Massima

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale (Art. 337 c.p.) si configura validamente nei confronti di un appartenente alla Polizia municipale poiché questi è qualificato come agente di polizia giudiziaria in virtù del combinato disposto dell’art. 5 della L. n. 65 del 1986 e dell’art. 57, comma 2, lett. b) cod. proc. pen., a condizione che agisca nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e per l’accertamento dei reati.

Supporto alla lettura

RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale si configura quando una persona usa violenza o minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale, cioè colui che esercita una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Le prime due funzioni sono riferibili a parlamentari, consiglieri regionali e giudici; la funzione amministrativa, invece, è riferibile a tutti coloro che dipendono da una pubblica amministrazione (es. medici, cancellieri, docenti, carabinieri, poliziotti ecc.)

Caratteristica fondamentale del reato di resistenza a pubblico ufficiale è che l’atto di ufficio sia già iniziato e che la violenza o la minaccia sia contemporanea allo svolgimento dell’attività.

Perché il reato sia configurabile, è necessario che:

  • la condotta dell’imputato sia attiva: deve esserci un’azione concreta diretta a ostacolare il pubblico ufficiale;
  • l’atto sia intenzionale: l’accusato deve aver agito con la volontà di impedire o ostacolare il pubblico ufficiale;
  • il pubblico ufficiale sia in servizio e stia esercitando le sue funzioni: come un controllo stradale, un arresto o un’operazione di ordine pubblico.

In altre parole, la persona che si oppone al pubblico ufficiale o all’incaricato del pubblico servizio deve influire negativamente sulla libertà di movimento del pubblico funzionario.

Il Codice Penale prevede per questo reato una pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Se vi sono aggravanti, come l’uso di armi o l’aver causato lesioni al pubblico ufficiale, la pena può aumentare. Inoltre, se il reato viene commesso in concorso con altre persone, le sanzioni possono essere ulteriormente aggravate.

Esistono tuttavia circostanze attenuanti, che possono ridurre la pena, ad esempio:

  • se l’atto di resistenza è stato proporzionato e non ha provocato danni gravi;
  • se l’imputato ha agito in stato di necessità o legittima difesa;
  • se la condotta può essere ridimensionata rispetto all’accusa formulata.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Con la pronuncia sopra indicata la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata con la quale (omissis) era stato condannato per il delitto di resistenza ai danni del Sovraintendente capo (omissis), agente della polizia municipale, intervenuto in abiti civili e fuori dal servizio per sventare una truffa ai danni di un automobilista.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso (omissis), tramite il suo difensore, con un unico motivo in cui deduce violazione di legge per avere la sentenza impugnata erroneamente riconosciuto la qualifica di pubblico ufficiale alla persona offesa, appartenente alla polizia municipale, che al momento dell’intervento era libera dal servizio e in abiti civili.

Infatti, l’art. 5, comma 5, L. n. 65 del 1986, consente agli addetti della polizia municipale di portare armi fuori dal servizio solo previa delibera del Consiglio comunale, diversamente da quanto previsto per gli appartenenti alle altre; forze dell’ordine per le quali, invece, questo è sempre consentito senza distinzioni di tempo e di spazio. Ne consegue che non si può operare alcuna equiparazione tra gli uni e gli altri e l’agente di polizia municipale è un appartenente alici polizia giudiziaria solo quando è in servizio nell’ambito territoriale dell’erte di appartenenza.

3. Il giudizio di cassazione si è svolto con trattazione scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8, D.L. n. 137 del 2020, convertito dalla I. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta nei termini di discussione orale.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. Va premesso che dalla sentenza impugnata risulta che l’agente di polizia municipale, nei cui confronti è stata esercitata la condotta di resistenza da parte del ricorrente, era intervenuto sul posto perché si trovava al Comando quando era giunta la segnalazione della presenza di un’auto con la quale si stavano perpetrando truffe nel centro di Vico Equense facendo falsamente credere, ad ignari automobilisti, di avere danneggiato lo specchietto retrovisore ottenendo un immediato risarcimento non dovuto.

3. La Corte di appello, al fine di accertare la qualifica da attribuire alla persona offesa, ha applicato il condiviso principio di diritto secondo il quale gli appartenenti alla Polizia municipale sono agenti di polizia giudiziaria in forza del combinato disposto dell’art. 5 (Funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale, di pubblica sicurezza) della L. n. 65 del 7 marzo 1986 – Legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale – e dell’art. 57, comma 2, lett. b) cod. proc. pen. purché, qi andò esercitano il loro potere di intervento, si trovino nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza” durante il servizio e rispettino le attribuzioni loro riconosciute tra le quali l’accertamento dei reati (Sez. 3, n. 31930 del 7/06/2022; Sez. 6, n. 31231 del 25/09/2020, Loconte, Rv. 279886).

Alla luce del menzionato impianto normativo, l’intervento operato dai l’agente della Polizia municipale, (omissis), va qualificato come “atto di ufficio o di servizio” in quanto: conseguente alla segnalazione, mentre si trovava all’interno del proprio Comando, di un delitto in atto, tanto da avere consentito l’accertamento di una truffa in flagranza rientrante nelle sue attribuzioni istituzionali di natura pubblicistica e nel territorio di competenza del suo ente.

Dette circostanze di fatto, non contestate, rendono privo di rilievo il dato formalistico del mero superamento del turno di servizio, dovendo attribuirsi prevalenza a situazioni di potenziale pericolo per la sicurezza pubblica e di perseguimento dei reati allorché agenti di polizia giudiziaria ne vengano a diretta conoscenza, come accaduto nella specie.

Dunque, come correttamente argomentato dalla sentenza impugnata, e ribadito dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, la locuzione contenuta nell’art. 57, comma 2, lett. b) cod. proc. pen. “quando sono in servizio” va interpretata in chiave funzionale, cioè con riferimento al rapporto di impiego e non all’orario di lavoro. Ne consegue che la condotta illecita del ricorrente è stata commessa mentre l’agente della polizia municipale compiva un atto dell’ufficio di appartenenza tanto da configurare il delitto contestato di cui all’art. 337 cuci. pen.

4. Alla luce degli argomenti che precedono il ricorso deve essere rigetta 😮 con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 12 marzo 2025.

Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2025.

Allegati

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