Massima

In materia penale, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce l’inappellabilità delle sentenze di condanna che sostituiscono la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, poiché il principio del doppio grado di merito non ha copertura costituzionale. Le garanzie di giurisdizione e difesa sono infatti assicurate dal giudizio di primo grado e dallo scrutinio di legittimità (ricorso per Cassazione). Tale scelta legislativa, che mira alla deflazione del carico giudiziario, è coerente con la natura non detentiva e la mitezza della pena sostitutiva.

Supporto alla lettura

PENE SOSTITUTIVE

Le pene sostitutive, introdotte dalla riforma Cartabia con l’art. 20 bis c.p., demandando la disciplina alla legge speciale, e precisamente al nuovo Capo III della L. 689/1981, sono un insieme di sanzioni alternative alla reclusione che permettono di sostituire la pena detentiva in alcuni casi.

Queste pene prevedono:

 la semilibertà (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 4 anni): il condannato può uscire di casa per svolgere attività lavorative, scolastiche, familiari o di pubblica utilità, con specifiche limitazioni;

 la detenzione domiciliare (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 4 anni): il condannato deve rimanere in casa, con alcune eccezioni per attività specifiche;

 il lavoro di pubblica utilità (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 3 anni): il condannato svolge un lavoro non retribuito per enti pubblici o associazioni di volontariato;

 la pena pecuniaria (in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a 1 anno): il condannato è obbligato a pagare una somma di denaro al fisco

L’applicabilità delle pene sostitutive è valutata dal giudice in base alle circostanze del reato, alla personalità del condannato e alla necessità di garantire l’effettività della pena. Il condannato deve dimostrare di essere una persona meritevole e di voler seguire il percorso rieducativo.

Le pene sostitutive possono essere applicate anche nei procedimenti pendenti, a condizione che sia stata fatta richiesta da parte dell’imputato. 

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza di cui in epigrafe il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Castrovillari ha ritenuto (omissis), (omissis) e (omissis) colpevoli del reato di maltrattamenti aggravati commessi nei confronti di alcuni ragazzi diversamente abili, ospiti del centro diurno a loro affidati per regioni di cura, assolvendoli con riferimento a singole posizioni, sostituendo la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 545-bis cod. proc. pen., rimettendo alla separata sede civile il risarcimento del danno a favore delle costituite parti civili.

2. Proponevano appello i difensori degli imputanti e la Corte di merito, ex art. 568, comma 5, cod. proc. pen., disponeva la trasmissione degli atti al giudice di legittimità, sul presupposto dell’inappellabilità delle sentenze di condanna che sostituiscono la pena detentiva con i lavori di pubblica utilità a norma dell’art. 593, comma 3, c.p.p.

3. A seguito della trasmissione degli atti a questa Corte tutti gli imputati hanno depositato memorie difensive contenenti motivi aggiunti.

4.Ricorso di (omissis).

4.1. Con il primo ed il secondo motivo di ricorso si censurano violazione di legge e vizio di motivazione in quanto, al di là dell’errata valenza probatoria attribuita ad elementi che ne erano privi, risulta errata la qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 572 cod. pen. di cui mancano i presupposti, oggettivi e soggettivi, alla luce dell’occasionalità degli episodi contestati e della doverosità degli interventi praticati dal ricorrente, viste le patologie e l’aggressività degli ospiti, per evitare più gravi conseguenze per loro stessi, per gli altri ospiti e per gli stessi operatori, tali da escludere il dolo unitario.

In particolare, si rileva come le condotte di (omissis) fossero rispondenti alle Linee guida del DSM IV TR e del Manuale Scientifico Aba Tecnici comportamentali e la sentenza impugnata non abbia tenuto conto delle giustificazioni addotte dall’imputato, incensurato e stimato volontario, elementi utili a qualificare il fatto ai sensi dell’art. 571 cod. pen. alla luce della giurisprudenza di legittimità.

