e dalla mancanza di qualsivoglia aiuto da parte delle istituzioni; convinto di agire in conformità agli usi e alle tradizioni della realtà di origine, per le quali la punizione dei figli è espressione di un largamente diffuso sistema educativo, l’imputato non aveva avuto la coscienza e volontà di sottoporre le vittime a sofferenze e vessazioni nel senso indicato dalla norma incriminatrice oggetto di addebito.
5. Avverso la medesima sentenza ha presentato ricorso anche la (omissis), con atto sottoscritto dal suo difensore, la quale, con un unico articolato motivo, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all’art. 40 c.p., comma 2 e art. 42 c.p., comma 1, per avere la Corte torinese omesso di considerare che le vicende che avevano caratterizzato la vita personale e familiare dell’imputata – costretta a sposarsi in giovanissima età e poi partecipe di un contesto qualificato da degrado e povertà, oltre che dalla difficoltà di integrarsi con i costumi e le abitudini della società italiana – e la situazione di riconosciuta sudditanza rispetto al marito, fossero elementi che avrebbero dovuto indurre a riconoscere l’esistenza di un “reato culturalmente orientato”: da tanto i giudici di merito avrebbero dovuto desumere che la prevenuta aveva inteso solo uniformarsi ad una ben precisa concezione culturale del rapporto tra coniugi e delle relazioni tra genitori e figli, tale da escludere la esigibilità di condotte alternative a quelle tenute, essendo ella stessa “vittima di un condizionamento culturale cui non aveva potuto opporsi”.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Ritiene la Corte che entrambi i ricorsi vadano rigettati.
2. Il primo motivo del ricorso presentato nell’interesse del (omissis) è infondato.
Formalmente proposto in termini di vizio di motivazione, la censura difensiva non può trovare accoglimento in quanto nella sentenza impugnata non è ravvisabile, in relazione all’affermato riconoscimento della circostanza aggravante in parola, alcun vizio di manifesta illogicità censurabile in questa sede di legittimità: avendo i giudici di merito convincentemente spiegato come la figlia minore (omissis) dovesse considerarsi vittima delle condotte tenute dai genitori, essendo stata ella costretta, pur piccolissima, a convivere in un contesto familiare caratterizzato dall’impiego sistematico di violenza fisica e morale ai danni degli altri quattro figli, di poco più grandi, all’interno dell’abitazione familiare composta da una sola stanza: situazione che la bambina “non poteva non percepire ed essere condizionata, anche nei successivi anni di vita” da quella negativa atmosfera familiare.
D’altro canto, è doveroso aggiungere che se l’interesse giuridico protetto dalla norma incriminatrice de qua non è solo quello di garantire la funzione della famiglia come luogo di socializzazione, ma anche quello di difendere l’incolumità psicofisica di ciascuno dei suoi componenti, la cui personalità va tutelata nel progressivo svolgimento evolutivo delle relazioni all’interno di una struttura sorretta da un vincolo affettivo, non vi è ragione per non ritenere configurabile il delitto in oggetto, anche nel suo aspetto di c.d. “violenza assistita”, in relazione alla posizione dell’infante, che è notorio come nella seconda metà del suo primo anno di vita sviluppi una innata capacità di comprendere gli elementi dell’ambiente che interagiscono con lui, elaborando le emozioni collegate agli stimoli ricevuti soprattutto dai genitori.
Sotto l’aspetto più strettamente normativo, la decisione si inscrive, dunque, coerentemente nel consolidato filone giurisprudenziale per il quale il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno di un figlio minore, ma lo coinvolgano indirettamente, come involontario spettatore delle condotte poste in essere nei riguardi di altri componenti della famiglia, a condizione che sia stata accertata l’abitualità delle condotte e che le stesse siano idonee ad incidere sull’equilibrio psicofisico dello spettatore passivo (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 18833 del 23/02/2018, B., Rv. 272985).
