Massima

È inammissibile il ricorso in materia di mandato di arresto europeo se la Corte d’Appello ha correttamente escluso il motivo di rifiuto facoltativo per reato commesso in parte in Italia, in assenza di indagini interne che manifestino l’effettivo interesse giurisdizionale dello Stato, e ha accertato l’insussistenza del rischio di trattamenti inumani o degradanti, avendo lo Stato richiedente garantito uno spazio detentivo individuale superiore ai tre metri quadrati calpestabili, al netto degli arredi fissi.

Supporto alla lettura

MANDATO ARRESTO EUROPEO

Il mandato d’arresto europeo (“MAE”) è un procedimento giudiziario semplificato di consegna ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà. Un mandato emesso dalle autorità giudiziarie di uno Stato membro è valido in tutto il territorio dell’Unione europea. Il mandato d’arresto europeo è operativo dal 1° gennaio 2004. Esso ha sostituito i lunghi procedimenti di estradizione tra gli Stati dell’UE.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Brescia ha disposto la consegna allo Stato di R. di Ni.An., destinataria di un mandato di arresto processuale perché indiziata del delitto di “organizzazione criminale finalizzata al traffico di droga”.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’indagata articolando due motivi. 2.1. Con il primo si deduce violazione di plurime disposizioni di legge.

Il tema attiene al motivo di rifiuto facoltativo derivante dall’essere stato il reato commesso in parte sul territorio dello Stato e per non essere stato accertato alcunché dalla Corte di appello.

Si sostiene che dalla stessa imputazione provvisoria emergerebbe come la ricorrente avrebbe, per conto del gruppo, commercializzato sostanza stupefacente proveniente dall’Italia.

La Corte di appello avrebbe rigettato il motivo sul presupposto, da una parte, che non risulterebbe pendente in Italia un procedimento penale avente ad oggetto gli stessi fatti e, dall’altra, perché non vi sarebbero elementi concreti per ritenere che i fatti siano stati commessi, anche solo in parte, sul territorio italiano.

Secondo la ricorrente si tratterebbe di un assunto viziato non solo perché smentito testualmente dalla imputazione provvisoria, ma anche per essere la donna stabilmente residente e domiciliata in Italia.

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge.

Il tema attiene alla indeterminatezza delle informazioni pervenute e relative alle condizioni carcerarie in R.

Sarebbe stato affermato che l’indagata, dopo la consegna, sarà trattenuta nel centro di arresto preventivo presso l’Ispettorato di polizia della contea di I. fino alla verifica della legalità e validità della misura e che, durante il periodo in custodia in questo centro, la donna sarà ospitata in una stanza di detenzione con una superficie di 10,75 m. dotata di due letti ed esclusa l’area del gruppo sanitario.

Sostiene invece la ricorrente che al detenuto deve essere assicurato uno spazio minimo di 3 mq. escludendo dalla superficie utile gli oggetti immobili tra cui il letto, sicché le informazioni ricevute non sarebbero sufficienti ad escludere il rischio di trattamenti inumani e degradanti per la mancata specificazione che all’interno delle celle possono essere ospitate al massimo due persone, che alla ricorrente sarà garantito il colloquio con i familiari e che sono previste attività trattamentali idonei a compensare la “detenzione in ambito, ipoteticamente, non idoneo” (così il ricorso).

                                                                          Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Quanto al primo motivo, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio di diritto sulla portata del motivo di rifiuto obbligatorio di cui all’art. 18 bis, comma 1, lett. a), legge (Omissis) 69 del 2005, secondo cui quando la richiesta di consegna riguarda fatti commessi in parte nel territorio dello Stato, tale motivo è ravvisabile solo quando sussiste non un potenziale interesse dell’ordinamento interno ad affermare la giurisdizione, ma una situazione oggettiva, dimostrata dalla presenza di indagini sul fatto oggetto del mandato di arresto, sintomatica dell’effettiva volontà della Stato di affermare la propria giurisdizione (Sez. 6, n. 27992 del 13/06/2018, H., Rv. 273544).