4.2. Con il terzo motivo di ricorso si censurano violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la setenza non ha offerto alcuna motivazione in ordine al calcolo della pena e ai criteri utilizzati per pervenirvi.

4.3. Con il quarto motivo di ricorso si deduce l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., della norma processuale che esclude l’appellabilità delle sentenze che applicano il lavoro di pubblica utilità.

4.4. In data 9 giugno 2025 gli Avvocati (omissis) e (omissis), nell’interesse di (omissis), hanno depositato memoria contenente motivi aggiunti in cui hanno ribadito il contenuto delle censure già proposte.

5.Ricorso di (omissis)

Con un unico motivo di ricorso si deduce l’illegittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., che esclude l’appellabilità delle sentenze che applicano il lavoro di pubblica utilità per violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e 6 CEDU.

6.Ricorso di (omissis)

6.1. Con il primo motivo censura l’apparenza della motivazione fondata sulle sole cognizioni personali del giudicante che ha richiamato la violazione da parte degli imputati di non meglio precisati protocolli.

La sentenza impugnata non ha tenuto conto che la gestione di adulti con gravi problemi psichiatrici impone precise competenze scientifiche, nei termini indicati dalla consulenza tecnica specialistica della difesa che, attesa la peculiarità del contesto, avrebbe reso necessario disporre una perizia. Infatti, se si fossero utilizzati i saperi scientifici di settore, nei termini indicati dalla giurisprudenza di legittimità, le condotte di (omissis) sarebbero state doverosamente qualificate come “correttive”.

6.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce l’illegittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen. per violazione degli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost.

Motivi della decisione

1. I ricorsi devono essere rigettati.

2. Tutti i ricorrenti hanno sollecitato il Collegio a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., come sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2022, in relazione agli artt. 324111 Cost. e all’art. 6 CEDU, nella parte in cui priva l’imputato del diritto alla celebrazione di un secondo giudizio di merito in caso di condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.

2.1. La questione è manifestamente infondata per i medesimi argomenti contenuti nella sentenza Sez. 4, n. 24097 del 16/04/2024, Sergiovich, Rv. 286471, che si è già espressa sul punto, partendo dal dato che il principio del doppio grado di merito non ha copertura costituzionale, essendo garantito dalla Carta fondamentale solo un grado di merito e uno di legittimità, cosicché spetta al legislatore stabilire quando le sentenze concernenti fatti di modesta rilevanza siano soggette al solo vaglio della Corte di cassazione.

Non sussiste, quindi, alcun contrasto né con l’art. 3 Cost, né con l’art., 24 Cost. in quanto le garanzie della giurisdizione e della difesa sono assicurate dal giudizio di primo grado e dallo scrutinio di legittimità; né con l’art. 111 Cost. che prevede “il giusto processo regolato dalla legge” e, all’ultimo comma, solamente il diritto a proporre il ricorso per cassazione e, conseguentemente, con l’art. 6 CEDU, che stabilisce analoghe forme di tutela.

Peraltro, si è ha già avuto modo di escludere la contrarietà all’assetto costituzionale della limitazione al diritto all’appello da parte dell’imputato avverso sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda con richiamo alla sentenza n. 85 del 31 marzo 2008 della Corte costituzionale (Sez. 3, n. 18154 del 16/04/2021, Rossetti, Rv. 281330).

2.2. Una lettura sistematica della norma censurata consente di verificare come il legislatore abbia inteso ampliare l’area dell’inappellabilità a tutte le sentenze che dispongono pene sostitutive non detentive, consentendo l’appello contro le sole pronunce di primo grado che applicano pene sostitutive della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare, che incidono sulla libertà personale del condannato. Si tratta di una scelta che appare la conseguenza del necessario consenso dell’imputato all’applicazione della pena sostitutiva, della sua natura non detentiva e della mitezza della stessa.