3. La seconda doglianza del ricorso presentato nell’interesse del (omissis) e l’unico motivo formulato con il ricorso avanzato nell’interesse della (omissis), in gran parte di contenuto analogo e, dunque, esaminabili congiuntamente, sono anch’essi privi di pregio.
E’ ben nota al collegio l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale relativa alla figura del reato c.d. “culturalmente orientato” che, pur non prevista espressamente dal legislatore, si ritiene sia configurabile in tutti i casi in cui l’agente abbia motivato la tenuta di una condotta rilevante nel nostro ordinamento penale con il bisogno e la volontà di uniformarsi ad un canone comportamentale richiesto ovvero imposto dalla propria cultura di origine.
Tale fenomeno, che è evidente come sia sociale prima ancora che giuridico, era sconosciuto al dibattito degli studiosi del diritto penale fino a qualche decennio fa, e se ne è imposto l’esame in conseguenza di una nuova ondata migratoria dovuta all’arrivo in Italia di singoli o di gruppi familiari provenienti da paesi stranieri e portatori di tradizioni e costumi molto diversi da quelli del nostro: situazione che ha comportato un mutamento della composizione della società italiana, che se, da un lato, ha imposto l’esigenza di assicurare uno spazio giuridicamente tutelato alla c.d. “multiculturalità”, in quanto espressione del principio di dignità del singolo e di eguaglianza rispetto alle diversità sociali, di razza e di religione, da altro lato ha costretto i giuristi a domandarsi quanto e in che misura possa considerarsi giustificata la risposta penalistica statuale rispetto ad azioni che, di certo ritenute formalmente illecite dalla nostra cultura nazionale, potrebbero essere qualificate come espressione di comportamenti tollerati, se non imposti, nel differente contesto culturale di provenienza.
Ora, è indubbio come il nostro sistema penale consenta di valorizzare tali aspetti della personalità individuale dell’autore del reato nella fase del trattamento sanzionatorio ovvero della commisurazione della pena da infliggere, essendo tanto espressamente previsto e consentito dall’art. 133 c.p. che impone al giudice, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, di tenere conto, oltre che dei profili oggettivi dell’illecito, dei caratteri più prettamente soggettivi, che possono riguardare l’intensità del dolo o il grado della colpa, così come i motivi della condotta del reo o la sua personalità, pure desumibili dai suoi precedenti di vita personale, familiare e sociale.
Tanto è accaduto nel caso di specie nel quale, con valutazioni che non hanno costituito oggetto delle censure formulate con i ricorsi, la Corte di merito aveva chiarito come le difficoltà economiche, culturali, sociali ed educative dei due imputati ben potessero giustificare una attenuazione del trattamento sanzionatorio; e, in particolare, come il ruolo subordinato e secondario della odierna ricorrente (omissis) rispetto a quello del marito, legittimasse un differente valutazione circa l’entità della pena da infliggere a ciascuno dei due imputati.
Va esclusa, in relazione alle situazioni innanzi tratteggiate, la presenza nel nostro ordinamento penale di norme che possa condizionare la imputabilità dell’agente ovvero che configurino una qualche esimente o causa di non punibilità, di cui, peraltro, nella fattispecie non è stata neppure sollecitata la operatività.
E’ certo, invece, come la commissione di un reato che, nel senso indicato, può qualificarsi come “motivato culturalmente”, possa – da un punto di vista astratto – incidere sulla sussistenza della colpevolezza della antigiuridicità della condotta, intesa come coscienza della sua illiceità, dato che un intenso condizionamento di tale natura potrebbe essere apprezzato nel contesto delle cause che rendono inevitabile, e dunque scusabile, l’ignoranza della legge penale. Tuttavia, tale profilo non è stato valorizzato negli atti di impugnazioni portati all’odierna attenzione di questa Corte, tenuto conto che significativamente le difese non hanno negato che i coniugi (omissis) e (omissis) fossero sufficientemente consapevoli della esistenza in Italia di norme che vietavano i comportamenti da loro tenuti verso i figli.
