Massima

L’utilizzo di denaro pubblico per finalità diverse da quelle previste integra il reato di abuso d’ufficio qualora l’atto di destinazione avvenga in violazione delle regole contabili, sebbene sia funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l’adozione di un impegno di spesa da parte dell’ente; mentre, integra il più grave delitto di peculato l’atto di disposizione del denaro compiuto – in difetto di qualunque motivazione o documentazione, ovvero in presenza di una motivazione meramente “di copertura” formale – per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali dell’ente.

Supporto alla lettura

Supporto alla lettura:
• L’abuso d’ufficio è reato proprio potendo essere commesso dal pubblico ufficiale e, a seguito della riforma del 1990, dall’incaricato di pubblico servizio, nozioni per le quali si rinvia alle disposizioni di cui agli artt. 357 e 358 c.p.p. (legge 86/1990).
• Si tratta di reato di evento.
• Procedibilità: d’ufficio
• Tentativo: configurabile.
• L’articolo 23 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 l’ambito oggettivo di applicazione è circoscritto perché non sono più sanzionati sul piano penale comportamenti in trasgressione di misure regolamentari, ma esclusivamente di “specifiche regole di condotta” previste da norma di rango primario (legge o atto avente forza di legge).
• prescrizione: 6 anni
• Messa alla prova: possibile

Ambito oggettivo di applicazione

L’articolo 23 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 l’ambito oggettivo di applicazione è circoscritto perché non sono più sanzionati sul piano penale comportamenti in trasgressione di misure regolamentari, ma esclusivamente di “specifiche regole di condotta” previste da norma di rango primario (legge o atto avente forza di legge).

 

 

 

        RITENUTO IN FATTO

  1. Il difensore di fiducia di R.A. propone tempestiva impugnazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con cui la Corte d’appello di Messina, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale dello stesso capoluogo, ha ridotto ad anni tre e mesi sei di reclusione la pena inflitta al prevenuto, in relazione alla sua ribadita colpevolezza per il contestato reato di peculato, connesso all’intervenuta appropriazione ad opera dello stesso, nella veste di commissario liquidatore della ATO ME 3, di somme di cui aveva la disponibilità per ragioni d’ufficio e, segnatamente, dell’ammontare dei compensi cui pure aveva formalmente rinunciato con comunicazione del 22.12.2010, debitamente protocollata. La sentenza di secondo grado, inoltre, revocava la disposta confisca delle somme sequestrate, delle quali era ordinata la restituzione all’imputato, al passaggio in giudicato della sentenza.
  2. Cinque sono i motivi di doglianza sviluppati con l’anzidetta impugnazione, nel seguente ordine.

2.1 In primo luogo, deduce il legale ricorrente violazione di legge e vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità e/o della mancanza della stessa, “in relazione agli artt. 444 e 448 c.p.p.”: ciò perchè, a fronte della specifica censura avente ad oggetto il diniego, reputato illegittimo, dell’istanza di applicazione della pena a suo tempo avanzata, la Corte distrettuale ne ha disposto il rigetto sulla scorta della pretesa mancanza di siffatta richiesta, in palese contrasto con quanto emergente dalla stessa pronuncia del Tribunale, nel senso della correttezza della valutazione compiuta dal p.m. circa l’incongruità del trattamento sanzionatorio oggetto del proposto negozio processuale.

2.2 Secondariamente, il difensore medesimo ribadisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c), la “nullità del decreto di citazione di giudizio immediato”, in quanto intervenuto nonostante l’avvenuta proposizione del ricorso diretto per cassazione avverso la misura cautelare adottata nei confronti del R., in tal modo indebitamente privato delle sue prerogative, per effetto sia del mancato avviso di conclusione delle indagini preliminari, sia della fissazione dell’udienza, ex art. 418 c.p.p., innanzi al g.i.p., il diverso avviso espresso dalla Corte distrettuale ponendosi in contrasto con il consolidato orientamento espresso sul punto dalla giurisprudenza di legittimità.