La Relazione illustrativa al D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 ha spiegato l’ampliamento della pena detentiva breve sostituibile dando atto come “la valorizzazione, tra le pene sostitutive, del lavoro di pubblica utilità……concorre alla riduzione delle impugnazioni, essendo prevista dalla legge delega…. l’inappellabilità delle sentenze di condanna al lavoro di pubblica utilità, sempre sul terreno processuale, inoltre, la valorizzazione delle pene sostitutive, irrogabili dal giudice di cognizione, promette una riduzione dei procedimenti davanti al Tribunale di sorveglianza, oggi sovraccarichi e incapaci… di far fronte in tempi ragionevoli alle istanze di concessione di misure alternative, come testimonia il fenomeno dei cosiddetti liberi sospesi”.

Inoltre, la Relazione illustrativa al D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 ha indicato la “deflazione del carico giudiziario” come scopo delle norme contenute nello schema di provvedimento elaborato, da realizzare proprio con la “semplificazione dei procedimenti di appello e di cassazione”, affidata, in primo luogo, alla “riduzione dell’area della legittimazione all’appello sia per il pubblico ministero che per l’imputato, in modo da calibrare equamente il sacrificio in termini di accesso all’impugnazione” da cui, poi, le modifiche apportate al terzo comma dell’art. 593 cod. proc. pen., con l’estensione dell’inappellabilità alle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa.

2.3. In tale contesto non va trascurato come in passato la Corte costituzionale abbia già esaminato una questione analoga, dichiarando non fondata, con riferimento agli artt. 2310 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. – disposizione in seguito modificata – ove si stabiliva, in tema di giudizio abbreviato, che l’imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello nei confronti delle sentenze con le quali sono applicate sanzioni sostitutive. Nella relativa pronuncia la Consulta ha avuto modo di sottolineare che la norma censurata non determinava un irragionevole sacrificio dell’interesse dell’imputato a proporre appello, tenuto conto che le pene sostitutive hanno certamente natura meno afflittiva delle pene detentive ed operano relativamente a categorie di reati in assoluto meno gravi rispetto a quelli per cui la pena può non essere eseguita. E che, in ogni caso, quella scelta legislativa non comportava una violazione degli artt. 2 e 10 Cost., con riferimento all’art. 2, comma 1, del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 e reso esecutivo con I. n. 98 del 1990, che ha introdotto il principio secondo cui il colpevole di una infrazione penale “ha il diritto di sottoporre ad un Tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna”), in quanto, da un lato, tale disposizione non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un Tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito, ma consente anzi di ritenere che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione già previsto dalla Costituzione italiana, e, dall’altro, la garanzia del doppio grado di giurisdizione non è costituzionalmente prevista e il richiamo all’art. 10, comma 1, Cost., appare comunque incongruo, in considerazione del fatto che tale disposizione si riferisce alle norme internazionali consuetudinarie e non a quelle di origine pattizia (Corte cost., sent. n. 288 del 1997).

3. I comuni motivi di ricorso relativi alla inconfigurabilità del delitto di maltrattamenti sono infondati.

3.1. Va premesso che l’inammissibilità degli originari motivi di impugnazione è stata sanata per effetto delle successive memorie depositate dagli imputati e dei motivi aggiunti (per il solo A.A.) che hanno formalmente inquadrato i vizi denunciati nell’ambito delle categorie previste dall’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.

3.2. La sentenza impugnata, in modo logico e completo, ha ritenuto provate le condotte maltrattanti di (omissis). (omissis) e (omissis) verso alcuni ospiti del centro diurno per persone con gravi disturbi psichiatrici, gestito dall’associazione “Gocce nel deserto”, nei cui confronti avevano l’obbligo di cura, vigilanza e custodia, in base alle convergenti testimonianze dell’Appuntato Scelto (omissis) (volontario presso l’associazione che aveva ricevuto le confidenze sia della madre di un ragazzo che frequentava il centro diurno, sia di due ospiti, sia della tutrice giudiziaria di un terzo in ordine alle violenze patite nella struttura) e della madre di un giovane, affetto da un grave ritardo mentale, poi ritirato dalla struttura proprio per le violenze subite (che aveva visto arrossamenti sul collo del ragazzo, il quale vomitava tutte le mattine prima di andare al centro diurno, e le aveva rivelato che Luciana lo picchiava), prove dichiarative supportate anche dalle intercettazioni ambientali audio-video, dettagliatamente riportate nella sentenza di primo grado.