L’impostazione dei ricorsi è, invero, diversa, avendo i difensori di entrambi gli imputati reputato di prospettare il difetto di colpevolezza non come mancata coscienza della natura contra legem delle loro condotte, bensì in termini di mancanza di esigibilità: cioè come impossibilità – in ragione del condizionamento subito dai loro modelli culturali e educativi di riferimento – di tenere un comportamento diverso da quello effettivamente posto in essere ai danni dei loro figli minori. In altre parole, per i ricorrenti ciò che conta non è la colpevolezza vista in una dimensione oggettiva, ancorata alla tipicità del fatto e alla sua antigiuridicità, ma una sua valutazione in prospettiva eminentemente personalistica, che si modella sulle caratteristiche individuali, capaci di far emergere fattori soggettivi idonei ad incidere sul giudizio di disvalore individuale dell’illecito.
Ora, se è certo che la motivazione che spinge un soggetto a commettere un fatto di reato ben può risultare in concreto fortemente condizionata dalla sua appartenenza ad un sistema di valori culturali e religiosi diversi da quelli maggioritari della nostra società, e, dunque, può teoricamente costituire una circostanza capace di rendere inesigibile una condotta differente da quella rispettosa della considerata norma incriminatrice, è ragionevole ritenere che tale “meccanismo” di giustificazione del fenomeno del multiculturalismo non possa mai andare a scapito della tutela dei diritti fondamentali protetti dalle disposizioni penali.
In presenza di tali presupposti, la pretesa dell’autore della condotta formalmente illecita a “veder rispettata” la peculiarità del personale approccio culturale ad un determinato aspetto della vita interrelazionale, deve “cedere il passo” rispetto alla esigenza di garantire una adeguata copertura penale a quelli che, non nostro ordinamento, sono considerati diritti fondamentali della persona.
Applicando tali criteri interpretativi alla vicenda oggetto del presente processo, deve escludersi che nella sentenza gravata siano riconoscibili gli estremi dei lamentati vizi di motivazione, nè tanto meno di una violazione di norme di diritto penale sostanziale.
Con riferimento alla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, non è stata formulata, in sostanza, alcuna doglianza difensiva: avendo il difensore del S. riconosciuto che il proprio assistito era stato “dilaniato nella psiche (di) genitore, certamente convinto senza propria colpa del fatto che le punizioni sono l’unica strada decorosa per offrire un futuro decoroso ai figli”; ed avendo il patrocinatore della (omissis) – sia pur in un atto di impugnazione denso di richiami ad aspetti meramente fattuali della vicenda, del tutto irrilevanti in questa sede di legittimità – ammesso che la propria cliente era una “donna murata nelle sue emozioni… sottoposta al marito-padrone (e ad un) modello culturale praticato” dal coniuge, dal quale “sarebbe stato alquanto difficile sottrarsi”.
In tale contesto appare giuridicamente corretta e logicamente non censurabile la scelta operata dalla Corte di appello nel momento in cui ha ritenuto che le precarie condizioni socio-economiche della famiglia e le particolari origini culturali fossero circostanze idonee in qualche modo a far comprendere il senso delle condotte poste in essere dai due imputati ai danni dei figli minori; ma che mai una finalità educativa avrebbe potuto legittimare quelle iniziative di sistematica e abituale sopraffazione fisica e psichica ai danni dei bambini, tradottesi nel picchiare con continuità i minori e nel frequente impiego da parte del padre, a tal fine sollecitato da una madre tutt’altro che solo succube, di un cavo metallico per percuotere sui palmi delle mani e sotto le piante dei piedi i figli: “responsabili”, agli occhi dei genitori, di non pregare, di non impegnarsi nello studio delle materie insegnate nella scuola araba e di non rispettare le ulteriori direttive loro impartite.