2.3 Il terzo profilo di doglianza, ex art. 606, lett. b) del codice di rito, investe la sentenza della Corte peloritana “nella parte in cui ha ritenuto che, nel caso in questione, ricorrano le condizioni di applicabilità del T.U. Pubbl. Imp., artt. 53 e 24 incorrendo in una erronea applicazione di norme delle quali si deve tenere conto ai fini dell’applicazione della legge penale”: non sussisterebbe, infatti, la pretesa incompatibilità tra l’incarico di liquidatore presso l’ATO conferito al R. e la sua nomina a Capo di gabinetto presso lo stesso Ente comunale, per le ragioni sulle quali il ricorso ampiamente si diffonde; e, comunque, altrettanto erroneo sarebbe il richiamo al principio di onnicomprensività di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 24 che avrebbe determinato il venir meno del diritto di percepire il compenso per le funzioni anzidette di liquidatore, posto che, tutt’al contrario, “l’operatività del principio di onnicomprensività presuppone la “compatibilità” di un ulteriore incarico per il dipendente pubblico”. Non senza aggiungere come il principio medesimo valga per gli incarichi c.d. aggiuntivi, che si cumulano “ad un incarico (dirigenziale vero e proprio) per così dire principale”, laddove nella fattispecie si è in presenza di un incarico di commissario liquidatore che, in quanto antecedente alla nomina dirigenziale, non può considerarsi aggiuntivo e, in ogni caso, non presenta anch’esso “natura dirigenziale nè tanto meno ne presuppone l’esistenza ai fini del riconoscimento”, alla stregua della già rilevata anteriorità della designazione del R. come tale.

2.4 Il quarto motivo di censura ha ad oggetto la contraddittorietà della motivazione, relativamente “alla dedotta sussistenza delle cause di incompatibilità ed onnicomprensività che sarebbero il presupposto della affermata responsabilità penale per il reato di peculato”.

Fermo quanto rilevato nel precedente sub-paragrafo, osserva il ricorrente che la sentenza impugnata, dopo aver affermato l’esistenza della pretesa causa d’incompatibilità di cui si è detto, di poi, con evidente cesura di logicità, riconosce l’inesistenza di “una condizione assoluta di incompatibilità prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53”, di più finendo con l’ammettere “che l’odierno ricorrente era stato autorizzato dall’Ente di appartenenza”.

2.5 L’ultimo profilo di critica concerne la qualificazione giuridica dei fatti, che, giusta la tesi sostenuta, sarebbero comunque riconducibili non già alla figura delittuosa del peculato, bensì a quella dell’abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 c.p., in asserita conformità all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, all’esito della riforma del 1990, in caso di distrazione del denaro da parte del soggetto qualificato, “la ipotesi del peculato ricorre solo allorquando il pubblico ufficiale e/o l’incaricato di pubblico servizio” abbia utilizzato il denaro nella sua disponibilità, materiale o giuridica che sia, “per finalità che siano radicalmente estranee a quelle connesse al ruolo istituzionale svolto”. Circostanza, quest’ultima, che sarebbe qui da escludersi, stante l’impiego delle somme per ragioni funzionalmente connesse agli scopi assegnati all’Ente erogatore dalle norme organizzative sue proprie.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è fondato, nei limiti ed alla stregua delle considerazioni di cui in fra.
  2. Va prioritariamente disattesa l’eccezione di nullità formulata con il secondo motivo d’impugnazione, pur dovendosi rettificare la motivazione che il giudice d’appello ha posto a supporto della propria conforme decisione sul punto.

E’ per vero corretto il principio di diritto citato in proposito dalla Corte peloritana, a detta della quale “l’art. 453 c.p.p., comma 1 ter, nello stabilire che la richiesta di giudizio immediato è formulata dopo la definizione del procedimento di cui all’art. 309, deve essere interpretato… nel senso che tale richiesta può essere presentata dal Pubblico Ministero nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare dopo la conclusione del procedimento innanzi al Tribunale del riesame e prima ancora che la decisione sia divenuta definitiva”. Sennonchè proprio l’applicazione di tale principio – che trova fondamento nello stesso dato letterale, in ragione del carattere meramente eventuale del giudizio per cassazione di cui all’art. 311 c.p.p., nonchè nella ratio sottesa alla tipologia di procedimento di cui trattasi, per l’evidente necessità di non procrastinare un giudizio che si è voluto “immediato” (cfr. Sez. 6, sent. n. 47722 del 06.10.2015, Rv. 265877), una volta avuta conferma della sussistenza dei presupposti di legge per la privazione della libertà nei confronti dell’imputato avrebbe dovuto condurre all’agevole conclusione che, nella fattispecie, essendo stato proposto ricorso diretto per cassazione avverso l’ordinanza custodiale, a mente dell’art. 311, comma 2 del codice di rito, occorreva attenderne previamente l’esito.