Si tratta di un motivo di rifiuto facoltativo: dalla circostanza del collegamento del reato oggetto del mandato di arresto europeo con il territorio nazionale (che potrebbe essere giustificato anche dal verificarsi in Italia di un solo “frammento” della condotta) non deriva un automatico rifiuto della consegna, posto che va verificato concretamente caso per caso l’interesse dello Stato italiano ad affermare la propria giurisdizione.

Interesse che, nella specie, è stato ritenuto dalla Corte di appello non sussistente, stante la mancanza in Italia di indagini sul medesimo fatto.

3. Non diversamente è infondato, il secondo motivo di rifiuto.

La Gran Camera della Corte di Giustizia nella sentenza 5 aprile 2016 (C404/15, Aaranyosi, e C-659/15, Caldararu) ha affermato che l’esecuzione del mandato di arresto europeo non può mai condurre ad un trattamento inumano o degradante.

Il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta corrispondente all’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, rappresenta, infatti, un valore fondamentale dell’Unione europea, avente carattere assoluto, in quanto strettamente connesso al rispetto della dignità umana.

È, pertanto, onere dell’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, che decide in ordine alla consegna, in presenza di rischi concreti di violazione dell’art. 3 CEDU (e 4 CDFUE), valutare se sussista un concreto pericolo che tali trattamenti si verifichino a danno dei soggetti detenuti nello Stato membro emittente.

Tale valutazione deve essere condotta sulla base di “elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione”.

La Corte di Giustizia ha, inoltre, precisato che “tali elementi possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite”.

4. La Corte di cassazione, in adesione alle indicazioni provenienti dalla Corte U.E., ha da tempo stabilito quale sia il controllo che la Corte di appello deve effettuare allorquando sia rappresentato dalla persona richiesta in consegna, sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati, il serio pericolo di essere sottoposta ad un trattamento inumano e degradante nello Stato 3 di emissione (tra le tante, Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, The, Rv. 269211).

Una volta accertata l’esistenza di un generale rischio attuale di trattamento inumano da parte dello Stato membro, attraverso fonti affidabili, deve, infatti, essere verificato se, in concreto, la persona oggetto del mandato dì arresto europeo potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano.

Deve essere svolta dunque un’indagine mirata ad accertare, attraverso informazioni “individualizzate” che devono essere richieste allo Stato di emissione, quale sarà il trattamento carcerario cui concretamente il consegnando sarà sottoposto con riferimento a quegli aspetti ritenuti dalle fonti affidabili critici, in quanto costituenti situazioni di rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti.

Ove il tenore di dette informazioni escluda siffatto rischio, la Corte di appello deve limitarsi, in conformità al principio del mutuo riconoscimento, a prendere atto delle stesse e procedere alla consegna, senza poter pretendere garanzie di sorta sul rispetto delle condizioni di detenzione (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, in motivazione; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, The, Rv. 269211; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, in motivazione).

Qualora, invece, tale rischio non sia escluso e la Corte di appello rifiuti la consegna, la sentenza che decide sulla consegna deve considerarsi emessa “allo stato degli atti”, così da poter essere sottoposta a nuova valutazione, laddove l’ostacolo alla consegna dovesse venir meno (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, in motivazione; Sez. 6, n. 35290, 19/07/2018, Sniadecki, Rv. 273780).

5. Il tema attiene inoltre alle condizioni specifiche carcerarie e alla individuazione dello spazio minimo individuale, secondo i criteri individuati dalla giurisprudenza della Corte EDU e ripresi anche dalla giurisprudenza di legittimità.

La Corte di Strasburgo, nel tentativo di individuare uno standard minimo unitario applicabile in tema di spazio personale dei detenuti in una cella collettiva ha fatto riferimento alla superficie calpestabile (floor space) di almeno tre metri quadrati per detenuto, tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente fra gli arredi (Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia; Corte EDU, 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia; Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016, Muri e c. Croazia).