Il perseguire un obiettivo educativo e esistenziale, perciò, non può mai legittimare il comportamento di genitori che arrivano a trattare i figli come “beni di loro esclusiva proprietà, da forgiare a propria immagine e somiglianza, senza tenere conto delle loro esigenze, dei loro desideri e aspettative, dei loro bisogni affettivi e esistenziali”. A fronte della ineludibile necessità di salvaguardare la dignità di ciascuno dei figli minori, di garantirne un armonico ed equilibrato sviluppo della personalità, di favorire nell’ambito della famigli l’instaurazione di stabili relazioni affettive e di vincoli di solidarietà reciproca, dunque di tutelare diritti fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale, oltre che dalla Carta Europea dei diritti dell’uomo e da varie altre convenzioni internazionali, finiscono per non avere alcuna rilevanza giuridica come “scriminante” tanto il fatto che i due imputati avessero inteso replicare con i propri figli metodi educativi che a loro volta avevano “subito” ad opera dei propri genitori; quanto la circostanza di aver agito nell’intima convinzione di uniformare le proprie scelte educative a canoni comportamentali rispettosi dell’ortodossia culturale e religiosa della comunità di provenienza.
Non si tratta, come è evidente, di far prevalere un modello culturale su un altro – “implicitamente valutato come primitivo”, così come nel ricorso del S. si è voluto prospettare – ma di dare coerenza ad un sistema normativo che, in tali circostanze, può continuare a giustificare l’intervento punitivo dello Stato in ragione del fondamentale bisogno di salvaguardare la dignità e i diritti basilari dell’individuo, conciliandoli con i valori connessi alla funzionalità del gruppo familiare.
La soluzione che si è inteso in questa sede privilegiare risulta, peraltro, coerente con gli orientamenti esegetici sufficientemente consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, secondo i quali lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere: attesa l’esigenza di valorizzare – in linea con l’art. 3 Cost. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse e di consentire, quindi, l’instaurazione di una società civile multietnica (in questo senso, tra le tante, Sez. 3, n. 8986 del 12/12/2019, dep. 2020, H., Rv. 278414). Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato, dunque, dalla condotta dell’agente che sottopone i familiari ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionare loro sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, non potendo l’elemento soggettivo di tale reato dirsi escluso dalla circostanza che il reo abbia ritenuto di uniformarsi a regole della propria religione, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art. 2 Cost.), nonchè il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3 Cost., comma 1 e 2) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 55 del 08/11/2002, dep. 2003, K., Rv. 223192).
4. Non conduce a differenti conclusioni l’esame dell’ulteriore specifica doglianza avanzata dalla difesa della (omissis), secondo cui la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare la “biografia del soggetto agente, che ben avrebbe potuto giustificare l’esclusione della responsabilità per essere stata ella “costretta” dal marito a tenere i comportamenti a lei addebitati.
La censura va considerata inammissibile, per l’incertezza della prospettazione e per la evidente mancanza del carattere di decisività, considerato che la ricorrente ha parlato di “inesigibilità di condotte alternative” e di mancanza di “spazio” per l’adozione di “modelli difformi che la posizione di garanzia (le) avrebbe imposto”, dopo avere, però, riconosciuto che la sua era una mera “difficoltà a sottrarsi” ai voleri del marito.
Lo stesso motivo risulta aspecifico, non essendosi la prevenuta adeguatamente confrontata con il passaggio motivazionale contenuto nella sentenza impugnata, nella parte in cui i giudici di merito avevano sì valorizzato la posizione di subalternità della imputata rispetto al coniuge al momento della scelta del trattamento sanzionatorio, senza tuttavia mancare di sottolineare come la stessa dovesse rispondere dei maltrattamenti a titolo di concorso, per essersi consapevolmente sottratta all’adempimento dell’obbligo di garanzia previsto a suo carico come madre, a norma dell’art. 40 c.p.: dal momento che le carte del processo avevano comprovato come non avesse avuto remore a “denunciare” al marito, al momento del suo rientro in casa la sera, le “inadempienze dei figli, suscitando in lui la volontà di porre rimedio… educando i figli attraverso la commissione di condotte” che avevano integrato gli estremi del reato contestato.
5. Segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 22 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2020