Si è trattato di prove che, in modo inequivoco e convergente, hanno dimostrato – secondo quanto ha convincentemente spiegato il giudice di merito -come i ricorrenti usassero nei confronti degli ospiti, affetti da gravi disabilità psichiatriche e perciò vittime vulnerabili, condotte maltrattanti consistite in violenze (schiaffi in viso di particolare entità, tiraggio dei capelli e delle orecchie, torsione del polso, ecc.), umiliazioni (per l’abbigliamento ritenuto sudicio), offese gratuite, urla e minacce (di tagliare una sciarpa cui una giovane ospite era particolarmente legata; “ti tiro un pugno che ti faccio saltare i denti”).

I menzionati comportamenti erano sistematicamente consumati dagli imputati, nell’espletamento delle loro attività di operatori ed educatori, soprattutto con alcuni ospiti e sebbene ciò avvenisse spesso per contenere l’uso della forza o di comportamenti non rispettosi assunti nei confronti di altri utenti o di loro stessi, per gestirne le reazioni e per ottenere l’esecuzione dei propri ordini, talvolta si trattava di condotte del tutto gratuite.

3.3. Alla luce di dette circostanze di fatto, rimaste sostanzialmente non contestate, viste le prove acquisite e l’inammissibilità di letture alternative delle intercettazioni cui il Tribunale ha fornito congrua e non illogica motivazione, la sentenza impugnata ha ritenuto configurato il delitto di maltrattamenti e non quello di abuso dei mezzi di correzione.

Secondo una linea interpretativa da ultimo consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, ma ignorata dai ricorrenti, l’uso della violenza per fini correttivi o educativi non è mai consentito (Sez. 6, n. 13145 del 3/03/2022, M., Rv. 283110; Sez. 6, n. 11777 del 21/01/2020, P.P., Rv. 278744), anche per il principio di non contraddittorietà dell’ordinamento.

Il reato di cui all’art. 571 cod. pen. presuppone l’uso non appropriato di metodi, anacronisticamente definiti dalla norma “di correzione o di disciplina”, che, in via ordinaria, soprattutto in contesti educativi o scolastici, potrebbero in astratto essere consentiti (ad esempio, l’esclusione temporanea da alcune attività ludiche, l’obbligo di condotte riparatorie, il ricorso a puntuali rimproveri, ecc.).

Se, dunque, l’uso della violenza, fisica o psicologica, è sempre illecito anche quando volto a scopi leciti (educazione, custodia, vigilanza, eccetera), in quanto la dignità e l’integrità della persona costituiscono diritti inviolabili, ciò vale soprattutto quando la violenza riguardi persone affette da disturbi psichiatrici gravi. Infatti, nei loro confronti non è logicamente e scientificamente ipotizzabile né una condotta correttiva, né una condotta disciplinatoria attesa la strutturale condizione di particolare vulnerabilità in cui versano, che non ammette “punizioni”, anche le più blande, non solo perché inefficaci, quanto perché gravemente dannose.

Il delitto di abuso dei mezzi “di correzione o di disciplina”, pur invocato dai ricorrenti, oltre ad avere delle maglie molto strette proprio in una prospettiva costituzionalmente e convenzionalmente orientata al cui vertice sono la dignità e l’integrità umana, non è mai configurabile allorché sia commesso nei confronti di persone offese che soffrono di disturbi mentali gravi, poiché nei loro confronti non si può ipotizzare un uso lecito di detti mezzi che ne costituisce il presupposto. Si tratta, cioè, di una sorta di incompatibilità ontologica.