Si afferma, pertanto, che la presenza di uno spazio inferiore a tale soglia minima crea una forte presunzione, sia pure relativa e confutabile dallo Stato interessato, che le condizioni di detenzione integrino un trattamento degradante.

Tale presunzione iuris tantum è, infatti, superabile allorché sia dimostrata l’esistenza di fattori che, cumulativamente, siano in grado di compensare la mancanza di spazio vitale, ovvero: a) la brevità, l’occasionalità e la modesta entità della riduzione dello spazio personale; b) la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di attività all’esterno della cella; c) l’adeguatezza della struttura, in assenza di altri aspetti che

aggravino le condizioni generali di detenzione del ricorrente (Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016, Muri c. Croazia).

I criteri affermati dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo sono stati recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte che, da ultimo, pronunciandosi a Sezioni Unite in tema di rimedi risarcitori nei confronti dei detenuti o internati, previsti dall’art. 35-ter ord. pen., ha affermato che nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello.

Il Supremo Consesso ha, inoltre, affermato che i fattori compensativi, costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se congiuntamente ricorrenti, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati, mentre, nel caso di disponibilità dì uno spazio individuale compreso fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi concorrono, unitamente ad altri di carattere negativo, alla valutazione unitaria delle condizioni complessive di detenzione (Sez. U, n. 6551 del 24/09/2020, dep. 2021, Rv. 280433 – 02).

Coerentemente con i canoni di giudizio elaborati dalla Corte EDU, la giurisprudenza di questa Corte ha, inoltre, escluso il “serio pericolo” che la persona ricercata venga sottoposta a trattamenti inumani o degradanti qualora dallo Stato richiedente venga garantito al detenuto uno spazio non inferiore a tre metri quadrati in regime ed. “chiuso”, ovvero uno spazio inferiore, ma in presenza di un regime c.d. “semiaperto”, ossia in presenza di circostanze che consentano di beneficiare di una maggiore libertà di movimento durante il giorno, rendendo in tal modo possibile il libero accesso alla luce naturale e all’aria, sì da compensare l’insufficiente assegnazione di spazio.

In tale evenienza, infatti, ove sia riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadri, è necessario, al fine di escludere o di contenere detto pericolo, che concorrano le seguenti circostanze: 1) breve durata della detenzione; 2) sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività; 3) dignitose condizioni carcerarie (Sez. 2, n. 27661 del 5 II Consigliere estensore II Pr Pietra Silv stri Er Depositato in Cenceliedli oggi, – 5-20,5 nte rile 13/07/2021, Zlotea, Rv. 281554; Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, P., Rv. 271577). 6. La Corte di appello non ha fatto corretto

6. La Corte di appello ha fatto corretta applicazione di principi indicati.

Si è fatto riferimento al contenuto delle informazioni acquisite dallo Stato di emissione e si è spiegato, in particolare, come la ricorrente, se consegnata, sarà trattenuta nel centro di detenzione e arresto preventivo presso l’Ispettorato di polizia della contea di Iasi fino alla verifica della legalità e validità della misura e che, durante il periodo in custodia in questo centro, la donna sarà ospitata in una stanza di detenzione con una superficie di 10,75 m. dotata di due letti ed esclusa l’area del gruppo sanitario.

Dunque, ha aggiunto la Corte, una cella di oltre 10 metri in cui, nel caso di condivisione dello spazio, sarà comunque assicurata una superficie di 5,37 mq. alla ricorrente, esclusa l’area del gruppo sanitario.

Sulla base di tale presupposto, nulla di specifico è stato dedotto sul perché, nel caso di specie, vi sarebbe il rischio in concreto di un trattamento carcerario degradante o inumano.

7. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

 
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 22, comma 5, legge n. 69 del 2005.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2025.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2025

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