Fermo quanto sopra, nondimeno è altrettanto consolidato l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, supportato dall’avallo autorevole delle Sezioni Unite, secondo cui “La decisione con la quale il giudice per le indagini preliminari dispone il giudizio immediato non può essere oggetto di ulteriore sindacato”, salva solo “l’ipotesi in cui il giudice del dibattimento rilevi che la richiesta del rito non è stata preceduta da un valido interrogatorio o dall’invito a presentarsi, integrandosi in tal caso la violazione di una norma procedimentale concernente l’intervento dell’imputato, sanzionata di nullità a norma dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 180 c.p.p.” (così Sez. U., sent. n. 42979 del 26.06.2014, Rv. 260018; conf. Sez. 4, sent. n. 14784 del 10.02.2016, Rv. 266812, nonchè Sez. 2, sent. n. 1482 del 20.09.2017 – dep. 2018, rv. 271981): ipotesi, quest’ultima, che non emerge dalla sentenza impugnata, nè da quella di primo grado, e che risulta del tutto estranea alla prospettazione difensiva, attestatasi unicamente sul mancato rispetto dei termini previsti dalla normativa processuale.

  1. Per il resto, rileva il Collegio quanto segue, nel rispetto dell’ordine di formulazione delle censure.

3.1 E’ fondato il primo motivo di ricorso.

Invero, la sentenza di primo grado riporta, fra le conclusioni rassegnate dall’imputato all’esito del dibattimento, la richiesta di “rivalutazione” dell’istanza di patteggiamento in precedenza presentata e la motivazione del Tribunale affronta doverosamente il tema, nel paragrafo dedicato al “trattamento sanzionatorio” (ivi, pag. 11): ne consegue che è all’evidenza errato l’assunto della Corte territoriale, secondo cui, a fronte dello specifico motivo di gravame avente ad oggetto il mancato accoglimento dell’istanza in precedenza formulata ai sensi dell’art. 448 c.p.p., non vi sarebbe in atti prova di siffatta richiesta.

3.2 E’ altresì fondata la terza doglianza (con conseguente assorbimento della quarta), valutata la dedotta violazione di legge sotto il preliminare profilo della mancata risposta alla censura, già formulata con i motivi d’appello: ciò cui farà luogo il giudice del rinvio, non prima di aver previamente valutato la rilevanza della prospettata questione rispetto alla decisione da assumere.

3.3 Va infine disatteso l’ultimo motivo di ricorso, formulaato in tema di qualificazione giuridica del fatto, alla luce della stessa recepita prospettazione accusatoria.

In proposito, non v’è dubbio che la corretta soluzione da adottarsi debba essere ricercata alla stregua del principio, enunciato dalla sentenza impugnata e sul quale anche il ricorrente afferma di convenire, secondo cui “L’utilizzo di denaro pubblico per finalità diverse da quelle previste integra il reato di abuso d’ufficio qualora l’atto di destinazione avvenga in violazione delle regole contabili, sebbene sia funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l’adozione di un impegno di spesa da parte dell’ente; mentre, integra il più grave delitto di peculato l’atto di disposizione del denaro compiuto – in difetto di qualunque motivazione o documentazione, ovvero in presenza di una motivazione meramente “di copertura” formale – per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali dell’ente” (così, da ultimo, Sez. 6, sent. n. 41768 del 22.06.2017, Rv. 271283). Il che non può che condurre all’esclusione dell’ipotizzata riconducibilità della vicenda in seno al paradigma delineato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 323 c.p., atteso che, appunto, nella fattispecie non si discute di un differente utilizzo delle somme auto-liquidatesi dal R. sulla base di una precisa causale, bensì della sostanziale assenza della causale dell’appropriazione, per effetto della rinuncia formalizzata dal R. medesimo, ancorchè non comunicata agli organi competenti, essendosi peraltro la Corte peloritana – come già in precedenza il Tribunale – soffermata sulla natura non recettizia di tale atto unilaterale.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2018

 

Allegati

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