Ulteriore argomento per escludere la configurabilità dell’art. 571 cod. pen. è che percosse, violenze anche psicologiche, minacce, umiliazioni pubbliche e gratuite, uso di un linguaggio aggressivo ed insultante costituendo atti di per sé illeciti non sono compatibili con il fine educativo (Sez. 6, n. 13145 del 3/03/2022, M., Rv. 283110), dunque, a maggior ragione con quello di trattamento, vigilanza e custodia di persone con disabilità mentale. Queste, infatti, in ragione della loro condizione di particolare vulnerabilità soggettiva, hanno il diritto a ricevere trattamenti rispondenti ad elevati standard di assistenza e qualità da parte di operatori specializzati, pre-condizione per un lavoro in strutture comunitarie con disabili psichiatrici, tenuti ad osservare approcci dialogici e non traumatici che bandiscono innanzitutto la pratica di atti di violenza o sopraffazione. Questi, infatti, per essere tali, oltre a non avere alcuna valenza terapeutica o pedagogica, nei confronti di persone particolarmente vulnerabili arrecano danni alla loro salute e alla loro dignità umana, in violazione anche dei principi etici che governano ogni trattamento medicale o sanitario.

Le comuni censure difensive confondono la necessità di doverosa vigilanza di persone affette da patologia psichiatrica con gli interventi violenti, minacciosi ed umilianti, tenuti in modo sistematico dagli imputati, in ossequio ad un generalizzato paradigma punitivo-repressivo e, talvolta, persino gratuitamente vendicativo che, alla luce delle intercettazioni audio-video richiamate, non risulta connesso a situazioni di pericolo grave ed imminente, per sé o per altri, ovvero a stati di necessità non differibili che, alle condizioni di legge, potrebbero acquisire una limitata valenza esimente ai sensi dell’art. 54 cod. pen.

4. I comuni motivi di ricorso che richiamano non meglio precisati “protocolli” seguiti dagli imputati nelle loro condotte, non tengono in alcun conto che la violenza non è mai consentita perché contraria alla dignità personale e ai diritti umani, soprattutto rispetto a soggetti che si trovano in condizione di particolare vulnerabilità per la sofferenza mentale o per le patologie psichiatriche da cui sono affetti.

La legislazione interna in materia, a partire dalla l. n. 180 del 1978 (detta legge Basaglia) e poi quella sovranazionale per le persone con disabilità – che non distingue fra fisica e mentale – recepita dal nostro ordinamento (Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, CRPD, del 13 dicembre 2006, ratificata con legge n. 18 del 3 marzo 2009 dall’Italia e con decisione 2010/48/CE dall’Unione europea) stabiliscono non solo precise regole trattamentali fondate sul rispetto della dignità personale, ma anche un obbligo di protezione e promozione più elevato proprio rispetto ai diritti delle persone con disagi mentali.

In particolare, l’art. 16, par. 1 della citata Convenzione prevede che “Gli Stati Parte adottano tutte le misure legislative, amministrative, sociali, educative e di altra natura adeguate a proteggere le persone con disabilità, all’interno e all’esterno della loro dimora, contro ogni forma di sfruttamento, di violenza e di abuso, compresi gli aspetti di genere”; l’art. 17 stabilisce che “Ogni persona con disabilità ha diritto al rispetto della propria integrità fisica e mentale su base di uguaglianza con gli altri”.

A fronte della legittimazione dell’uso della violenza ipotizzata dai ricorrenti, oltre a non assumere alcuna valenza il richiamo a testi quali il DSM-IV-TR e il Manuale Scientifico Aba Tecnici comportamentali che non la prevedeno, le Linee guida internazionali (Linee guida dell’OMS del 10 giugno 2021 “Guidance on community mental health services: Promoting person-centred and rights-based

Approaches”; Linee guida di OMS e Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani del 2023 su “Salute mentale, diritti umani e legislazione”) impongono, in tutte le pratiche adoperate nel settore della salute mentale, condotte basate sul rispetto dei diritti umani e della dignità personale, come da ultimo ribadito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2025 in tema di trattamento sanitario obbligatorio.

Alla luce di detti principi deve ritenersi corretta e logica la motivazione della sentenza nella parte in cui ha valutato i comportamenti tenuti dagli imputati, registrati in audio-video, come aggressioni, verbali e fisiche, capaci di provocare turbamento e sofferenze negli ospiti del centro e per ciò solo vietati “da protocolli specifici per questo tipo di disagi”, senza che questa possa ritenersi una valutazione meramente soggettiva del Giudice, proprio alla luce delle fonti richiamate che dimostrano come costituisca patrimonio conoscitivo diffuso tra i giuristi che qualsiasi forma di violenza o sopruso sono vietati quando riguardino modalità comportamentali assunte dagli operatori nei confronti di persone con disagio psichiatrico e, per questo, particolarmente vulnerabili.

5. La censura relativa all’omessa motivazione della sentenza in ordine alla consulenza tecnica di parte e, più genericamente, alle tesi difensive volte a dimostrare la correttezza o doverosità delle condotte tenute dagli imputati, non è fondata.

Innanzitutto, a pag. 1 della pronuncia impugnata, il Giudice di merito ha dato atto “del deposito della consulenza tecnica specialistica per (omissis)” e dopo avere illustrato, con dovizia di particolari, i singoli comportamenti maltrattanti tenuti da ciascun imputato con riferimento ad ogni singola persona offesa, per come risultanti dalle videoregistrazioni intercettate, al paragrafo V ha concluso -così dimostrando di aver tenuto conto di quella consulenza di parte – che “Le tesi a vario titolo spese dalle difese in ordine alla necessarietà degli interventi operati – oltre ad apparire smentite dalle conversazioni ascoltate, contenenti offese gratuite e penose – non si profilano fondate” così escludendo una loro qualsiasi “natura terapeutica”.

A ciò si aggiunga che i motivi proposti dai ricorrenti risultano aspecifici non avendo dato conto, come avrebbero dovuto, in quali termini la richiamata consulenza tecnica di parte, di cui non è riportato alcun passaggio utile al caso di specie, o altre allegazioni difensive avessero giustificato o reso legittime, anche dal punto di vista scientifico, le condotte maltrattanti tenute dagli imputati nel loro ruolo di operatori del centro diurno di persone con disabilità.

6. L’ultimo motivo di ricorso proposto da (omissis), relativo al trattamento sanzionatorio, è generico in quanto non si confronta con i logici argomenti adottati dalla sentenza impugnata, che ha dedicato un apposito paragrafo a detto profilo calcolando la pena sul minimo di legge, anche previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche, proprio tenendo conto dell’incensuratezza dell’imputato e dell’assenza di adeguata formazione nella gestione di pazienti affetti da patologie psichiatriche.

7. Alla luce degli argomenti che precedono i ricorsi devono essere rigettati e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali e di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio della parte civile (omissis) che liquida come da dispositivo e, per la sola (omissis), anche alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile (omissis) alla cui liquidazione provvederà il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Castrovillari, con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d. P.R. n. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato, in quanto ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

I ricorrenti, invece, non vanno condannati al rimborso delle spese processuali a favore dì (omissis), costituitosi parte civile, in quanto la richiesta è stata avanzata solo mediante il deposito di una memoria in cancelleria, con l’allegazione di nota spese, nonostante il processo sia stato trattato con discussione orale in pubblica udienza (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023 (dep. 2024), Gambacurta, Rv. 286581 – 03).

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condanna gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile (omissis) che liquida in complessivi Euro 3686,00 oltre accessori di legge.

Condanna, inoltre, l’imputata (omissis) alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, (omissis), ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Castrovillari con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d. P.R. n. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.

Così deciso il 01/07/2025

Dispone, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che sia apposta, a cura della cancelleria, sull’originale del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati in sentenza.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2025

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